“Questo buio feroce”
Ed è così nelle oscurità più fonde
in quelle notti lunghe della mente
quando non c’è luna che sveli un suo segno
quando non c’è stella che
dentro
si accenda E i più coraggiosi
per un poco brancolano
e battono
a volte
dritti in fronte
contro il tronco
d’un albero
ma poi imparano a vedere
Emily Dickinson
“Questo buio feroce” ideato e diretto da Pippo Delbono, attore e regista di origini ligure, già noto al pubblico per aver messo in scena “Gente di plastica” e “Urlo”, entrambi un successo di critica e pubblico, è una nuova pagina della sua straordinaria e poetica analisi della contemporaneità.
Le storie che il regista ci propone, sono le nostre storie, quelle di emarginazione, quelle che raccontano il dramma dell’esistenza senza veli e false ipocrisie, dove è presente un piano di lettura più immediato, quello in cui lo spettatore ideale è colui che riesce a stare attento anche a ciò che non si vede.
Anche questa volta Delbono in “Questo buio feroce” ci lascia senza fiato, una scenografia asettica fa da sfondo ad un dramma che ha come argomento quello della morte. Infatti lui stesso per questo nuovo spettacolo si è lasciato ispirare da un libro di Harold Brodkey, e del suo viaggio in Birmania, nel quale lo scrittore racconta di come ha scoperto di essere malato di AIDS, e dunque della sua consapevolezza di dover morire. Tutto questo raccontato in due anni di malattia, il cui decorso ha portato il prosatore a vivere in maniera lucida la sua eminente fine, raggiungendo una capacità letteraria fluida e creativa, come se ad animarlo fosse nella crudeltà della sua condizione uno stato di grazia.
La pièce è stata ambientata in una stanza bianca, dove degli esseri umani accomunati dalla malattia siedono in silenzio, in angoscianti sale d’attesa, non si conoscono fra loro, sono insieme, eppure è come se ognuno fosse in compagnia della propria solitudine e di un dolore senza tempo. I loro visi sono bianchi, i loro corpi trasfigurati, urlano, sussurrano illuminati da fasci di luce diafana, che rende ancora più agghiaccianti le loro figure, i loro giochi sadici, ed i loro racconti alterati nei toni. In tutto questo tormento ci sono cambi di scene, musiche incessanti ed il richiamo alla Dickinson, a Pasolini, alle suggestioni di Botero, Frida Kahlo, e Caravaggio. Quello che colpisce in questa lucida trasposizione della morte, è l’insegnamento che se ne trae, quello cioè di accettare il trapasso non nel suo atto finale, ma nell’affrontarlo sin dal suo decorso, per comprenderne la natura spirituale, per ricondurlo a qualcosa di più che ad un evento che deve compiersi, come a volerlo ricodificare fino a sentirne per assurdo il suo palpito vitale. I membri della compagnia di Delbono non sono attori professionisti, ma compagni di lavoro definiti dal regista: “attori straordinari”, con alle spalle gravi difficoltà, scelti in modo critico per portare avanti un suo particolare lavoro di ricerca, volto a tirare fuori dalle loro vite difficili la verità dell’esistenza, fatta spesso di dolorose e sofferenti esperienze, come quella di Bobò, un sordomuto analfabeta, conosciuto nel manicomio di Aversa che è stato la sua “casa” per quasi cinquant’anni, al suo debutto in questo spettacolo, e protagonista della rappresentazione “Barboni”, riconosciuta con il Premio Ubu, il down Gianluca Ballaré, il poliomielitico Armando Cozzuto ed il barbone Nelson Lariccia.
“Questo buio feroce” è un buio sconosciuto, dove non si può entrare se non ci si lascia coinvolgere, dove ci si commuove fino alle lacrime, è un silenzio concentrato sulla morte, la paura dell’ignoto, è un brancolare nelle tenebre, senza poter intravedere la meta, la strada da percorrere; eppure nonostante la disperazione di quei corpi spettrali che animano la scena, proprio da quel buio profondo che li avvolge, affiora finalmente una luce, quella che può scaldare il cuore anche nell’evento luttuoso della separazione, quando a rinascere è la vita e la speranza con le sue promesse.
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