Racconto d’inverno
Gran brutta festa l’Epifania! Non solo perché tutte le feste si porta via, come suona il proverbio. È perché quel giorno lì essendo l’ultimo di festa, è proprio quello in cui si accumulano tutti i compiti evitati durante le vacanze di Natale. Ma, soprattutto, perché sembra una metafora della vita. Dopo tanto mangiare, giocare, godere la libertà dalla scuola, mentre le vacanze davanti si stendono infinite, dopo tanto vivere insomma, arriva lei, la malinconia del tramonto, l’ultimo giorno, l’Epifania. E quei quattro regalucci che si rimediano per la circostanza appaiono quasi un premio di consolazione, un po’ come la buonuscita dopo il lavoro, che l’aveva presa il nonno e gli ci avevano fatto la sua cameretta. Lui faceva fatica anche a scartarli quei regali della Befana, e, per principio, non ci giocava mai se non nel pieno di gennaio, il mese più disperato dell’anno. Questa truffa poi della Befana, che ormai non ci credevano nemmeno i bambini piccoli piccoli, figurarsi lui che aveva già otto anni. E a Babbo Natale nemmeno credeva. Se lo erano inventato dopo, altro che diversa tradizione, nordica! Doveva essere per quella storia della società maschilista, che non sapeva bene cosa fosse – forse un modo di vestirsi? – ma se ne parlava tanto in giro in quegli anni, gli anni ’70. E lui aveva capito che, insomma, gli uomini erano migliori delle donne. Ma le donne, che cucinano e puliscono la casa, si erano scocciate e si ribellavano. Quindi, per rivalsa contro le donne, era venuto di moda ‘sto Babbo Natale, perché gli uomini si vendicavano e non gli stava bene che i regali li portasse una donna, per di più vecchia e brutta, magari con qualche porro disgustoso in faccia, una specie di Strega Nocciola di Topolino.
Invece Topolino gli piaceva proprio, perché era piccolo, nero e bruttino, ma intelligentissimo e faceva tante scoperte e avventure. Un po’ come voleva essere lui da grande. Così gliela avrebbe fatta vedere a quei compagni che lo prendevano in giro, hai la pancia grossa, le gambe corte, sembri uno gnomo … Era stato il papà che, per farlo contento, ma soprattutto per fargli imparare un po’ di Italiano decente, visto che non studiava mai, gli aveva regalato il primo Topolino. Glielo aveva portato una sera, che era a letto con la febbre, e così, per estenuazione, l’aveva preso e sfogliato. Che se fosse stato bene, altro che leggere, glielo avrebbe tirato dietro, perché a lui invece piaceva correre e saltare. Poi, vedendo che lo leggeva senza protestare, il papà aveva continuato a comprarglieli. Puntuale, ogni settimana arrivava il giornalino. E se qualche volta saltava il giorno dell’uscita perché il padre si era dimenticato, erano capricci e brutti musi a non finire. Finché non era stato necessario montare delle mensole, per quanti ce ne erano, e per non tenerli buttati dove capitava. Gliele aveva fatte il papà, segate e sagomate con le sue mani, e sistemate nella cameretta nuova. Così che la parete sembrava tutta gialla, come il dorso di quei giornalini, e perciò lui la chiamava la parete gialla. E guai a chi la toccava. La mamma non ci poteva nemmeno spolverare, perché se lui trovava un giornalino rovesciato, o, addirittura se, spostandoli, ci si era fatta qualche orecchietta nelle pagine, gli urli arrivavano al cielo. Il piccolo nemmeno ci poteva mettere piede nella sua cameretta. Quel mostriciattolo, che da quando camminava si infilava dappertutto! E siccome non parlava ancora bene, faceva pure finta di non capire, come se fosse un alieno appena sbarcato sul pianeta. Quando era proprio piccolo piccolo, ‘sto fratellino quasi gli faceva tenerezza, e se glielo affidavano da tenere in braccio – pochi secondi, ovvio, mentre la mamma aveva le braccia occupate – gli pareva di volergli perfino bene. Ma solo perché era così paffuto e morbido, e gli sorrideva con la boccuccia sdentata, con un dentino solo. Quando però aveva capito che tutte le attenzioni dei genitori se le catturava lui, e gliele davano tutte vinte, aveva cambiato registro. E appena glielo mettevano in braccio per qualche momento, infilava la mano sotto il coprifasce e pizzicava con tutta la forza. Gioia sublime sentirlo urlare di dolore! Nonché scusa per ridarlo al primo che passava – tieni, non so come fare, piange!
Così, anche quell’Epifania si presentava come al solito. Disastrosa. Ma c’era una novità che lo teneva in ansia. Arrivava il grande regalo. Lo aveva puntato già a novembre nella vetrina del giocattolaio, e con lunghe manovre di avvicinamento aveva trascinato i suoi, fingendo di passarci davanti per caso. Prima il padre, più sensibile alla tecnica. Poi la madre, che di fatto teneva i cordoni della borsa. E quel giocattolo costava proprio tanto. Era un mappamondo, fatto di tanti minuscoli tasselli di legno, e dentro si illuminava, e ruotava lentamente secondo il moto della terra. L’unica seccatura era il fatto di doverlo montare. Ma, tempo al tempo, anche quel lavoro lo avrebbe affibbiato al padre. E lui si sarebbe goduto soltanto il risultato finale! Perché le cose che richiedono tempo, a cui bisogna lavorare lo annoiavano. Lui voleva afferrare, toccare, usare, e poi passare ad altro, perché si stancava subito delle cose. Nessuno gli aveva insegnato che il tempo che le cose richiedono è un valore aggiunto, che il sacrificio e lo sforzo della conquista sono premio più grande della conquista stessa. Non per cattiva volontà, o perché queste cose i suoi genitori non le sapessero, ma avevano troppo da fare. Il padre lavorava, tanto, con le mani. Tutto sapeva fare con quelle mani grandi, tagliare, piallare, incollare. Montava bellissime vetrine e decorazioni per i migliori negozi della città, che se lo rubavano l’un l’altro. E lui era felice come un bambino di poter inventare uno sfondo, una scena su cui le merci, salumi o cappelli, non importava, risaltassero e facessero sognare chi guardava, guadagnare chi vendeva. Così che spesso la sera, anche d’inverno, con la scusa di fare due passi, usciva e si andava a riguardare il lavoro di tutto il giorno. E lì, nella vetrina illuminata del negozio ormai deserto, nella strada silenziosa e senza più passanti, le sue ‘creature’ sembrava gli ammiccassero e lo ringraziassero di aver immaginato per loro quei fondali sontuosi, quelle cascate di luci. I manichini si pavoneggiavano, in cappelli e pellicce sullo sfondo del vulcano innevato o di strade affollate della città; mentre i prosciutti ostentavano la propria opulenza grassa su architetture di scale e tiranti. E poi, se capitava, il papà si fermava anche al caffè, a bere qualcosa. Ma non era bene quando questo succedeva. Perché quando tornava era come scontento e nervoso, e non gli stava bene niente di quello che trovava a casa. Come se quei liquori lo attirassero in un precipizio di rabbia e malinconia. La mamma invece non rientrava prima delle nove, tutte le sere che Dio mandava. Solo la domenica no. Così che i compiti cominciavano dopo la cena. E per forza che non gli piaceva andare a scuola! Se i compiti dovevano cominciare proprio quando, ben sazio, gli veniva quel bel sonno facile, e irresistibile. Tutto il pomeriggio vuoto, o a baliare il mostriciattolo. E poi, al momento in cui sarebbe scivolato subito nel sonno, magari dopo aver sfogliato un Topolino nel suo lettino, arrivavano i compiti. E non riusciva a concentrarsi, gli sembrava di non conoscere più nemmeno quelle cose che a scuola credeva di aver capito benissimo. Mentre la mamma, che avrebbe dovuto aiutarlo, lo sgridava perché non stava attento, e si abbandonava sfiancata sulla sedia. Stravolta da tutte quelle ore lì al grande magazzino, in piedi, che la sera la schiena non se la sentiva più, era un solo blocco pesante e dolente, da sotto il seno in giù, fino alle anche. E certo! con tutto quello stare in piedi, a seguire le clienti, da un abito all’altro, da una camicetta ad una gonna. E nei camerini poi, che se si fossero rubate qualcosa, l’avrebbe dovuta ripagare lei. E, dopo, riporre tutta la roba tirata fuori nelle scansie e nei cassetti a cui apparteneva. Magari senza che avessero comprato proprio niente! Quelle oche grasse e ricche, che a fine acquisti tornavano a casa e mica dovevano cucinare e mettere a tavola. No, trovavano la cameriera in crestina a servire, e il marito gentile, che magari faceva pure i complimenti per il bel gusto nella scelta degli abiti. Così la sua giornata non finiva mai prima di mezzanotte. Quando andava bene! Perché, se il padre tornava dopo essere stato al bar, lui se la filava subito nella sua cameretta. Chiudeva bene la porta, qualche volta anche con un giro di chiave, ma dato piano piano, ché non voleva sentissero di là la sua paura. Ma non riusciva mica a dormire. Se ne stava nel lettino al buio, gli occhi spalancati, drizzando le orecchie per sentire cosa succedeva. Per lo più non c’erano grida, ma solo rumori, come di sedie che sbattessero, tonfi, mobili che si spostavano. E finché non era sceso il silenzio non riusciva a dormire. Il parroco, che gli faceva il catechismo per la prima Comunione, aveva detto ai bambini che quando avevano paura dovevano pregare, e Gesù li avrebbe protetti. Qualche volta ci aveva provato, ma non ci riusciva nemmeno a dire l’Avemaria, ché il pensiero era di là. E il cuore gli si faceva grosso e batteva strano, come se avesse avuto due piani, al piano di sotto andava normale, ma all’altro, quello sopra, batteva leggero e veloce come le ali di una farfalla. Solo quando era tutto tranquillo, allora riusciva a dormire. E una notte che gli era venuto di fare un goccio d’acqua ed era sgattaiolato piano fuori dalla camera, aveva visto la luce ancora accesa in cucina. Là aveva trovato la mamma per terra, che piangeva. Era da allora che gli era cresciuto ancora di più quell’odio dentro, non sapeva perché e contro chi. Contro tutti, pure se stesso. Da allora, quando vedeva il padre con una faccia strana, si metteva giù e fingeva di dormire. Oppure, se capiva che la cosa poteva girare contro di lui, preveniva i danni, e fingeva di sentirsi male. Aveva imparato così bene, che riusciva pure a impallidire trattenendo il respiro, e si piegava sul tavolo lamentando il mal di pancia. In casi estremi fingeva uno svenimento, si buttava giù come morto. E allora quei due si occupavano un po’ di lui, che hai, svegliati. Poi qualcuno suggerì che ci voleva l’ammoniaca per gli svenimenti, e la mamma teneva sempre pronta una boccetta e gliela passava sotto il naso. Così dovette farla finita con quel teatrino, perché quella puzza gli dava fastidio. Allora aveva provato con la bava alla bocca. Si era allenato a scuola, dove aveva visto un compagno malato col piccolo male, che era caduto a terra e aveva cominciato a sbavare. Aveva fatto parecchie prove, filtrando bollicine di saliva tra i due labbri semiaperti, e sfoderò la scena madre in occasione della pagella, pietosa. La recita gli riuscì così bene, che la mamma si preoccupò, e chiamarono l’ambulanza. A quel punto, per dignità, non poteva tirarsi su come se niente fosse, e doveva reggere il gioco. Gli infermieri se lo caricarono, perché lo dovevano fare, ma sicuramente avevano capito benissimo che non aveva proprio niente. Al piccolo, che stava a guardare in braccio alla nonna, chiamata per l’emergenza, la cosa piacque tanto, che fu allora che decise che da grande avrebbe guidato l’ambulanza. E per mesi, dopo, aveva continuato a girare per la casa solfeggiando tuuutuuù-tuuutuuù, e facendo strani movimenti con le braccia, che dovevano mimare le operazioni di legatura alla barella, carico, ecc. Perché il mostriciattolo invece non aveva paura di niente, sapeva di farla sempre franca. Al massimo, quando vedeva le brutte, alzava la testa e li guardava da sotto in su, con quegli occhioni grandi e azzurro cielo, che avrebbe intenerito un sasso. Perché, diversamente da lui, il mostro era bellissimo, un faccione di luna piena; e grande, già alto quasi come lui, con tre anni di meno, ma anche parecchio grasso di meno, non secco, quello no, ma forte e robusto che sembrava un figurino. Mentre lui pareva un materassino di gomma per andarci al mare, e messo in acqua ci si sarebbe potuto galleggiare sopra. Ma, forse, il fratello era figlio di un’altra mamma, perché la sua era piccola, col viso piccolo proprio come lui, e quell’altro sarebbe venuto alto e forte come il padre. Ma lui avrebbe fatto tanta ginnastica, e rinforzato quelle cosce potenti che aveva, e gliel’avrebbe fatta vedere, se valeva di più essere alto e con gli occhi azzurri, o piccolo, ma fortissimo e cattivo. Così, giorno per giorno, la rabbia gli cresceva dentro. Finché non si decise ad agire. Il pretesto occasionale glielo aveva dato proprio il piccolo. Che sempre obbediente alla mamma, sentitole dire che doveva mettere a posto i suoi giocattoli, lo aveva fatto. Eh sì. Ma dove? In fondo al corridoio, su cui si aprivano tutte le altre stanze da letto e i servizi, c’era un piccolo ripostiglio, destinato ai giocattoli del grande. Perché la mamma non li voleva in giro nella sua cameretta, che doveva pulire tutti i giorni. E voleva che si abituasse all’ordine. Cosicché, al termine dei giochi, lui doveva raccoglierli e stiparli là dentro. Ma quando si accorse che, sopra i suoi, il piccolo ci aveva buttato alla rinfusa tutte le sue cianfrusaglie, allora gli si annebbiò la vista. Gliela avrebbe fatta pagare. Quel giorno doveva ritirarlo all’asilo il pomeriggio, perché aveva la lunga. E ci andò col suo sorriso migliore. Il piccolo gli aveva abbandonato confidente la manina e gli trotterellava accanto senza sospetto. Ma lui aveva già preparato la scena del delitto, aveva vuotato la cesta delle patate e aperto il balcone giusto. E, appena arrivati, sbottonatogli il grembiulino celeste, lo invitò accattivante. Vieni, che andiamo a giocare. Raccogli i giocattoli, andiamo all’aria. E il piccolo, senza sospetto, aveva ramazzato con cura tutti i giochi dallo stanzino dei giocattoli. Lui lo guardava sorridendo e lo aiutava a disporli nella cesta. Presa la quale, si era diretto sul balcone. E prima che il piccolo ci mettesse mano, aveva imbracciato la cesta piena piena. Bella questa macchinina dei pompieri! Però peccato che cammina soltanto, vuoi vedere che proviamo a farla volare? E datale la rincorsa l’aveva spinta giù oltre la ringhiera. Il piccolo guardava con gli occhi sgranati, senza capire. Ma, quando era arrivato il crash con cui si era infranta sull’impiantito del piccolo spazio condominiale di cemento, dove non passava mai nessuno, si era sporto, tentando di infilare la testina tra le sbarre per vedere che fine avesse fatto il giocattolo. E lui, sorridendogli, mite, consolatorio, gli aveva detto non ti preoccupare, tanto poi papà e mamma te la ricomprano. E così, uno per uno, scegliendoli con cura dalla cesta che aveva collocato in posizione inarrivabile per le braccine del fratellino, aveva preso macchine, trenini, trombette. Tutti gìù, fino all’ultimo pezzo! Sul cemento, quattro piani più sotto, giacevano i pezzi ammaccati dei giochi smembrati. Il piccolo non diceva nulla, aveva solo sgranato gli occhi in un modo strano, eccessivo. E così come stava, lui se lo era trascinato giù, aveva raccolto i pezzi nella cesta e li aveva buttati nel cassonetto, mentre si ripeteva mentalmente ghignando: “ci feci ‘a coffa”. Perché in quei casi, e solo in quelli, gli veniva il dialetto, che altrimenti odiava, segno di appartenenza ad una famiglia, ad una comunità, alla quale si sentiva totalmente estraneo. Col rumore secco del coperchio che si richiudeva si era celebrato il funerale. Certo, il delitto sarebbe stato scoperto, ma, pensava, facendoli sparire avrebbe forse evitato almeno l’aggravante della crudeltà. Il piccolo continuava a stare in silenzio, con quegli occhi dalle pupille dilatate, e lo seguiva senza resistere. Rimesse nella cesta le patate, lui si era messo tranquillamente a leggere Topolino. Senza curarsi di cosa stesse facendo il mostriciattolo. Ma quando erano rientrati i genitori era esplosa la tragedia. Il piccolo non parlava, li guardava con occhi che avrebbero fatto piangere una pietra, ma non apriva bocca. Solo quando la mamma se lo era seduto in braccio, accarezzandolo, da quegli occhi azzurri avevano cominciato a rotolare lacrime, grosse come grani di pepe, le più grosse che lui avesse mai visto. Ma continuava a non parlare. E fu a quel punto che doveva cominciare il pezzo di teatro. Si rivolsero a lui. Che è successo, perché piange. Non lo so, l’ho preso all’asilo, mi sono messo a leggere, e poi l’ho trovato così. E avrebbe retto benissimo all’interrogatorio, se non fosse stato che il piccolo a un certo momento, senza parlare, aveva infilato la sua manina in quella del padre e lo tirava come quando un cane vuol dire qualcosa al padrone. Il padre, perplesso, gli era andato dietro, giù per i quattro piani di scale. Fino al cassonetto. Tornato su non aveva detto nulla, ma gli si era avvicinato e gli aveva stretto una mano sulla spalla, come se volesse parlargli. E lui pensava quasi di averla fatta franca. Fino al primo manrovescio. Così forte, che la testa gli si era girata di lato, e il dolore alla nuca era stato quasi più forte di quello sulla guancia. Il padre aveva continuato a picchiarlo, duramente, strattonandolo, mentre urtava contro le sedie, i mobili della cucina. Si era fermato solo quando lo aveva visto a terra, accartocciato e tremante come una foglia secca. Allora se ne era andato, senza una parola. Anche il piccolo era ancora senza parole, e ci rimase per due giorni. La mamma si torceva le mani, e non sapeva che fare per restituire la voce alla sua creatura, finché non lo portarono dal medico che, dopo un’oretta di moine, glielo restituì parlante.
Ma quello che era successo li aveva segnati tutti, per sempre. Ed era come se i suoi lo evitassero, quasi ne avessero più rispetto. Così lui ne dedusse che ora lo temevano, che essere duri e implacabili paga, e decise che da grande avrebbe fatto il soldato. E, prima o poi, quelle botte al padre le avrebbe restituite con gli interessi. Ma la mamma, che già prima era triste di suo, divenne se possibile ancora più malinconica. E verso di lui le venne una voce strana, distaccata, sempre uguale, come se parlasse con un impiegato in un ufficio. Così capì che anche le madri sono fatte di carne, e non devono per forza amarti (come pretendeva prima, e dentro di sé le rimproverava di non farlo abbastanza), solo perché ti hanno partorito. Concluse perciò che le donne in fondo non servono a niente, a parte le cose pratiche. Ma su di loro non ci si può fare nessun conto.
Da allora gli prese come una frenesia, una fretta di consumare e distruggere, che applicava anche contro i suoi stessi giocattoli. Più di prima. Se ne vedeva uno che gli piaceva, impazziva per averlo. Gli batteva il cuore quando lo vedeva nuovo, appena comprato, nella sua carta colorata e il fiocco. E quasi aveva paura di maneggiarlo, lo toccava piano, con delicatezza e una certa rigidità meccanica, come se di latta, o di legno fosse stato pure lui. Ma una volta che era nelle sue mani, lì, nudo, scartato, gli montava su per la gola il fastidio, un imbarazzo quasi. Come paura di non saperlo maneggiare, di non saperci giocare. Come se quell’oggetto inanimato fosse stato pensante e lo giudicasse, con gli occhi di sua madre, e lo disprezzasse senza parole, come credeva che lei oramai facesse con lui. Allora gli si scatenava una furia peggiore, la volontà di distruggerlo. I suoi giocattoli non duravano ormai più di pochi giorni. La madre non diceva nulla, quando vedeva lo scempio, girava la testa dall’altra parte e sospirava. Raccoglieva i pezzi e dopo poco lui sentiva il clic del secchio della spazzatura che si richiudeva. Allora se ne andava nella sua cameretta e provava a leggere Topolino. Ma anche quello ormai lo annoiava.
Però, con questo giocattolo sarebbe stato diverso. Lui se lo sentiva. Era troppo bello e complicato. Ed enigmatico. Un mappamondo. Ma lì dentro c’era davvero tutto il mondo, e, incredibile, avrebbe girato per lui, al suo comando. Sarebbe rimasto per ore a guardarlo girare, con quella luce dentro, tenue e misteriosa. Siccome aveva subito messo in chiaro che lui per montarlo non ci avrebbe lavorato neppure un secondo, era già da novembre che i suoi lo avevano comprato e ci si dedicavano la sera dopo cena, sul tavolo della cucina. La mamma, con lo sguardo velato della stanchezza di tutto il giorno, passava al padre le piccole tessere di legno che bisognava incastrare l’una nell’altra, secondo il numero che recavano per il montaggio. Il papà, con le sue mani grosse le afferrava, e miracolosamente le faceva combaciare. Il lavoro era stato lungo e faticoso.
Era passato Natale, e ora si doveva aprire il regalo, per la Befana. Durante il pranzo lui non stava nella pelle, per l’ansia di avere tra le mani quel giocattolo incredibile, che non gli pareva vero fosse toccato proprio a lui avere un giocattolo così bello. L’avrebbe subito mostrato a tutti, i cugini antipatici, i compagni che lo sfottevano. Ma come avrà fatto questo a procurarsi un giocattolo così …! Avrebbero pensato. E mentre si finiva di mangiare, non riusciva più a stare fermo sulla sedia. Dopo pranzo, rigovernata la cucina, erano venuti due vicini con una guantiera di cannoli, a bersi un bicchierino in compagnia. E tra una chiacchiera e l’altra il papà era andato a prendere il capolavoro finito, perché i vicini apprezzassero quanto era stato bravo e paziente a montarlo. Lo appoggiò sul tavolo e tolse piano la carta. Era davvero meraviglioso. Quando poi fu collegata la spina e si accese quella luce seducente, lui rimase lì a contemplarlo, incantato. Non aveva mai avuto una cosa così bella e perfetta e raffinata. Gli adulti chiacchieravano di insulsaggini, mentre lui pensava: che quella cosa era sua, soltanto sua, e dove nasconderla perché nessun altro potesse metterci le mani, mai. Intanto si era fatto buio, e i vicini, finalmente sazi di chiacchiere, se ne andarono. Era il momento di sgomberare il tavolo per la cena e si avvicinò timidamente al suo capolavoro. E quando fece per prenderlo e andarlo a riporre, si ricordò che non l’aveva fatto ancora girare. L’aveva già poggiato in terra, e pigiò il pulsante per la rotazione. Quella doveva essere l’estasi maggiore: doveva girare, al suo comando. Ma il mappamondo non si muoveva. Il filo era collegato, la presa attiva. Provava e riprovava, mentre la mamma già gli girava intorno con piatti e bicchieri per la cena. Ma quello, niente, Non obbediva. Provò a chiedere aiuto al padre, ma anche lui, stanco e distratto, gli rispose picche, va beh, vediamo domani, adesso bisogna cenare. La festa era finita, e incombeva già la giornata di lavoro dell’indomani, con il suo carico di fatica. Allora continuò a riprovare lui, accovacciato per terra, tra le gambe dei grandi. Che si muovevano nelle faccende dei grandi, che non capivano, non capivano mai. E che padre era quello, che non sapeva fare il padre, che non si era mai sforzato di vedergli dentro? E adesso non riusciva a leggergli in viso il dolore, il fallimento. Non lo capiva che per lui era l’ultima occasione, quella, di premere un pulsante e far funzionare il mondo, farlo girare dove voleva lui? Dimostrare a se stesso che sì, anche lui era capace di governare la vita, far sì che un impulso dal suo dito ad un interruttore muovesse qualcosa nella sua casa, nella sua storia di bambino solo, nell’universo grande che si stendeva là fuori e lo rifiutava? No, il padre già si accomodava a tavola, aspettando che gli fosse servita la cena. Lui doveva sgomberare ora, col suo giocattolo bellissimo e inutile. Anche quel giocattolo non avrebbe cambiato niente nell’economia dei suoi giorni. E allora, con tutta la delusione di quell’amore malato e naufragato, capì cosa doveva fare. Si alzò da terra, ancora un po’ barcollante per lo stare a lungo rannicchiato, guardò per bene il seducente simulacro di quell’universo che ancora una volta gli sfuggiva. Riprese prima bene l’equilibrio e poi, con un calcio ben assestato, lo fece volare in aria. Vide per un attimo le centinaia di tesserine che lo componevano sfaldarsi come i petali di un fiore meraviglioso, e planare leggere sul pavimento. Prima che le lacrime gli offuscassero la vista. Il mappamondo non c’era più. Ora il padre l’avrebbe massacrato. Era quello che voleva. Il cuore martellava in petto con tonfi larghi e possenti, l’adrenalina saliva, lo preparava allo scontro. Ma non successe nulla. Lentamente, a capo chino, il padre si era alzato, si era avvicinato alla madre, l’aveva presa per mano. Sulla tavola si raffreddava la cena apparecchiata, il piccolo non si vedeva. Il padre si avviò lento verso il corridoio, tenendo la mamma, sempre per mano. Ecco, aveva vinto senza combattere, se ne andavano perché avevano paura di lui! E già quasi l’orgoglio gli gonfiava il petto. Quando all’improvviso capì. Era come se il mappamondo ora ruotasse nel suo cuore, lo scavasse, lo penetrasse di mille frecce, di un dolore mai provato prima. Mi dispiace, non volevo, non lo so perché, ma ora rompo il mio salvadanaio, vado subito al negozio a comprarne un altro, gridava. Lo facciamo insieme, papà, mamma! Piangeva. Ma ormai si era fatta sera, era buio fuori, i negozi erano chiusi e tutto taceva nella quiete della festa finita. Papà, mamma. Ma quelli si erano avviati per mano, lenti, nel lungo corridoio. Andavano piano, senza girarsi neppure, verso la loro camera. Lui li seguiva, e li chiamava, piangendo. Ma avevano già aperto la porta, il padre entrava per primo, e porgeva la mano alla mamma. Entrava anche lei senza girarsi a guardarlo. La cena raffreddava sul tavolo, nella cucina, dove qualcuno aveva spento la luce. La porta della camera si era richiusa, sentì la chiave girare nella toppa. Provò a bussare, prima piano, poi sempre più forte, chiamando e piangendo. Ma nessuno rispose. La casa era nel silenzio. Anche del mostriciattolo nessuna traccia. L’atrio, laggiù, in fondo al corridoio, era nel buio, e lui, rimasto solo nell’isola di luce del corridoio, cominciò ad averne paura. Lì c’era la porta di ingresso, e come si sarebbe difeso da quel buio, da cui qualunque cosa avrebbe potuto raggiungerlo? Pensò di rifugiarsi nella sua cameretta. Da lì, al sicuro, avrebbe controllato il territorio. Dal buco della serratura. Da quello, direttamente, si vedeva solo l’accesso allo sgabuzzino dei giocattoli. Ma lui già da tempo, per prevenire incursioni inaspettate, sulla maniglia aveva posizionato in maniera ingegnosa, con scotch e cordicella, il pezzo di uno specchietto rotto della mamma, e attraverso quello riusciva a vedere anche il corridoio. Una volta raggiunta la postazione, cominciò a battere furiosamente con i pugni contro la parete bianca che lo divideva dalla camera dei genitori. Chiamando e piangendo tutta la sua verità, quella che finalmente gli urgeva sulle labbra, deposto l’orgoglio e la rabbia. Per favore, sono solo un bambino, che volete da me. Ma dalla camera sigillata non usciva alcun suono, neppure il russare pesante del padre, né quei sospiri strozzati della madre nel sonno, come succedeva di solito. Il muro vibrava, ma restituiva un suono sordo, uno spessore denso e invalicabile lo separava da quella stanza. Si era seduto per terra, sfinito da tutto quel battere, le nocche scorticate dai colpi sul muro, e piangeva in silenzio. Tutte le armature cadute. Zuppo di lacrime il maglioncino rosso fatto ai ferri dalla mamma, testimone muto di un sentimento che non aveva mai imparato a riconoscere.
Fu in quel silenzio che gli sembrò di udire qualcosa. Piccoli rumori indefinibili. Ticchettii, colpetti, come di bacchette. Passi, ma quasi di minuscoli zoccoli e non di scarpe, incerti, saltellanti. Venivano dall’ingresso. Qualcuno era entrato. Dopo il primo istante di terrore, diviso tra la curiosità e il timore, si mise in postazione. Lo specchietto malconcio restituiva l’immagine distorta del corridoio vuoto. Dove infine comparve qualcosa. Era un oggetto curioso, che saltellava, una trottola senza la punta uscì dal buio nella luce. E subito ne comparvero altri, un cavalluccio di legno con una gamba rotta, una trombetta con l’impugnatura spezzata, un coniglietto di peluche con le orecchie sfilacciate, come se qualcuno le avesse strappate con un morso. E poi macchinine, trenini. Nessuno intero. Camminavano in fila, storti, sbilenchi, così mutilati come erano. Reduci di una guerra in cui non avevano potuto difendersi. Lui li guardava, stupito, e gli sembrava di essere entrato in un sogno. Li aveva riconosciuti tutti, uno per uno, erano i suoi giocattoli di tutta la vita. Avanzavano piano nel corridoio, passavano davanti alla sua porta, e sparivano, ma non entravano nello sgabuzzino. Dove andavano allora? Lì la casa finiva, dietro la parete chiusa del corridoio c’era il vuoto, quattro piani di vuoto, fino al giardinetto condominiale. La processione durò a lungo, ma non arrivò il mappamondo, quello che aspettava di più. Forse era rimasto in cucina, per terra, un caduto troppo recente. La processione era terminata. Era tornato il silenzio. I suoi evidentemente non si erano accorti di niente. Forse stava solo sognando. Poi sentì di nuovo armeggiare alla porta d’ingresso. E da quel buio gravido di sorprese comparve nella luce del corridoio un bambino. Poteva essere sui cinque anni, era biondo, coi riccioli, e gli occhi neri, due olive scure della sua terra, ben proporzionato e dall’aspetto gentile. Stava lì fermo a lasciarsi guardare. Gli ricordava qualcuno, ma per quanto si sforzasse, non capiva chi. Solo quando, spostando i riccioli con la mano, gli comparve una cicatrice sul polso destro, guardò istintivamente al proprio, dove c’era la stessa, identica. Se l’era fatta su di un sasso cadendo, mentre giocava a pallone col padre. Il fratellino non era ancora nato, e il padre allora giocava spesso con lui. Quella stranezza lo disorientava ancora di più. E per vederci chiaro, prese la risoluzione più difficile. Uscire dalla sua tana. Vederlo bene. In fondo, era un bambino. Che avrebbe potuto fargli? Infatti quello, appena lo vide là fuori, gli sorrise, e cominciò ad andargli incontro. E lui era quasi contento, forse aveva trovato qualcuno con cui parlare, in quel deserto che gli si era fatto intorno! Ma già al primo passo, lentissimo, il bambino cominciò a pencolare da una parte, perché una delle due gambe, pian piano, aveva cominciato ad allungarsi più dell’altra. Poi riusciva a riprendere un po’ l’equilibrio, stirando anche la più corta. Ma quella statica era precaria, perché ora anche le braccia gli si distendevano con sforzo, come tirate da una forza invincibile. E il viso si distorceva, si allungava, allargava, come fosse una maschera di gomma di Carnevale. No, non ci voleva parlare con quella creatura. Fece per rientrare nella sua cameretta, per rinserrarsi bene dentro. E non farsi più vedere, fino alla fine di quel teatrino. Che, adesso lo capiva, doveva essere un’ideuzza dei suoi genitori per dargli una lezione. E, nel girarsi per rientrare, vide. Vide dove erano finiti tutti i giocattoli. In alto, in fondo al corridoio, al posto del soffitto, un largo foro circolare si apriva sul cielo gelido di gennaio, lasciava vedere l’ammiccare bianco e lontano delle stelle. L’illusione dello scherzo dei suoi naufragava in quell’evidenza desolata. Loro non avrebbero mai sfondato il tetto della casa. Tornò a girarsi verso quella specie di bambino, mentre il freddo della notte penetrava e risucchiava verso l’alto l’aria tiepida, l’odore ormai lieve della cena, quel sentore di piccole abitudini, e tutta la dolcezza della vita protetta che ogni casa racchiude e custodisce. Anche se con una lentezza estenuante, quella creatura procedeva verso di lui, dilatandosi ed estendendosi ad ogni passo. Quando infine, quasi per dovere, e senza troppa speranza, cercò la sicurezza almeno nella ‘camera gialla’, si accorse che la porta si era chiusa, per non, lo capì subito, riaprirsi mai più.
Il gioco era finito, il suo tempo consumato, e l’adulto ormai stempiato, senza più riccioli biondi, che ora incombeva su di lui, lo avrebbe stretto in un abbraccio mortale, divorato e introiettato nelle sue viscere maleodoranti, sotto la sua pelle indurita e rugata. Prima di scomparirvi dentro volle guardare ancora una volta il cielo con i suoi occhi di bambino. E allora si accorse del mappamondo. Era rimasto incastrato e penzolante nel soffitto scalcinato. Ma, come per miracolo, era di nuovo intero, perfetto, sembrava aspettarlo. Poi fu buio.
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