Riflessioni a margine del motu proprio “Summorum Pontificum cura”
Di qui a poco, il giorno 14 settembre, entrerà in vigore il motu proprio che, promulgato nel luglio scorso, concede ampia libertà di celebrare la messa secondo l’antico messale del concilio di Trento, revisionato l’ultima volta nel 1962 sotto il pontificato di Giovanni XXIII. Chi scrive non è un denigratore del latino, che personalmente ritengo una splendida lingua. E neppure un denigratore del rito, cosiddetto, “di San Pio V”, una bella liturgia che è stata, per secoli, punto di riferimento della pietà cattolica in gran parte del mondo. Si deve altresì riconoscere che il nuovo messale romano (che non fa capo, peraltro, a una teologia eucaristica nuova e diversa dalla precedente) ha rappresentato solo di rado un salto di qualità nella celebrazione liturgica, che il più delle volte nelle nostre chiese appare o sciatta o, peggio, infarcita di un sensazionalismo che con il religioso raccoglimento ha poco o niente a che fare. Va nondimeno riconosciuto, tuttavia, che il sostegno all’antica liturgia ha accompagnato, sin da quando il nuovo messale romano entrò in vigore, un’ecclesiologia che si connota per una forte componente nostalgica e massimalista, che rigetta l’ecumenismo, la libertà religiosa (“non si può mettere l’errore sullo stesso piano della verità!”), la libera ricerca in ambito teologico. È questo il pensiero dei “sedevacantisti” dell’Istituto “Mater Boni Consilii”, è questo, seppure in termini più smussati, il pensiero teologico a cui si richiamava monsignor Lefebvre, e a cui si richiama tutt’ora la sua Fraternità di San Pio X, almeno di quella parte che, a seguito dello scisma del 1988 che indusse alla scomunica di monsignor Léfebvre, non rientrò nella piena obbedienza all’autorità del Papa, pur continuando a celebrare la liturgia tridentina, che fin dal 1984 l’indulto Quattuor abhinc annos concedeva apertamente di celebrare, seppur con alcune non trascurabili limitazioni. Un argomento principe di questi settori del cattolicesimo, ormai da decenni ripetuto, è che in sostanza, la crisi che ha investito la Chiesa Cattolica nella seconda metà del secolo scorso sarebbe dovuta, in sostanza, al suo cedimento al “modernismo”. Tale argomento, che attribuisce la crisi della chiesa (che pure non può negarsi) a un fattore puramente intrinseco, è palesemente falso. La crisi deriva, al contrario, da fattori prettamente estrinsechi: l’industrialismo, la crisi e poi l’estinzione di fatto delle comunità rurali, la prevalenza delle grandi città sulla campagna, la crisi della famiglia, l’affermazione della società dei consumi e di valori individualistici… sono questi i fattori che hanno determinato la crisi delle vocazioni, la diminuzione della pratica religiosa, lo svuotamento dei conventi, non certo le tanto vituperate “aperture” del Concilio, senza di cui la Chiesa Cattolica romana sarebbe oggi ridotta molto peggio di quanto non sia. Il motu proprio promulgato da Benedetto XVI un paio di mesi or sono potrebbe essere provvidenziale per disinnescare tensioni già in atto e altre potenziali. Con esso si mette in chiaro che a diverse sensibilità liturgiche, parimenti legittime, non possono corrispondere una mutevolezza e una cangiabilità dell’ecclesiologia a seconda degli umori del momento. Si tratta, in fin dei conti, di un rifiuto (almeno in ambito teologico) del progressismo: per una chiesa bimillenaria riformare non significa negare il passato, e sostenere, fosse pure implicitamente, che quel che è antico, per il semplice fatto di esserlo, non è più buono. È un chiaro monito a quei fautori del rinnovamento e del Concilio che sono subito pronti a strapparsi i capelli quando si tratta di riconoscere non le ragioni, ma la stessa esistenza di chi non la pensa come loro, e che oggi denunciano una “rottamazione del Concilio”. Ma è anche un monito ai tradizionalisti, che in più di un’occasione sono venuti meno all’obbedienza all’autorità ecclesiastica, per difendere quella che loro considerano “la Tradizione”. Un conto è far valere con gli argomenti la propria sensibilità liturgica (del resto mai conculcata dall’autorità ecclesiale, ma tutt’al più non sempre adeguatamente riconosciuta), la propria peculiare concezione della spiritualità, il proprio attaccamento a specifici valori dell’apologetica cattolica, cose che manifestano un legittimo e sano patrocinio delle cause in cui si crede. Altro è tacciare di apostasia o peggio larga parte del mondo cattolico e gli stessi pastori della chiesa, operare delle ordinazioni di vescovi e sacerdoti che, sebbene non invalide, sono gravemente illegittime, e tacciare come “protestantica” una liturgia promulgata dal Sommo Pontefice quasi quarant’anni or sono, e che ormai costituisce anch’essa parte integrante di quella famosa Tradizione a cui si dice di essere attaccati. Sono prove, queste, di un’indocilità non molto diversa da quella di un Lutero che inizialmente non aveva alcuna intenzione di fondare una chiesa: voleva semplicemente (anche lui!) difendere la Tradizione…
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