Rileggiamo Dante al tempo del coronavirus
Pensavo che lo stato d’animo di Dante all’inizio del viaggio escatologico, e durante tutta la discesa negli inferi, ben si addica al nostro sentimento di attesa, di paura e di speranza in questi tempi inaspettati di pandemia. Viene spontaneo pensare alla selva oscura in cui il Poeta si è trovato ed al timore crescente provato da lui in quella zona selvaggia, tanto amara “che poco più è morte”. La speranza della salvezza gli viene dalla vista di un colle, ma le cose non sono così semplici. Infatti, gli appare una lince che gli ferma il passo (simbolo della lussuria), poi un leone (sinonimo di superbia), il quale fa tremare l’aria intorno col suo ruggito. Ed ecco il peggio: la lupa (l’avarizia, causa di tutti i mali), magra e rabbiosa:
Questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza dell’altezza.
Ma, guarda un po’ le vie misteriose della Provvidenza: insperatamente, appare sul colle, avvolto dai primi raggi del sole, Virgilio, che lo salva dal pericolo, invitandolo a compiere, sotto la sua guida, il viaggio nell’oltre tomba. Ciò è stato stabilito in Cielo: è l’unico modo per uscire dal pericolo. Dante accetta: altro non può fare, ma appena entra nell’Antinferno, è colpito dal dolore delle punizioni:
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere senza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Siamo appena al terzo canto. Il quale si conclude con un’estrema risposta di Dante al dolore che sente per quelle anime così straziate: appena Virgilio ha terminato di spiegargli alcuni particolari, avviene il terremoto:
La buia campagna
tremò sì forte che de lo spavento
la fronte di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento
che balenò una luce vermiglia
la qual mi tolse ciascun sentimento
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
Peggio ancora andranno le cose nel quinto canto, fra i lussuriosi, dopo che Francesca ha narrato la sua vicenda d’amore con Paolo, il quale piange abbracciato a lei come se la passione durasse ancora dopo la morte. Dante addirittura non regge alla commozione:
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Siamo al colmo delle reazioni di un Dante spaventato, addolorato dalle punizioni ai peccatori. E per tutta la discesa nell’Inferno gli spettacoli orribili aumentano, fino al turbamento nato dalla visione di Lucifero che maciulla, nelle tre bocche, i traditori del fondatore della Chiesa e del fondatore dell’Impero: Giuda, Bruto e Cassio.
Lì siamo al centro della Terra. Da quel punto estremo non si può che risalire. Infatti, arrampicatisi (Dante e Virgilio) per la “natural burella”, escono dall’Inferno e vedono il cielo, finalmente il cielo sulla riva del monte del Purgatorio. Come a significare che non bisogna deporre mai la speranza. Ed ecco i versi ai quali ci attacchiamo anche noi, certi che prima o poi il coronavirus finirà e noi rivedremo le stelle, con l’insegnamento che da questo pericolo dobbiamo trarre: amare la vita nelle sue piccole-grandi cose, proprio quelle che sembrano scontate e che oggi ci mancano. Dante è alla fine del viaggio nel regno amaro, e noi riportiamo le due terzine caudate, leggendole coralmente come un generale buon augurio:
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e senza cura aver d’alcun riposo,
salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch’io vidi delle cose belle
che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
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