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Racconti di viaggi reali e immaginari

Maggio 17
15:32 2009

DI MARE E D’AFRICA

Il capitano lo aspettava sul ponte della nave.
Poi lo aspettò a babordo, a poppa e a prua del suo alloggio a un passo da un enorme pezzo di foresta africana all’ombra di palme reali e stridi di scimmie dal culo blu.

Lo aspettò ad ogni terrazza di casa non sapendo più da che parte scrutare. Michele aspettava Franco da più di un anno sapendo che sarebbe arrivato più o meno prima della stagione delle piogge per fare un giro con lui a guardare le notti nel deserto. Certo, Michele continuava a sognare il mare. Suo padre, un tipo poco coraggioso, l’aveva sognato per tutta la vita riducendosi a navigarlo via carta, diventando editore di libri sulla navigazione e i venti… d’altronde di mare a Siena non ce n’era; sua madre era stata una grande velista, come sua moglie Arian (la sua finnica), la piccola Marina e lui stesso.
Ma il mare lì non c’era; pero il suo rifugio al Forestry office poteva sembrare qualcosa di simile ad una barca specialmente la sera quando, tra il frusciare degli alberi ripiantati da poco, poteva dimenticare il vento caldo in fondo a bottiglie di rosso vecchio e profumato e salpare con la sua chiatta di legno illuminata da lumi a gas.
E Franco era arrivato nel pomeriggio. E con lui era rinata la speranza. Con lui si era soddisfatta la voglia di Mediterraneo. Almeno a tavola. Parmigiano, pasta basilico e pomodoro, vino…poi avevano brindato, si erano abbracciati cento volte, raccontati quello che era successo in un anno.
Ma non c’era tempo per dormire quella notte.
Bisognava affrontare il problema della sfida. Farsi più grandi. E la sfida laggiù era giornaliera, almeno per Michele: strappare manciate di foresta alla fame insaziabile degli elefanti che stavano trasformando il luogo in un bosco stregato tra arti di alberi monchi, pozze di fango abitate da coccodrilli armati e polvere. Mancavano solo i liocorni e qualche folletto.
C’era da portare avanti alcune osservazioni quella notte. Perciò appostarono la jeep sottovento, perché gli elefanti non sentissero odori umani. Arian aveva preparato i binocoli, le lampade; Michele il caffè, il resto del gruppetto i quaderni di osservazione, le matite. Si sarebbero fatti i turni di sonno nelle 24 ore, ma quella notte Michele e Franco non avrebbero dormito. C’era molto da fare.
Gli elefanti, 250 ne videro avvicendarsi alla pozza dell’acqua, tagliavano l’aria con le loro sciabole di gomma, morbide e forti, lanciando barriti gravi come lamenti. Uno urlava: “sono il più grande!” – un barrito gentile rispondeva: “ma dai, che vuoi metterti a fare? solo in una giornata hai mangiato 50 alberi!!”
Durante il loro turno di osservazione videro che alcune zebre ciondolavano assetate a diversi metri dalla pozza. Gli elefanti non le fecero avvicinare per tutto il tempo, poveri cavalli dipinti e perfetti! Niente da fare.
L’aria restava. Calda e sana.
I pachidermi si abbeverarono e giocarono a scagliarsi nel fango e a trascinarci intere dinastie, per poi risciacquarsi con forti tonfi dei lombi, guardando ingordi il risultato intorno della loro devastazione. Piccoli uccelli li nettavano a più riprese dai parassiti. Sparuti leoni guardavano tutto da lontano. Le prede grandi e piccole se n’erano già andate, ora toccava a loro andarsene perché quelle bestie erano veramente troppo grandi da cacciare…sembravano pensare…
Finalmente Michele e Franco finirono il loro turno di osservazione, ma non c’era tempo per dormire.
Salirono sul tetto della jeep, si buttarono addosso un’enorme zanzariera a accesero la lampada più grande. La luna a metà faceva poco per illuminarli. Le ferite di molti alberi neri s’indovinavano appena, laggiù, nell’oscurità tagliente.
Barriti di elefanti dolci e gravi arrivavano ancora dalla pozza. Le lotte della notte lasciavano volar via velature di polvere chiara che si riammansiva a terra illuminando a momenti il buio, rivelandolo sincopato dai coni di terra macinata e fine dei formicai. “Le piramidi del Nilo e i templi dell’America Latina non conoscono la stessa fermezza atavica” – pensò Franco guardandoli. Riandò col pensiero solo per qualche istante al paese triste dal quale veniva. La c’erano solide basi di cemento armato, ma non rimaneva più niente da costruire o almeno gli pareva che non ci fosse più alcun motivo per farlo. Ripensò alle irreversibili file di ferraglie rombanti o stanche davanti all’occhio, pure lui inquisitore, di un semaforo quasi sempre rosso: si sostava tutti intorpiditi sotto gli sguardi carichi di dolore, ma meno gravi, questo doveva ammetterlo, di molti uomini neri provenienti da almeno due continenti.
Durante quegli stop forzati, spesso, gli sfuggiva il senso della propria esistenza: nella pienezza della soddisfazione di tutti gli istinti non riusciva più a comprendere il perché del suo respiro regolare e inevitabile, secondo dopo secondo.
…E allora ripartiva alla ricerca, come sempre…stavolta da Michele…alle radici dell’anima nera…laggiù, insieme al suo amico riusciva a provare anche un po’ di nostalgia per quel che c’era di buono a casa e guarito faceva ritorno alla base, carico di buoni propositi che, dopo poco, sfuggiti alle ragioni di quella vita semplice ed essenziale che li aveva prodotti, tornavano ad essere inganni. Sempre merce da vendere e comprare.
Scacciò questo pensiero insieme ad una zanzara che si era fatta pericolosamente vicina. La soggettiva tornò sui formicai…”nemmeno le piramidi…”, sussurrò tra i denti.
Due inglesi si scambiavano caffè e sigarette parlottando a bassa voce. Arian, era il suo turno, scrutava col binocolo agli infrarossi.
Loro, senza una parola, tirarono fuori l’occorrente. Franco aveva sulle spalle ore e ore di viaggio e occhi arrossati, ma parlò per spegnere la tensione dei preparativi: “E’ stato un miraggio o c’è un ulivo argentato dalle parti di casa tua?” – Michele rise buttando la sua grossa mole all’indietro – “Ma no, non ti sbagli, se è per questo sono riuscito a far venir su anche basilico e pomodori…finché non ci passano sopra” – ammiccò verso la pozza.
Così si giocarono il loro turno di sonno, nella foresta. Nell’aria dolce e sana, con sottofondo di sciacquettii, e Michele all’ottava mano di scopetta vinse 3 a 0…e pensare che era un anno che non spizzicava più quel mazzo di carte lucide. Si sentì soddisfatto e felice. Come se avesse assolto alla vera cerimonia di benvenuto per il suo amico, sfinito dal caldo, scese e si buttò nella tendina per mezz’ora di sonno.
Franco, beato dall’odore di sigaretta e dalla vista che godeva da quell’altana, ascoltò farsi giorno.

BUE DI PIETRA
(…) che ne sarà del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
ch’è una stoltezza dirselo.
E. Montale

Quando capimmo che per la grotta del bue di pietra c’erano almeno altri cinque chilometri disagevoli dall’attacco del sentiero ci prese un momento di sconforto, un po’ per la calura nell’aria già di buon mattino e un po’ perché dalla strada polverosa e gialla di stoppie ai lati non si intravedeva che campagna malmessa senza intuizione di centri visita o grotte. Ma non avremmo lasciato la Calabria senza aver visto il grosso animale graffiato sulla roccia.
Riassestammo gli zaini e ci incamminammo. Eppure ci sbagliavamo ancora, perché dopo poco meno di un chilometro la strada prese un’aria diversa e divenne un sentiero intimo sotto una fresca galleria di roverelle che ci guidava fra piccole proprietà divise fra orti, frutteti e ancora lembi di bosco.
Pian piano, dal dislivello sul quale ci trovavamo, ci venne incontro un minuscolo raggruppamento di stallette e case basse costruite in pietra locale che appariva circondato da aiole strette e lunghe di piante senza pretesa d’acqua: rosmarini e cisti odorosi, rose canine sfiorite.
Arrivati all’altezza di una minuscola piazzola, nel più assoluto silenzio se si esclude un buon giorno di cortesia, una ragazza che scoprimmo essere la nostra guida ci accompagnò all’imbocco di una discesa stretta e umida che sembrava perdersi nelle viscere della terra. Arrivati in basso trovammo l’apertura della grotta dove incontrammo subito il sacro e maestoso animale di pietra con l’aria distaccata che si conviene ad una divinità; solo ad un secondo sguardo lo si coglieva in tutta la sua massa di bue preso a sfidare la forza di gravità che sembrava volerlo far scivolare dal sasso enorme e levigato sul quale se ne stava inciso.
Approfittammo del buio e del fresco della grotta più del dovuto per quel che c’era da vedere, ma non troppo a lungo per quel si intuiva: un luogo sacro ai primitivi con una sua impagabile forza. All’uscita tutti scattavamo foto al bos e alle sfortunate sepolture di due amanti fedifraghi colti sul fatto e di una vedova costretta a seguire il marito nell’aldilà.
Al ritorno, ai bordi di un campicello, due donne aspettavano il passaggio dei turisti. Che gli uomini erano in Svizzera a lavorare ce lo raccontarono in poche parole; due bambini giocavano nell’aia polverosa di una casa senza intonaco. Le donne ci vollero offrire mazzetti di camomilla selvatica e origano di montagna legati con erba spiga, una zucca che ci pesò nello zaino e che non cucinammo mai e qualche marmellata per pochi spiccioli buoni a comprare le cose che il campo non matura. Un po’ più avanti un anziano piccolissimo nella sua divisa gilè e coppola nera di lana ci propose i suoi cucchiai ricavati a mano nel legno e dei cesti di salice forti e capienti. Riposti i soldi incassati nel cappello si riaccucciò a terra, nell’ombra corta di un muretto a secco, dopo averci salutati.
Giunti di nuovo sulla strada principale sembravamo un mercato di campagna. Questo accadeva nell’estate del 2000.

IL PRIMO GIORNO D’EUROPA
Il viaggio che ho intrapreso
è duro. E potrebbe essere
senza ritorno.
Lo dico. Perché qualcuno verrà
sulla mia tomba.
A rimproverarmi di aver lasciato
la casa dove sono nato.
Qualcuno che sa che non potevo farne a meno
(Vecchio canto africano)
1
IL MEDITERRANEO È UNA PORTA APERTA SUL MONDO
L’EUROPA UNITA UN PORTONE SBARRATO SUL NIENTE
Con queste parole tracciate, si sarebbe detto, con un grosso pennarello sui marmi a tratti lucidi della stazione Termini la Capitale accolse l’arrivo di Kamal dalla terra d’Africa. E non che ci avesse messo poco a decifrarle, visto il suo scarso italiano, ma dopo averle lette pensò che ne era valsa la pena di stare qualche minuto a combattere con le sillabe.
Rinfilò le mani nelle tasche dei pantaloni verde militare di foggia americana e ricontò con i polpastrelli: tre fiammiferi e tre sigarette girate a mano, il biglietto del treno che era sempre meglio tenerselo in tasca, un micro taccuino con indirizzi e appunti, carte di caramelle e il solito terriccio di dubbia provenienza che gli si accalcava nei fondi delle tasche da quando era alto due palmi. Decise di togliersi dalla confusione e con le falcate proprie del suo metro e novanta si diresse verso quella che sembrava l’uscita o una delle uscite, in un fascio di luce pulita e un po’ più calda verso la quale caracollavano centinaia di nanerottoli incazzati bardati nei loro giacconi e armati, due si uno no, di valigia 24 ore.
Si ritrovò su una piazza, sì, inondata di luce, ma l’aria che si respirava rimaneva pesante e stantia di carburante, tessuti e profumi mischiati da troppo tempo. Si sentì per un istante più confuso dell’attimo seguente la discesa dal treno e per fumarsi una sigaretta scelse d’istinto una panchina di marmo sbeccata. Continuando a scrutare l’andirivieni di persone che correvano imbacuccate verso centinaia di mete discordanti si accorse che in effetti faceva un bel freddo e si aggiustò attorno alle sembianze perfette il collo di pelliccia sintetica con cui era foderato il suo giaccone di jeans nero: così tra il collo e il cappello di lana da rapper ben calzato sulla fronte rimase spiccia giusto la visuale degli occhi e un pezzetto di spazio per far posto alla brace calda della sigaretta tra le labbra.
Batteva un sole pallido sulla città e la vista dei palazzoni disadorni sormontati da immense insegne al neon che inquinavano l’unico fazzoletto di cielo sui tetti, lo convinse che quella doveva essere una metropoli come tante altre, altro che la “bella Europa”, ma poi si ricordò che qualche amico tra quelli che avevano viaggiato un po’ di più gli aveva raccontato che sono proprio le stazioni ad essere uguali dappertutto. Sta di fatto che però li seduto si sentiva congelare, perciò raccolse la sua sacca e quasi di corsa si avviò all’indirizzo della pensione che gli era stata segnalata da un tizio sul treno. In una strada larga e dannatamente affollata gli apparve l’insegna modesta. L’ambiente che lo accolse, abbastanza squallido e pulito, non sembrava una pensione a ore e continuò a non sembrarlo almeno fino alle sei di sera, quando le luci sempre basse e un bisbiglìo brulicante lo sorpresero in quello che era stato il suo primo, sudaticcio, sonno europeo unito.
Ebbe la sua camera, richiusa la porta e deposta la sacca con meno malagrazia possibile -i nostri gesti sono le nostre emozioni Kamal, ricordatelo – provò la consistenza del letto. Poi con un balzo si proiettò verso l’unica finestra della stanza (stanza con bagno a dire il vero) tentando di schiodarne le persiane rattrappite per vedere se Roma gli regalava una fetta di se stessa, anche solo una stentata veduta, chi lo sa… ma niente da fare ! La bocca capiente di quell’unica presa d’aria riproduceva fedelmente e a distanza ravvicinata il muro di un palazzo, ingrigito pure questo dal tempo e sfiancato dal rollio a cui lo costringevano le migliaia di ferraglie e i tram che ne sbriciolavano giorno dopo giorno le fondamenta.
Kamal riaccostò le persiane e si rituffò sul letto. Arrotolò e si accese una sigaretta, stavolta truccata, come usava definirle sua madre quando lo beccava alle prese con le erbe aromatiche, e perso in quell’odore forte pensò a Nata che non aveva voluto seguirlo. Ma poi perché mai avrebbe dovuto essere così pazza ? Lei studiava, i suoi genitori la aiutavano, sentiva di avere davanti a se quel po’ di futuro necessario ad essere valutato più importante della loro storia e poi non ce l’avrebbe fatta – ad abbandonare i bambini dell’oasi di padre Mario che tutti i giorni mi aspettano per la lezione – .
Ancora una boccata di fumo e il suo pensiero, così come era volato in Africa, virò per l’America. La vera grande meta del suo pellegrinaggio. Prima pensò alla grande nazione dei black brothers con cui sperava un giorno, il più presto possibile, di condividere le brache lente, il five e la musica della strada. Poi pensò a quell’altra America, non quella metropolitana, ma quella degli stati più a nord, con le montagne innevate tutto l’anno, la solitudine per chilometri, i luoghi selvaggi fino a che non incontri uno store sperduto che serve hot dog e caffè bollente, e poi……, ma il sonno chiedeva spazio, chiedevano spazio i sogni che da vent’anni facevano di lui un mago, un inventore di Altri Tempi…….. quelli che non aveva ancora visto, quelli che non aveva ancora costruito, quelli che non accennavano ad arrivare, quelli da cui era sempre ad un passo, quelli che gli sarebbe parso un miracolo potessero arrivare, non certo nel suo paese natale e forse nemmeno tra quelle mura mangiate dal tempo e dalla polvere, nel suo primo giorno d’Europa, la nuova nazione dalla moneta unica, ma con milioni di cervelli, dove, ora più che mai, valeva oro l’attaccamento alle proprie radici e ai propri ideali. E l’America? Come sarebbe stata l’America? Le cime del Nord Dakota, sì proprio a quelle pensò, si facevano sempre più vicine…. sempre più nitide….

2
Gelinda ben al sicuro su una sedia imponente della sala di lettura del convento guardava attenta il breviario, appoggiato fra la possenza delle mani e le sporgenze della sua stazza, sottolineando- lo e spuntandolo con rara passione religiosa quando venne interrotta bruscamente da Casimira in viaggio verso di lei direttamente dalle cucine :”Oggi sei più sfasata del solito, Gelì, ti sei dimenticata che viene a pranzo il monsignore ?”
Era quello che temeva: per stare appresso a quella roba si era dimenticata del tutto che le toccava la sfoglia per il pranzo, e visto che erano quasi le undici, Casimira era salita impettita e contenta di poterla riprendere su qualche cosa, ma poi bonariamente si era calmata vedendola intenta sul prezioso libro ricoperto di pelle nera, perciò descritta una curva pericolosa con relativo dietro front, rincorrendo i propri piedi nella direzione dalla quale era venuta e decisa a non disturbare la consorella nella sua devota intimità le lanciò un “allora dico che arrivi subito di sottoooooo”. “Beneeee” rispose Gelinda ridistratta dal breviario nel quale stava gelosamente incartata la schedina delle partite del fine settimana, che se finiva di compilarla subito poteva passarla a Grillo il verduraio adesso che scendeva in cucina ad impastare. Perciò si diede da fare a pensare ai risultati più probabili. La passione per il calcio, forse non era tutta colpa sua, se di colpa si poteva parlare. Lei tifava un po’ per tutte le squadre tenendo in particolar modo per quelle della sua Emilia, terra dalla quale proveniva e nella quale alla nascita il padre le aveva imposto il nome di Sportiva perché era un accanito di calcio e di tutto quello che si poteva chiamare sinceramente competizione ai tempi della nascita di questa sua figlia. Così, all’occorrenza di cercarsi un nome per la sua “carriera di suora”, Sportiva aveva optato per Gelinda, il femminile di Gelindo, un omaggio a Bordìn e una consolazione per il padre che se l’era vista – Sequestrata da un convento di monache” – come andava dicendo – per di più a Roma – quindi per lui, stanziale convinto, ben più che lontana da casa – quasi in un altro stato – che se Gelinda non fosse stata a conoscenza delle sue idee politiche, alla luce dei nuovi fatti, l’avrebbe giudicato leghista.
In cucina il traffico per l’arrivo dell’alto prelato s’odorava nell’aria che non più intrisa di poverissime quanto elaborate zuppe di cereali e cipolle sapeva quel giorno di sedani soffritti, carni di manzo e immensi ragù. Perciò nessuno badò ai traffici di Gelinda con Grillo, anche perché tra l’arrivo del giovane la cui famiglia riforniva il convento di frutta e verdura da qualche generazione, Gelinda, responsabilmente, si era già tirata su le maniche, aveva indossato il grembiule da cucina ed approntato la fontana di farina per le sue indimenticabili tagliatelle.
Scaricate le ultime casse Grillo salutò rispettoso e s’avviò al bar della piazza per le sue giocate del fine settimana e per quelle della sua cara amica Gelinda. Gelinda, doveva proprio ammetterlo, era grande in tutto: grande nella stazza, nel cuore e nella fantasia. Era stata l’unica a comprendere la sua frustrazione a trovarsi a fare il verduraio dopo una sperata carriera di investigatore privato che il padre quando s’era reso conto della – cantonata che voleva prendere il suo figliolo – (figliolo era un lascito delle sue origini toscane), si era portato una delle sue manone piegata a mo’ di tramezzino proprio vicino alla testa e gli aveva detto : “Tu sei proprio scemo se ti credi che io sto a correre dietro a te che vuoi fa’ la controfigura di Tom Conzi – Ponzi, papà, Ponzi, correggeva Grillo – Tom Fonzi o come te pare, ma io non me so’ scaricato miliardi de cassette de frutta per farti fare il signorino dell’università accanto….Qua c’è un‘azienda, un lavoro…..” “Un nome e una tradizione da rispettare e da portare avanti” – aveva continuato Sandrino, detto Grillo a causa del fisico asciutto e scattante, che ormai quella tiritera la conosceva a memoria.
E Grillo l’aveva presa proprio male…Reggeva, reggeva, poi qualche volta, quando stava sul furgone, finite di scaricare le casse, si sdraiava sul cassone dietro e piangeva rifacendosi gli occhi con le scene migliori di Maigret e della sua Gina, col vecchio Mason o con lo sfilacciatissimo tenente Colombo. Fantasie tutte sue s’intende, quelle non gliele poteva togliere nessuno, loro poi erano avvocati e ispettori………, gente che se l’era potuta permettere la fisima delle trame ingarbugliate, infatti pure la Signora in giallo di mestiere faceva la scrittrice, era ricca e viaggiava su aerei intercontinentali per andare a trovare le sue centinaia di amici sparsi per tutto il mondo e per risolvere altrettanti spinosissimi casi, ma mica tutti “i Grandi” potevano permettersi una vita del genere…infatti i detectives americani erano dei mezzi spiantati, vedi Marlowe con le sue interminabili sigarette e le affogate di supercalcolici….

3
Il cielo del pomeriggio non raccontava niente di buono, nero e gonfio d’acqua e vento com’era. Le navi del porto ballavano tutte la stessa musica, ma a ritmi diversi. Passeggiando sull’asfalto reso più scuro dalla scarsità di cielo, fra le macchie di nafte e gasolii incancrenite dal tempo si vedevano le grosse navi dondolare lente e silenziose con la testa bassa verso le acque putride e malate dell’attracco.
Le barchette di mezza stazza, piccoli pescherecci e bagnarole da diporto si guardavano stancamente le une con le altre scricchiolando insistentemente tutte le essenze legnose di cui erano composte e sopportando quella ginnastica con rigorosa ottusità. Qualcuna provava a resistere, ma un’onda prepotente come uno schiaffo inaspettato rigettava le sue arie da signorina in libera uscita dal collegio in mezzo alla marmaglia di quelle che dovevano sopportare e basta.
Fra questa tiritera di ondate e scricchiolii da giorno del giudizio qualche cane pidocchioso annusava l’aria densa di fritture sfatte e pesce deviscerato. Qualche gatto, più accorto, rimetteva a parte un po’ di sonno addormentato come meglio poteva su grovigli incerti di corde e reti.
Procedendo verso la banchina da raggiungere sotto quella cappa di piombo grigio niente poteva sembrare lustro e accogliente anche se le lucidature estreme dei piccoli yacth ormeggiati dicevano qualcosa di diverso dall’immenso mondezzaio che sembrava quel giorno tutto il porto all’ora di mezzo pomeriggio. Perciò quando la vide, alta e slanciata, con la pelle bruna, e fasciata di un vestito di lana rosso fuoco contro l’atterrito sfondo blu del cielo e dell’acqua fu uno schiaffo di colore da tenere serbato nella mente per momenti migliori. I capelli corti e corvini rifinivano l’insieme sobrio ed elegante fino allo scintillio di due sottili cerchi d’oro che le pendevano dai lobi finissimi…Una Cuba così non se l’aspettava, tanto meno quel pomeriggio, ma se quella doveva essere la Cuba con la quale trattare …bè tanto meglio, peccato solo che fosse tutto frutto della sua fantasia impegnata….nel sogno.
Kamal si risvegliò dalla visione di Cuba eccitato, sudato, affamato, assetato e con il forte bisogno di prendere una boccata d’aria. Fra tanti stimoli da soddisfare e non avendo idea da quale cominciare verificò la tenuta dei suoi pantaloni militari sulle parti basse, lanciò due sbadigli, si stiracchiò e, raccattato il sacco, scese di corsa, come suo solito, le poche scale che lo dividevano dalla via larga e affollata della pensione per andare a procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti. Dopo un breve sguardo a destra e a sinistra per decidere la direzione, prese decisamente a destra, seguendo il tratto più lungo di quella strada che ancora gli rimaneva da percorrere, a quell’ora, più o meno le sette di sera, zeppa di gente che camminava distratta o determinata in tutte le direzioni. La sua altezza faceva sempre clamore e non faticava a farsi largo sul marciapiede. Decise per un negozio di frutta, degno di uno sguardo più per la freschezza della merce esposta che per la voglia di vendere del tizio che stava seduto dietro le ceste degli ortaggi. Kamal chiese banane, mele e arance indicandole con cura al “lungo” che, per dire il vero, anche se di faccia pareva uno svogliato di natura, lo guardava con una certa simpatia. Ma era lento e ci mise talmente tanto a sistemare la frutta nelle buste, a pesarla e a fare il conto per ogni singolo prodotto che Kamal, ancora accaldatissimo dal sonno e dalla camminata, fece in tempo a slacciarsi il giubbotto, allentare la striscia di lana colorata intorno alle guance, sfilarsela, decidere poi di ripiegarla e appoggiarla sopra una cassetta per metterla nello zaino, darsi un paio di occhiate abbondanti alle scarpe.
Quando finalmente “il lungo” si degnò di restituirgli la sua roba, lo pagò ed uscì di corsa senza tenere tanto in considerazione lo sguardo ospitale dell’altro. Rientrò quasi subito in camera, dopo aver acquistato acqua minerale ed un pacchetto di cartine per le sue fumate. Aveva in mente di scrivere a Nata.
Grillo, all’uscita di quel nero imponente dalla frutteria, aveva notato quasi subito la sciarpa di lana colorata dimenticata sopra una cassetta di frutta vuota, la prese al volo e con due balzi arrivò sulla porta del negozio. Scrutò velocemente a destra e a sinistra, ma figurati se quello con le gambe lunghe che aveva con quattro falcate non era già tornato da dove veniva: perché era sicuro che stesse accampato in qualche pensione lì vicino in attesa di partire per chissà dove.
Comunque, per prevenire malintesi, incartò la sciarpa dentro un pezzo di giornale e la mise sotto al bancone dove teneva le buste con le altre dimenticanze dei clienti abituali.

4
Gelinda era arrivata alla fine della giornata, come al solito, stanca morta.
Ma quella no, quella non era una serata come le altre. Un presentimento? Uno svolazzo dell’anima che fiutava già la piacevolezza della serata? No. Una certezza, un’abitudine consolidata in anni e anni di onesto convento.
Quello era il giovedì del bagno e del piacere. Oh, si badi bene, degli onesti piaceri che un’anima pura come quella di Gelinda si sarebbe potuta sognare di concedersi. Era almeno mezzanotte. E come tutti i giovedì si era trattenuta al tavolo da lavoro della biblioteca per finire di correggere i compiti della sua classe di quinta elementare, i questionari del corso per adolescenti, quelli del prematrimoniale, e scriversi gli impegni di tutto il mese con il centro d’ascolto per i tossicodipendenti, insieme alle attività da svolgere con gli ergastolani. Settimane così fitte di impegni non si erano mai viste, ma era contenta del suo servizio, soprattutto perché le dava l’opportunità di stare con la gente, di vivere, di non sentirsi mai scansata per la foggia delle sue vesti, di essere considerata per la sua anima, che poi era consacrata al Signore e questo rimaneva giorno dopo giorno il vanto della sua vita.
Diede una scorsa veloce all’ultimo messaggio di posta elettronica stampato nel pomeriggio. Era una lettera del suo amico Mario, padre Mario, che sicuramente le mandava i saluti dalla sua oasi africana. Con le poche righe digitate in uno stile sobrio e meno prolisso del solito Mario, invece, le raccomandava un giovane, il fidanzato di una carissima ragazza che insegnava all’oasi, che era venuto nella Capitale italiana preso da certi suoi progetti. Avrebbe alloggiato al tale indirizzo e si sarebbe messo in contatto con lei per trovare una sistemazione lavorativa temporanea ed un imbarco; in vista di questo contatto lui stesso avrebbe mandato presso la Casa Generalizia eventuale posta per questo ragazzo etc. etc.
Ridistratta dai suoi pensieri e rimirando il mucchio di carte che le stava davanti fece tra se: “Gelì fra i tanti impegni non hai giocato manco mezza lira sul derby della Capitale, vabbè che c’hai da fare, ma questa è quasi imperdonabile”.
Dopo questa lettura spense le luci del piano terra e si incamminò per l’imponente scalinata panoramica della villa primi del ‘900 che ospitava lei e la sua sorellanza. Arrivò fino al bagno grande della casa, spalancò la porta, accese la luce e rimirò l’immensa vasca con i piedi di leone pittati d’oro che troneggiava nel bel mezzo della stanza. Miscelò dai rubinetti un distensivo bagno caldo, ci affogò due manciate di sali rosa e qualche goccia di bagnoschiuma agli estratti naturali di tiglio. La casa era immersa nel silenzio più assoluto, le consorelle dormivano e lei, rispettando quella quiete, serrò piano la porta, si tolse le vesti e si immerse non prima di aver sistemato vicino a se una borsetta di cuoio marrone e la tavola di legno utilizzata per il lavaggio dei panni che, una volta immersa, provvide a sistemare sotto le ascelle come fosse un tavolino. Prese la borsetta e nell’aria impregnata di profumi e vapori estrasse la sua bella pipa, una sobria pot in radica scura con l’unica civetteria del raccordo in argento tra il fornello e il bocchino; un pacchetto di scovolini coloratissimi e morbidi ; una scorta di mitico tabacco “D” nella sua scatola di metallo stampato e meravigliosamente profumato ed infine un accendino.
Caricò la pipa e pressò la miscela, senza esagerare, con la lentezza di chi è certo dell’eternità e sprofondata nella schiuma bianca dei saponi fumò ad occhi chiusi sorbendo l’aroma profondo e allo stesso tempo fresco del tabacco.
Passata una buona mezz’ora così, l’improvviso stocco secco di quella che sembrava una mazzata e l’andare in frantumi di vetri al piano terra la fece sobbalzare nella vasca, la tavola sotto le ascelle volò con tutto il completo da fumo, Gelinda appoggiò veloce la pipa, agguantò l’accappatoio e scese le scale senza nemmeno infilare le pantofole appena in tempo per veder scappare, arrivata a metà della grande scala, due ombre magre e lunghe armate, così le parve, di due mazze da baseball.
La voce per gridare non le uscì dalla gola per la sorpresa e lo spavento. Mentre gli intrusi galoppavano chiaramente verso il muro sud del parco conventuale, le sorelle delle stanze più prossime cominciarono a migrare nei pressi della scala piene di domande verso Gelinda ancora grondante d’acqua e sudore…”Che succede?, Cos’è successo?…Ho sentito solo un tonfo… Signore! i ladri!”… Dopo qualche minuto appena, tutto il convento in subbuglio, Gelinda riprese il controllo dei propri nervi paralizzati: si chiuse la spugna alla meglio, rassicurò madre Letizia e madre Lucis, le più anziane della sorellanza, riguardo la fuga dei due che aveva intravisto e le affidò premurosa a suor Carmelita, si fece forza e cercò di constatare i danni.

5
Il commissario Sordini, diciamolo subito, venne svegliato nel cuore della notte, nella quiete del letto nuziale e senza il minimo rispetto per i suoi trentacinque anni di commissariato, non perché si occupasse solitamente ed in prima persona di furti o bazzecole del genere, anche se con scasso, ma semplicemente perché quella che in prima battuta sarebbe sembrata la non accorta telefonata di un sottoposto appena arrivato in servizio al commissariato, non lo era affatto. La telefonata non arrivava da un nuovo acquisto, ma da un agente navigato e consapevole ed aveva la sua ragion d’essere, a quell’ora inusitata della notte, in virtù delle sante vittime del furto: le suore di Largo Santa Paola e quindi anche suor Gelinda.
“Siiiiiii – rispose al trillo del telefono Sordini, rovesciandosi nella sua discreta mole, il più lontano possibile dalle orecchie dell’amata consorte, con un filo di voce appena schiarita – ho capi’, ho capì, va be’, al convento, arrivo s-u-b-i-t-o”. “Chi era Albè?” – domandò la signora Marisa girandosi e riprendendo a dormire senza quasi aspettare la risposta.
“E’ per Gelinda, al convento” rispose, già compreso nel ruolo, Sordini.
Un assenso della consorte sottolineò la novità e non arrivarono altri commenti perché la parola “Gelinda”, sembra ormai ovvio, aveva vasti poteri.
La loro amicizia – rifletteva in macchina avviandosi al convento – così sapeva sinceramente di poterla chiamare, era nata almeno quindici anni prima. Gelinda era più giovane di lui, e fin dai loro primi contatti per questioni ufficiali, beghe burocratiche perlopiù legate alle persone alle quali suor Gelinda portava la propria assistenza, avevano rivelato a lui la coscienza di questa donna fortemente religiosa eppure così pratica e simpatica nella vita di tutti i giorni; in Gelinda, lo sapeva bene, la riconoscenza perché aveva la certezza di trovare in lui un uomo che invece di chiudere un occhio sulle umane miserie, li teneva aperti ben bene tutti e due per vedere meglio che cosa fosse possibile fare. Tutti e due credevano che sarebbe stato inutile andare a rimpinguare il numero di reclusi nelle patrie galere: tutte quei turisti per miseria che avevano alle spalle una storia già drammatica senza metterci sopra il carico di piccoli reati o irregolarità nei documenti andavano il più possibile aiutati.
Al convento Sordini si avvide che l’accaduto aveva comportato pochi danni: una teca fracassata, il furto di qualche moneta delle collezioni esposte nell’ampio atrio, una certa agitazione delle consorelle così come gli aveva testimoniato la sua amica, (la sua era anche l’unica testimonianza che poteva dire di aver visto due ombre armate di grossi oggetti contundenti, o poco più). I dubbi rimanevano su tutto quello che non si poteva vedere, logico: da dove erano entrati precisamente i ladri e perché rubare quattro cose in una collezione di tutto rispetto come quella per la quale uno si sarebbe aspettato un furto magari su commissione, una cosa da intenditori. Sordini era sicuro di non essere del tutto sveglio, ma confortato dalle osservazioni di due dei suoi uomini, arrivati per rilevare impronte e quant’altro, ebbe la conferma che il suo fiuto, anche se appannato dal sonno, era sempre buono. Così rivolto a Gelinda, concluse:
“Il fatto è, Gelì, per essere pratici, che per furti del genere abbiamo denunce a bizzeffe, noi siamo pochi per seguire tutte queste pratiche, e gli elementi, come avrai capito, non so’ nemmeno tanti. Per adesso anche questo episodio se ne sta buono buono in archivio. Chissà, se per quel qualcosa di strano che non me quadra, non torni fuori, prima o poi”.
Le spiegò le sue impressioni, poi, vista l’ora tarda, si salutarono.

6
Grillo gironzolava nervoso nella grande sala d’entrata del convento spiando ogni tanto il monumentale scalone di marmo e legno scuro e sperando di veder scendere Gelinda. L’aveva chiamato con urgenza e quelle sue chiamate lui le conosceva bene. Le era sicuramente venuto in mente qualche altro progetto per la cui realizzazione occorreva fare subito tredici alla schedina e così, dopo un periodo vuoto di giocate, aveva compilato qualche altra colonna comprensiva di doppie e aveva deciso di dare fondo a qualche migliaio di lire, ops, a qualche decina di euro. Grillo notò, fra le teche esposte intorno ai muri della sala, volute dall’ambizioso donatore della villa per mostrare le proprie belle e rare collezioni di argenti europei e orientali, quella spaccata tre settimane prima “dai due ladri della mazza da baseball” così come li chiamavano ancora le monache tutte scosse dall’avvenimento di quella nottata. Si accorse anche che i due, fra tante bellezze avevano prelevato qualche mezza patacca fra le meno apprezzabili: qualche nozione in proposito gli arrivava da suo padre che, tra i tanti difetti, era anche un collezionista accanito di monete d’argento…. quello che avevano preso, per intenderci, l’avrebbero
potuto apparecchiare al massimo ad un mercato delle pulci (un ricettatore non avrebbe mai considerato un simile “bottino”) e a mala pena per l’equivalente di qualche panino con la mortadella. Introdursi in una villa come quella, seppure trasformata in convento, con tanto di muro di cinta alto e spesso, armati di una mazza da baseball, per rubare senza nemmeno avere una commissione cominciava a sembrargli più un colpo da rubagalline. Mentre raccattava una busta vuota andatasi ad incastrare sotto il basamento di legno della teca sentì Gelinda che lo salutava vispa come sempre dallo scalone.
“Ehi! Tenente Colombo dei miei carciofi, sempre in cerca di indizi, sempre con le meningi in funzione, sento il ronzio da qua!” e Grillo “Dai non scherzare Gelì” glielo rispose in modo lamentoso, ma non arrabbiato come avrebbe fatto con suo padre…
“Comunque senti – proseguì Gelinda – a parte il fatto che è quasi un mese che non ti fai vedere volevo chiederti una cosa che riguarda il tuo mestiere”
“Quello di giocatore di schedine ?”
“No, quello di investigatore. Dovresti cercare di capire se abita o se ha abitato qua intorno un ragazzo africano vestito come sta scritto su questo telegramma che mi ha spedito padre Mario. È un tipo alto circa un metro e novanta; è partito con gli indumenti che leggi lì e dopo aver telefonato e scritto regolarmente due o anche tre volte la settimana ha smesso di farsi sentire da una decina di giorni. C’è anche una sua foto, ma la stampa non è un granché.”
Grillo non ne fu sicuro subito, poi quando lesse il tipo di abbigliamento e soprattutto il particolare della sciarpa di lana colorata…che non è proprio normale partire dall’Africa con una sciarpa di lana, magari era il regalo di qualche amico o di una ragazza in previsione del freddo incontro al quale il viaggio lo avrebbe portato…
“Ma certo, questo è Kamal….abbiamo chiacchierato qualche volta, è mio cliente al negozio, viene spesso a comprare la frutta.”
“Vuoi dire che lo conosci ? “
“Si, per via di una sciarpa che si era dimenticato, poi lui è tornato a comprare al negozio e mi ha ringraziato di avergliela tenuta allora abbiamo fatto un po’ di amicizia sai com’è?”
“Da quanto lo conosci?”
“Da meno di un mese, forse tre settimane.”
“E sai dove alloggia?”
“Una pensione proprio sulla stessa strada del negozio, non ci sono mai stato a trovarlo, ma so dov’è il posto, precisamente, e poi è giusto qualche tempo che non lo vedo. Non è più passato a salutarmi, me lo aveva promesso se fosse andata bene con Cuba.”
“Con Cuba ?”
“Si non so precisamente di che si tratta….lui mi raccontava di voler conoscere i fratelli neri d’America, poi più o meno una setti-mana fa mi ha parlato di una storia di Cuba, ma ero al negozio, è entrata gente mi sono distratto poi lui vedendomi impegnato mi ha salutato…..Adesso che mi ci fai pensare è da quel pomeriggio che non lo vedo.”
“Insomma, vedi se riesci a trovarlo alla pensione e digli che la sua ragazza e anche Padre Mario giù alla missione sono preoccupati per lui, di farsi sentire. Ci riaggiorniamo a questa sera” e Gelinda, salutando come alle partenze dei treni, fece per girare i tacchi e dirigersi in biblioteca, ma la richiamò la voce arrochita di un investigatore incerto, ma capace:
“‘Scolta, Gelì, il fatto del furto di tre settimane fa, qua al convento, ….ma ti pare che un furto su commissione di oggetti d’argento antichi arrivano due con una mazza da baseball e alla fine, a parte il fatto che rubano poco e niente, si portano via, mi sembra, così a occhio, le peggiori monete della collezione e non toccano i pugnali istoriati di pietre preziose, i bracciali, le pietre dure orientali….”
“Pure il commissario Sordini che è venuto per la denuncia ha fatto la stessa osservazione – disse Gelinda pensosa – poi ha concluso che forse cercavano solo qualche spiccio per un po’ di eroina”
“E lo vanno a cercare nella cassetta della posta ?”
“Nella posta ?”
“Si, perché sotto il basamento della bacheca che hanno sfasciato ho trovato questa busta aperta….”
Gelinda la rimirò qualche istante poi guardò Grillo attraversandolo con lo sguardo e disse:
“E’ vero, Gesù…dopo quella notte è sparito un pacco di posta. Credi che siano stati loro? Eppure sono passata e ripassata decine di volte davanti a quelle bacheche, perché sentivo che qualcosa non andava, ecco, sapevo che avrei dovuto dirtelo subito… però cosa vuoi che se ne facciano di un pacco di posta?”
“Questo non lo so, dovrei pensarci su un momento, ma quello che è certo è che hanno utilizzato la storia del furto come copertura. Non era l’argento che cercavano entrando qua.”
Si salutarono concentrati, ognuno sulla propria indagine e un po’ anche su quella dell’altro, con parecchie cose da rimuginare, fino all’appuntamento della sera.

7
L’androne della pensione ingiallito dal tempo e dal fumo di migliaia di sigarette mandava un leggero odore di soffritto di cipolla che doveva arrivare dall’abitazione sul retro occupata dalla padrona. Grillo chiamò a gran voce – “C’è nessunoooo” – perché non esisteva campanello e per verificare meglio la situazione generale. Non conosceva il numero della stanza di Kamal, ma essendo quella, più che altro, una pensione a ore con le stanze quasi tutte occupate a quell’ora di metà mattina, prese le uniche tre chiavi appese al legno dietro il bancone e salì per la ripida e breve scalinata.
Penetrato di soppiatto nella prima stanza vide una gonna appoggiata sul letto e un paio di stivaloni con la zeppa che pendevano flosci contro una sedia……no, non era la stanza che cercava. Nella seconda stanza non notò niente di particolare, ma entrò silenziosamente scivolando lungo il muro e richiudendosi piano la porta alle spalle. Nel piccolo armadio di fòrmica cartonata mezzo aperto, niente; il letto in ordine, qualche cartina sparsa sul tavolino di servizio che poteva non avere alcun significato vista la totale assenza di igiene del posto. Il bagno era completamente vuoto di effetti personali perciò la stanza era attualmente disabitata. Ma ne era sicuro: lì aveva dormito Kamal anche se c’erano scarsi indizi per tirare conclusioni e in ogni caso sarebbe stato difficile dedurre la sua partenza visto che il suo unico capitale era il sacco che portava in spalla anche quando usciva per mezz’ora. Seduto sul bordo del letto si perse qualche minuto dietro a personali astrazioni… La spazzatura, certo! Il cestino, a giudicare dall’odore, non veniva svuotato da giorni. Esitò un momento. Poi chiuse con un nodo la sacchetta di plastica nera e se la tirò dietro richiudendo la porta della stanza. Al piano terra appoggiò rumorosamente le tre chiavi sul marmo sbeccato della portineria e un’aspra voce femminile lo appellò: “‘A lungo ma ‘ndo cazzarola vai ‘n giro pe’ le camere ohh, ma.. e la bustaaaaaa” – sentì gridare mentre correva e Grillo strillò a sua volta – “Tranquilla, servizio ai pianiiii.”
Calcolò che gli restava un’oretta prima di scendere al negozio per le consegne a domicilio dell’ora di pranzo. Si chiuse in camera e sparpagliò gli indizi del sacco dentro una cassetta di cartone delle ananas. Ancora cartine, una lettera cominciata tre o quattro volte e appallottolata, salviette per asciugare le mani, rimasugli di tabacco, avanzi di pane e bucce di frutta… una carta stradale strappata dall’avanti elenco del telefono di Roma. Grillo l’appiattì ben bene sulla sua scrivania. la rotta segnalata con una penna rossa indicava una sola direzione: il porto.
Guardandola più da vicino si accorse che una grafia incerta aveva tracciato la scritta: CUBA. Forse Cuba, trovandosi in un porto, poteva essere una nave, una nave che avrebbe portato Kamal per un pezzo più vicino ad un imbarco per l’America, la meta che sognava. Rovistò velocemente nel cassetto della scrivania, ammucchiò qualcosa in uno zainetto di tela con la ferma intenzione di andare al porto.

8
“Gelì, guarda che ti cerca Padre Mario su Internet, ma non è un messaggio è in connessione in questo preciso momento e sembra urgente, sai che non spreca mai le chiamate” – proferì Casimira sospirando alla vista di Gelinda pensosa, ancora una volta sul quel santo breviario. Gelinda stavolta non se lo fece ripetere e raggiunta una parte più riservata dell’enorme sala biblioteca dedicata al computer lesse il testo già digitato: “Gelinda scusami, ma riguardo al telegramma su quel ragazzo, Kamal, forse ti devo qualche spiegazione.”
Gelinda digitò un laconico: “Parla” e inviò.
“Kamal è un grande amante del mare. Qualche mese fa, prima di partire, faceva il bagno di notte nei pressi dell’attracco di una grossa nave di aiuti umanitari che veniva a scaricare materiale anche alla mia oasi. Poteva essere mezz’ora dopo la mezzanotte mi raccontò, e vide dei tizi che scaricavano casse su casse da alcuni gommoni a remi portati a riva. Allora uscito silenziosamente dall’acqua si nascose dietro una pila di queste casse per rivestirsi e andarsene visto il tono confidenziale dell’incontro. Ma quelli si misero ad aprire le casse e a tirare fuori e provare, come per la verifica di un grosso affare, fucili automatici, munizioni e quant’altro di terrificante riuscivano a tirare fuori. Kamal dopo quello che aveva visto si era già immaginato un’accorta via di fuga verso le dune a poca distanza, ma l’orologio al polso gli fece lo scherzo di segnare l’una con la solita musichetta. Quelli si sono accorti che lui stava là ed hanno preso ad inseguirlo, ma con quella falcata da trampoliere che si ritrova ha fatto comunque in tempo a scappare. Però è un testone che semina in giro sempre qualcosa di suo: ha lasciato sulla spiaggia una sacca di stoffa, perciò ha pensato di essere stato identificato… e forse ha pensato bene… Si è confidato con me e io l’ho spedito a Roma dandogli qualche indirizzo dalle tue parti dove alloggiare e pregandolo di mettersi in contatto con te. Ma agli indirizzi dati non è mai arrivato, e con te non si è mai messo in contatto. Quei delinquenti hanno saputo che si trova a Roma. Un paio di giorni dopo la sua stessa partenza hanno intercettato il tuo recapito rubandosi, pensa un po’, tutta la posta. Questo, però, significa che nella Capitale se vanno a cercarlo dalle persone che gli ho consigliato io, e tra queste ci sei anche tu, non lo trovano nemmeno loro perché per fortuna non è stato ad ascoltarmi, ma c’è poco tempo….guarda che non ha documenti validi e ha pochi soldi con se.”
Gelinda in un lampo di stupore collegò la sparizione della posta in portineria, della quale nessuna si era saputa spiegare la ragione, con la ricerca disperata che quei delinquenti avevano fatto di Kamal nei giorni immediatamente seguenti il suo arrivo, ma non volle mettere ancora di più in agitazione padre Mario di quanto ci si trovasse già lei e rispose:
“Lo abbiamo comunque trovato. Ha fatto amicizia con il verduraio del convento, un ragazzo, vedrai che ti farò avere notizie al più presto. Però sta’ roba potevi scrivermela prima… sei il solito pasticcione.” Inviò.
Rabbrividì davanti alla quotidiana riconferma del mercato della morte palesemente parallelo alla vita. E anche per il rinnovato cinismo dei suoi costruttori che imbarcavano strumenti di annientamento sopra navi di aiuti umanitari. Si sentì piccola e inservibile. C’era sempre qualcuno che foraggiava gli odi fra poveri, comprese esotiche “guerre delle banane” che per chi non possedeva nulla significavano solamente guerre come tante altre: guerre per difendere il diritto ad avere un territorio non colonizzato da stranieri dove vivere e per il diritto al pane da mettere sotto i denti. Con la differenza che adesso potenti burattinai muovevano le loro marionette sopra un palcoscenico diventato grande come il mondo. La globalizzazione della sopraffazione era cosa fatta.
Dopo questa missiva ricevette un saluto da Mario, ma le lettere arrivavano tagliate a metà come tanti uncini sulla riga: si era rallentato il collegamento, cominciavano a entrare nell’ora di punta. Dall’angoscia il pensiero corse a Grillo che forse andava ad infilarsi in un pasticcio più grande di lui.
Suor Gelinda, senza pensarci sopra, cominciò a pregare appellandosi ai Santi della Prudenza.

9
Al porto si guardò intorno per un pezzo senza decidere da che parte andare. Fiutava l’aria, ma al principio il fiuto non lo indirizzò bene. Grillo cercava una nave. E la trovò compitando i nomi di tutte le grandi di lungo corso attraccate alla banchina: C.U.B.A.. Enorme, altissima e scura. Al primo sguardo sembrava disabitata. Al secondo anche. Nemmeno le corde dondolavano al lento rollio dell’acqua tanto erano pesanti e robuste. Immaginò di imbarcarsi a cercare Kamal. Kamal e le sue prodezze di partire per l’America, Kamal e la forza dei vent’anni, quattro meno dei suoi, Kamal e la certezza di un futuro migliore dove richiamare la sua donna e vivere gli anni migliori circondati dal verde degli stati del nord America. Perché avrebbe dovuto imbarcarsi sopra una nave chiamata CUBA? Per avvicinarsi ad un imbarco clandestino per l’America del nord…visto che era senza documenti e con pochi soldi in tasca…un passaggio per il quale avrebbe lavorato, come avrebbe dovuto fare lui stesso per imbarcarsi e scoprire se Kamal era li sopra, sperando di trovarlo prima della partenza per poterlo almeno salutare.. Altrimenti i numeri della crociera sarebbero potuti diventare da capogiro vista la sua quasi totale mancanza di verdoni: decine e decine di metri di ponti da lavare, innumerevoli sacchi di patate da sbucciare lavare e tagliare, centinaia di piatti e pentolame da grattare, migliaia di calzini da strofinare. Si sentiva già stanco.
Girò i tacchi per dirigersi verso la zona degli uffici e sentì una voce femminile chiamare a gran voce: “Cuuuba, Cuuuba….” all’indirizzo di una bellissima nera fasciata d’uno splendente vestito di lanetta rossa. Mai visto niente di più perfetto..una mora alla fragola. Si perse per qualche istante dietro al movimento di due natiche che parlavano e sorridevano contemporaneamente, finché la ragazza che la chiamava la raggiunse e gli fu chiaro che quello era il momento per fermarla. Si presentò a quella bocca tonda e rossa e ai suoi due occhi scuri e lucenti, di cui uno leggermente pesto, come un amico romano di Kamal, un nordafricano alto e bello che forse avrebbe dovuto imbarcarsi per l’America…. Lei troncò il discorso, congedò la sua amica e lo fece entrare in una stanza semplice e spoglia, ma già alla prima occhiata più accogliente del resto e, almeno, priva di spifferi:
“Kamal ?” – riprese,
“Si”
“No, non l’ho mai conosciuto di persona. Di nome…soltanto. Me lo hanno raccomandato degli amici del nostro paese, siamo conterranei – continuò nel suo italiano dalle consonanti ammorbidite ai bordi – mi hanno chiesto se potevo aiutarlo per qualche documento e per un lavoro sulle due navi merci che avrebbe dovuto prendere per raggiungere l’America, ma…- qui si interruppe mordendosi le fragolose labbra – qua non si è mai fatto vivo, deve averci ripensato, non so.”
“Vedi Cuba, lui mi ha parlato di questo contatto con te ed era molto convinto di partire, da circa una settimana non sta più dagli amici che lo ospitavano…come fa ad averci ripensato, e poi vedi non so dove cercarlo.”
Cuba guardava in giro, non era più tranquilla come le era sembrata al principio. Riprese a farfugliare qualcosa e provò ad offrirgli un caffè. Grillo, distratto dai suoi pensieri, in quel preciso istante decise di lasciar stare quella traccia e di far decantare la situazione almeno un altro giorno.
Rifiutò l’offerta del caffè, saluto Cuba in modo rassicurante e uscendo guardò istintivamente l’orologio sopra la porta dalla quale era entrato e poi la parete sulla destra che ospitava un attaccapanni. Un sudore gelato gli rigò la schiena. Si voltò impercettibilmente verso Cuba che ora tremava e basta. Decise di non farsi scoprire. Uscì lasciando scivolare da sola la porta a vetri e si diresse al primo telefono verso l’uscita del porto. Ormai convinto da quello che aveva visto fece due rapide telefonate e si apprestò a rientrare alla base.

10
La telefonata di Grillo raggiunse Gelinda alle sette, un’ora prima dell’appuntamento serale prefissato al cancello dell’orto, in fondo al parco. Ma a Gelinda, dopo le preghiere, era salita l’ansia ed era già uscita ad aspettarlo tanto che per rispondere al telefono avevano dovuto richiamarla. Grillo le faceva sapere che sarebbe arrivato intorno alla mezzanotte, che era fuori Roma e che prima doveva fare una certa cosa. Gelinda gli catapultò addosso le notizie avute da padre Mario e allora Grillo ebbe la certezza che Kamal si era cacciato in un guaio grosso e dentro di se concluse pure che non l’aveva raccontata tutta, ma non ne parlò a Gelinda e si salutarono.
Dopo la telefonata, Gelinda uscì di nuovo non prima di aver lasciato detto a suor Casimira di non volere cena, che si sentiva lo stomaco stretto.
Casimira, che la vide avviarsi accigliata, con due libri di fede involtati nel cuoio scuro le disse: “Gelì, prenditi qualche ora d’allegria, tu pensi troppo.”
la voce di Sandrino l’aveva un poco sollevata, ma la giornata di attesa era stata molto più pesante di quanto avesse immaginato. Si fidava del giovane intuito di Grillo, ma averlo visto quasi crescere negli ultimi cinque anni, e sapere in quale storia lo aveva coinvolto, anche se ignara di tutto almeno al principio, le dava una stretta al cuore. La tensione continuava ad essere troppa. Decise che non avrebbe aspettato la serata infrasettimanale. Non ce la faceva proprio, e aveva bisogno di rilassarsi e di credere che sarebbe andato tutto bene. Aprì uno dei due astucci di cuoio e cominciò a montare e caricare la pipa. L’orto, seppure ormai quasi al buio, testimoniava la prossima fine dell’inverno. Le gemme dei numerosi alberi da frutto cominciavano a perdere la tenuta da freddo; i passeri schiamazzavano continuando a contendersi i rami più comodi di un grosso lauro in vista della notte. Le consorelle a quell’ora sedevano tutte nel tepore del refettorio per la cena. Gelinda si assestò la giacca di lana spessa e nera lavorata da lei stessa ai ferri e prese a fumare a grandi boccate.
Grillo, rientrato in città, spiò da un vicoletto i lavori di chiusura del negozio da parte del padre. La grossa stazza ben piantata sulle gambe dava ordini ai due garzoni giovani di sistemare le casse all’interno e di preparare le serrande per la chiusura: poi, ogni tanto, tra smarrito e imbufalito spiava a destra e a sinistra dell’ampia strada, batteva un piede tre volte, faceva “si si” con la testa un altro paio inseguendo un suo proposito e ricominciava a strillare. Grillo non si sbagliava di tanto se intravedeva due spire di fumo che gli uscivano dalle orecchie e una dal naso, visto di profilo, come i tori al recinto. Decise che avrebbe passato la notte sul furgone.
Arrivato quasi di corsa davanti al commissariato cercò del commissario. Sordini lo aspettava nel suo ufficio, dopo la telefonata dal porto, impazientemente scettico di ascoltare la storia. Grillo ci mise un po’ per inquadrargli la faccenda del furto nel convento, con la testimonianza avuta da Gelinda più le informazioni arrivate da padre Mario; la storia cominciata in Africa e che proseguiva a Roma, fino a chiedergli se esisteva l’identikit dei due che avevano commesso il falso furto.
Dei due, mercenari stranieri di vecchia conoscenza – lo informò Sordini – non c’era l’identikit, ma gli originali chiusi in guardina da qualche giorno assieme alla mazza da baseball utilizzata come scusa per trattenerli in attesa di accertamenti. Solo che non erano riusciti a scucirgli nient’altro che la scusa del furto su commis-sione. “Quelli saranno pure africani – confermò Sordini – ma a me me pareno du’ registratori. E’ n’ giorno che ripetono sempre la stessa cosa.”
Eppure quando Grillo aggiunse il particolare della sciarpa vista all’attaccapanni dell’ufficio portuale, particolare importante datosi che lui l’aveva maneggiata ed era sicuro che fosse la stessa di Kamal, e che era proprio una caratteristica del suo amico quella di perdersi le cose, qualcosa cambiò nel fare scettico e pensoso del commissario. Improvvisamente ordinò di fare arrivare due pattuglie all’uscita, più un’altra macchina dove far salire i due fermati, dirette al porto. Lui stesso avrebbe coordinato l’azione. Grillo, sfinito dalla giornata, decise comunque che non sarebbe rimasto in centrale, con le mani in mano in attesa di notizie e salì in macchina con Sordini.

11
Nessuno era stato furbo in tutta la faccenda. Era una rozza faccenda di violenza e sopraffazione. Come tante. I due prezzolati, arrivati in vista del porto, ci misero poco ad impaurirsi, a darsi prima contro l’uno contro l’altro, poi a scodellare la faccenda del tizio che li aveva cercati perché c’era da fare il “lavoretto pulito”, quello di rintracciare, solo rintracciare , un tizio che aveva fatto il furbo….Perché pare che Kamal, la notte delle casse di armi giù al porto, vìstosi scoperto, si era offerto di guidare gli autisti sui luoghi dove andavano scaricate e per questo aveva preso un cospicuo anticipo sopra una bella mazzetta che pensava di utilizzare per il suo viaggio in America. Poi, preso dalla paura e dal rimorso si era confidato per metà con Padre Mario chiedendogli di cacciarlo dai guai, ma poi aveva sperato di farla franca a modo suo e di non seguire le istruzioni del buon prete. Arrivato a Roma, infatti, si era ricordato del contatto al porto, CUBA per l’appunto, spiato ai trasportatori delle casse e due settimane dopo il suo arrivo aveva tentato il secondo colpo gobbo provando a farsi imbarcare per l’America dalla stessa associazione a delinquere. Ma le voci avevano fatto in fretta a correre, il pianeta delle telecomunicazioni, ormai, era diventato troppo piccolo.
Piccolo per i furfanti , piccolo per i sognatori: ancor più piccolo per chi tentava di farla franca nel suo doppio ruolo di furfante-sognatore. L’organizzazione che aveva stretto il cerchio attorno a Kamal grazie ai due furti di posta, all’oasi e al convento, è vero che non era riuscita a centrare il bersaglio, ma a quel punto si era trovata a non averne nemmeno più bisogno visto che Kamal stesso si era messo nelle mani di Cuba che peraltro, dopo averlo conosciuto, non aveva nemmeno tutta questa voglia di tradirlo, ma il fatto di dover rispondere anche lei a qualche “padrone” e un solo schiaffone ben assestato come “chiaro prologo” di altri che ne sarebbero arrivati, era bastato per farla desistere dai suoi propositi.
****
“E Kamal? Cos’hanno fatto a Kamal?” Chiese la voce tremante di suor Gelinda nell’aria gelida della mezzanotte…
“Lo hanno ucciso e nascosto: prima in un frigo per avere il tempo di farlo sparire definitivamente in un secondo momento, ma poi, insospettiti dalla mia visita l’hanno nascosto in un capanno lontano dagli attracchi… e li lo abbiamo trovato stasera.”
Gelinda era impietrita.
Grillo, che non poteva tradire la sua natura restandosene immobile, camminava nervosamente avanti e indietro sempre sugli stessi pochi centimetri di terreno: la rabbia gli bruciava la gola, le lacrime stentavano a scendere, forse ne era definitivamente rimasto senza durante il tragitto in auto dal porto fino in città.
“Gelì, Kamal ha sognato, ha tentato un passaggio per l’Europa per acchiappare l’America…ha voluto con tutto se stesso, ha amato, e ha rischiato. Non me la sento di giudicarlo. A terra nel capanno, sparato, morto da giorni, ho riconosciuto lo stesso nelle sue gambe un movimento…uno slancio…stava camminando verso il suo Sogno. Non c’è più, e non tornerà. Ma voglio trovare i veri colpevoli della sua morte. Non quei due disgraziati assassini che l’hanno ammazzato senza nemmeno sapere da chi hanno preso l’ordine. Dimmi che mi aiuterai, che lo faremo, che coinvolgerai padre Mario……” zittito da un singulto improvviso riprese a piangere tutto il mare che aveva nell’animo.
Dopo alcuni minuti di silenzio si salutarono per andare verso le loro due notti insonni. Con i cuori gelati. Grillo verso il furgone, la sua seconda casa nei momenti bui; le mani nelle tasche sentì risbucare all’improvviso, dall’indefinibile di tutto quello che ci portava ammucchiato dentro, due palline di carta: la prima era l’indicazione per il porto, la seconda un foglietto vergato in francese, certamente da Kamal, sembrava una canzone, che tradusse come meglio poteva : “Vorrei essere per te un mago, un inventore di Altri Tempi…quelli che non abbiamo ancora visto insieme, quelli che non abbiamo ancora costruito, quelli che con te sento che potranno arrivare, e dai quali siamo ad un passo. Il Tempo in cui ti chiamerò da una regione verde dove amarci in pace…soltanto amarci in pace.”

12
I giorni che seguirono la morte di Kamal Gelinda raggiunse più volte padre Mario con messaggi e-mail informandolo di quanto era successo: lui diede uno strappo alla sua regola di povertà ed eccezionalmente le telefonò. Padre Mario promise di occuparsi più da vicino di tutta la faccenda del traffico d’armi, avesse dovuto coinvolgere anche…. “Perché Kamal ?” mormorò nelle orecchie di Gelinda che aveva conosciuto i tratti del ragazzo solo attraverso una foto. Gelinda volle inviare una preghiera di consolazione a Nata chiedendole di recitarla insieme, in un orario particolare, nel momento del ritorno del corpo di Kamal alla sua terra d’Africa… Nata, all’altro capo della cornetta, promise. Si abbracciarono idealmente.
Pochi giorni dopo Gelinda ricevette via modem l’ennesimo invito a scendere alla missione con i saluti di tutti i bambini e la viva preghiera del suo amico Mario.
*****
Il rientro di Grillo alla base, dopo questa avventura investigativa che non aveva potuto godersi come pensava, dopo averla attesa tanto tempo, a causa dell’evidente coinvolgimento emotivo, fu duro.
Duro, ma chiarificatore.
Una volta per tutte, disse sul naso del genitore perennemente imbufalito la sua volontà di fare due lavori. E non “prima il fruttarolo e poi il dekretin” – come diceva suo padre -, ma prima l’investigatore, per l’appunto, e poi il garzone delle consegne.
“Per le licenze e tutte le altre pratiche il commissario Sordini mi ha promesso il suo aiuto” – continuò Sandrino finalmente sicuro di se.
“E chi è ‘mo quest’artro, il parente povero de Alberto Sordi? Tutti tu li trovi te l’ho detto mille volte tu voi fa’ Tom Conzi…”
“Ponzi, papà, Ponzi….”
“E va bè, Ronzi, fa come te pare.. – s’arrese sprofondando la stazza sopra una poltroncina del retrobottega – tu lo sai Sandrino io ti voglio bene, te ne ho sempre voluto, e da quando non c’è più tua madre sei la mia unica gioia e felicità e io faccio tutto per te, però capisci…..”
“Papà !!”
“Va bé, va bé, allora de ‘sto amico tuo, poveraccio.. Siediti qua e raccontame com’è andata…

Qualche tempo dopo…
Gelinda ben al sicuro su una sedia imponente della sala di lettura del convento guardava attenta il breviario, appoggiato fra la possenza delle mani e le sporgenze della sua stazza, sottolineandolo e spuntandolo con rara passione religiosa quando venne interrotta bruscamente da Casimira in viaggio verso di lei direttamente dalle cucine :”Retorico dirti che sei più sfasata del solito, Gelì. Ti sei dimenticata che vengono a pranzo quattro arcivescovi?”
Era quello che temeva. Come al solito, per stare appresso a quella roba si era dimenticata del tutto che le toccavano i tortellini in brodo per il pranzo, la ricetta della sua regione che le veniva meglio, un vero sfoggio per il convento. Nel fare dietrofront Casimira le lanciò un “Allora dico che arrivi subito di sottoooo” , “Beneeee” rispose Gelinda ridistratta dal breviario nel quale stava gelosamente incartata la schedina delle partite del fine settimana con la quale ritentava la fortuna con la speranza di raggranellare i soldi necessari al suo viaggio in Africa. Se finiva di compilarla subito poteva passarla a Grillo che seguiva il corso di abilitazione ad investigatore privato la mattina e il pomeriggio passava per le consegne del negozio.
Ma si era fatto veramente troppo tardi. Prese una chiave dalla leggera sottoveste nascosta dagli strati di grembiuli neri e aprì il suo cassetto privato: vi ripose il breviario, sistemò l’astuccio portapipa bene accanto, guardò per qualche secondo le foto di Kamal speditele da Nata e una loro foto insieme dei momenti sereni.
Da qualche tempo un’inquietudine, simile ad una leggera folata di vento secco, la sorprendeva all’apertura di quel cassetto che custodiva sia i segreti ed i sentimenti di fede, non solo cattolica, delle sue innumerevoli amicizie che i suoi, pochi per il vero, vizi secolari. La percezione aveva a che fare con le parole d’invito di padre Mario che troneggiavano nel bel mezzo di quel decrepito e amato tiretto.
Parole che le facevano riaccarezzare il suo antico sogno d’Africa e illuminavano di nuovi significati un suo ideale che gli ultimi avvenimenti avevano reso ancora più vivo nel suo animo: abitare un giorno o l’altro, partecipando come poteva all’immane progetto, un mondo meno ingiusto.

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