Recensione di “Lettera a un Giudice”
Ho letto il libro di un autore irpino, intitolato “Lettera a un Giudice”. È un romanzo scritto in forma epistolare che racconta l’amara vicenda, non autobiografica, di un “secchione” (inteso in un’accezione simpatica e goliardica) che, non essendo raccomandato, fallisce la prova di un concorso per dirigenti pubblici, per cui decide di rivolgersi ad un magistrato per offrire libero sfogo al suo sdegno contro la corruzione ed il malcostume della società. La trama narrativa è ambientata in un paese immaginario (neanche troppo) denominato Repubblica dei Pomodori. L’idioma nazionale è il pomodorese, i gendarmi sono pomodoresi, tutto è pomodorese. Certo, l’autore non sembra essersi arrovellato troppo con l’immaginazione per inventare altri nomi di fantasia. Non mi pare tanto originale nemmeno l’idea ispiratrice che ha stimolato la narrazione di questo novello, aspirante Sciascia irpino. La passione per lo scrittore siciliano si arguisce facilmente dai frequenti richiami alle opere e ai personaggi sciasciani: Candido, A ciascuno il suo, Il giorno della civetta ed altre citazioni contenute nel romanzo. Ma il tratto che risulta meno originale, quasi conformista e addirittura banale, risiede in uno spunto ideologico di tipo moralistico o (come si direbbe oggi nel lessico corrente) di stampo giustizialista. Questa mia valutazione critica non vuol sembrare affatto una stroncatura nei confronti della prima fatica letteraria di questo autore mio conterraneo. Il quale è un intellettuale assai esperto in lettere classiche, un umanista ed un critico letterario, per cui non potrei mai competere con l’autorità e l’erudizione di tale studioso. Non possiedo la competenza, la perizia necessaria ad esprimere un giudizio pertinente sul piano squisitamente tecnico-letterario. Mi limito ad osservare che il registro stilistico del romanzo, per quanto lieve e scorrevole, nient’affatto stucchevole, volgare o dozzinale (ed è già tanto di questi tempi) non risponde al mio personalissimo gusto estetico. Trattasi, dunque, di un giudizio assai soggettivo e relativo. Il romanzo si legge tutto d’un fiato, è leggero e mai tedioso, ma non sono riuscito ad intravedere il fuoco che infiamma il vero genio artistico, l’inquietudine interiore, il pathos che assale lo “spirito guerriero” dello scrittore e del poeta. Per me la letteratura e l’arte non sono uno “specchio” che riflette il mondo reale, bensì una sorta di “martello” che picchia sull’incudine con furia, fatica e sofferenza per plasmare e per modificare lo stato di cose esistente. Scrivere, dipingere, scolpire, suonare, danzare, recitare, esigono un ardore militante, una tensione civile, una pulsione rivoluzionaria. È una battaglia in cui l’artista si cimenta in modo indiretto, senza avere tessere di partito. Ciò accende ed esalta il valore più autentico dell’arte, che altrimenti non sarebbe in grado di esternare assolutamente nulla. Aggiungo una chiosa conclusiva, ma non certo esaustiva. Non basta saper scrivere per fare di un autore qualsiasi un grande scrittore.
Lucio Garofalo
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