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Ricordando quel 16 marzo 1978

Ricordando quel 16 marzo 1978
Aprile 12
12:22 2010

lanciotti-Quel-16-marzo-197Si stenta a ricostruire il filo di ciò che avvenne in quei tumultuosi anni settanta, a rimettere in fila gli avvenimenti di quel periodo passato alla storia come “gli anni di piombo”. Fu una vera escalation verso un punto di non ritorno che vivemmo quasi in trance, incapaci forse di assorbire d’un colpo tutta quella valanga di stravolgimenti o forse troppo presi dal nostro stesso lacerante dilemma, dibattuti tra ciò che eravamo stati e non eravamo ancora, fra archetipi saltati ed embrionali forme di coscienza. Poi ci fu un giorno in cui il tempo si fermò, come era già accaduto per l’assassinio di Kennedy nel ’61. Momenti che restano impressi nella memoria con una chiarezza sconcertante. Quel 16 marzo 1978 in mattinata io mi trovavo all’istituto per ragionieri e geometri “Michele Amari” alla Pantanella, dove mia figlia era iscritta al secondo anno. Ero stata convocata d’urgenza e potevo immaginare il motivo, si parlava in quel periodo di agitazioni in quasi tutte le scuole e maggiormente in un istituto tecnico frequentato quasi esclusivamente da studenti maschi. Ero in attesa di venir chiamata nell’ufficio del preside, quando un movimento strano si verificò all’interno della scuola, si vuotarono le aule e si riempirono i corridoi e tutti parlavano concitatamente e a bassa voce, e presto lo sgomento generale dilagò. Si era appresa per radio la notizia del rapimento di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque agenti di scorta e l’allarme scattò dentro ognuno di noi, un allarme spaventoso. Da quel momento calò un clima pesante che si ripercosse nella vita di ognuno: continui blocchi stradali, polizia in assetto di guerra, perquisizioni e fermi. Aldo Moro viene ritrovato cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 il 9 maggio in via Caetani a Roma e si scatenano le polemiche sulla conduzione delle trattative con i brigatisti suoi rapitori. Gli interrogativi restano aperti, le congetture fanno tremare il sistema.
Nella notte tra l’8 e il 9 maggio muore a Palermo dilaniato dal tritolo Giuseppe Impastato. “Incidente sul lavoro”, così viene archiviato in un primo momento il caso, passato sottotono perché proprio in quelle ore viene “restituito” il corpo del Presidente Moro. “Forse suicidio, forse fallito tentativo dinamitardo”, si scrisse in seguito sui giornali. “L’ha fatto ammazzare Tano Badalamenti”, disse subito la madre, e questa risultò essere la sola verità: l’11 aprile 2002 condanna all’ergastolo di Don Tani Badalamenti, “malacarne”.
Peppino, figlio del ’68, aveva rotto col padre mafioso e con la mafia diventando la cattiva coscienza di Cosa Nostra. È il momento delle radio libere e Peppino va in giro col suo camioncino e la sua radio Onda Pazza a sparare a zero contro “Tano seduto”, nell’indifferenza generale del popolo omertoso. Con lui un pugno di amici e collaboratori che gli resteranno sempre accanto e piangeranno la sua morte come la fine di una speranza di riscatto.
Vanno in giro con i loro cartelli provocatori e quando la gente si volta dall’altra parte essi girano in tondo fino a piazzarglieli sotto il naso. “La mafia uccide, lo stato ringrazia” denunciano senza mezzi termini e senza mezze misure, attirandosi nascoste simpatie e palesi riprovazioni.
Al funerale di Peppino Impastato accorreranno giovani da ogni parte della Sicilia e da quel momento la sua casa diventa meta di pellegrinaggio, un conforto per la madre che continuerà a ripetere: “Non chinare mai la testa”.

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