Quale cultura attorno al femminicidio – 1/2
Il termine femminicidio, ha raccontato Giovanna Marini durante una serata di riflessione e festa sui diritti indetta dalla ‘rete CinEst’ di Cinecittà, è stato diffuso dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez, operaie di questa città di confine, violentate e seppellite nei pressi delle strade buie sulle quali era teso loro l’agguato. Durante la serata il coro di Monte Porzio Catone, dalla Marini diretto, presentava una raccolta di canzoni popolari sulla storica consuetudine criminale di matrice patriarcale di uccidere la propria moglie, considerata una proprietà, per sposare una donna più giovane, per liberarsi di una presunta fedifraga, per gelosia.
Per anni l’indifferenza ha regnato su questi casi di cronaca, per la provenienza umile delle donne nel caso delle ragazze messicane, per la loro appartenenza di genere e per secoli, raccontava l’etnomusicologa, sull’uccisione di donne ha prevalso un tono di distacco e noncuranza, come si trattasse di ovvi tributi dovuti alla prosecuzione della vita più che all’oblio, come cantavano mirabilmente i testi portati all’attenzione del pubblico in quella serata, alcuni giunti a noi dai tempi delle Crociate. Testi canzonatori e indifferenti della sorte delle poverette: in un canto, alla sposa sospettata di infedeltà e ridotta in fin di vita assieme al figlio neonato, il marito, accortosi dell’errore e in procinto di uccidere se stesso, chiede di ‘servirlo’, comunque, della sua spada! Nonostante gli ampi riferimenti culturali, la parola ‘femminicidio’ crediamo possa dare i brividi pur dopo averla ascoltata molte volte: e forme di cristallizzazione del linguaggio, esemplificative di un concetto nell’uso che se ne fa, a volte, sui quotidiani, nell’informazione in generale, rischiano di esemplificare troppo realtà al contrario molto complesse. Ciò che resta cruda cronaca è che dall’inizio dell’anno sono state uccise molte donne, creature dello stesso genere, ma ognuna proveniente da situazioni e storie molto diverse. Nelle cronache lette, anche quelle dei quotidiani meno avvezzi al linguaggio efferato, non si lesinano particolari scabrosi o molto privati; si insiste sempre sull’aspetto della malcapitata (nel bell’aspetto della vittima il lettore dovrebbe individuare una sua maggiore colpevolezza – forse tradiva, si pavoneggiava – se donna non di bell’aspetto la curiosità sarà puntata sulla brutalità dell’uomo che l’ha uccisa). Intanto nell’articolo di spalla si fa di nuovo appello all’intelligenza del lettore: una scrittrice che spesso fa un lavoro onesto ma poco empatico, ‘suggerisce’ di volta in volta cosa pensare. L’intenzione non è quella di pontificare sulla eventuale maggiore accortezza/decenza da mantenersi nel linguaggio che descrive l’uccisione di donne, ma un richiamo è d’obbligo. La vita della famiglia in questione non finisce con la morte della donna e con quella, in molti casi per suicidio, del compagno, convivente, marito. Qualche volta lo stesso dopo aver ucciso resta vivo, la coppia lascia dei figli. Pur restando il fatto che, spesso, al culmine di private guerre familiari soccombe una donna e molto meno un uomo, queste stesse vicende sono, nella maggior parte dei casi, circondate dall’ignoranza totale. Familiari e vicini interpellati ripetono come un mantra, forse anche a se stessi: «Erano persone normali». Le parole scritte superficialmente sui quotidiani, che in poche righe pretendono di condensare ragioni familiari, malattie psichiatriche, provenienza sociale dei malcapitati, quando non supportate da storie note di denunce per percosse e ripetute persecuzioni che sembrano rendere più facilmente spiegabile l’atto estremo, resteranno per i protagonisti sopravvissuti e per chi li conosce, incise sulla pietra. Poste sulla testa dei figli della coppia così che oltre al dolore per la perdita di un genitore, o di entrambi, si uccide in chi resta, colpevole di essere sopravvissuto (?), anche la speranza di un futuro più tranquillo. Di questa perdita, direttamente, non parla nessuno, non per farne una anagrafe ma un argomento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla opportunità di moderare il diritto di cronaca per mezzo di un diritto alla privacy e di una maggiore discrezione, se non maggiore umanità. I figli rimasti avranno perso la madre e il padre, nel peggiore dei casi, oppure avranno perso la madre e acquisito un padre ‘mostro’ nel migliore. Quello che era un padre, cattivo e manesco, ubriacone o affetto da patologie psichiatriche diviene anche il ‘mostro’ con cui si sarà coabitato per anni: le stesse mani che hanno allungato una carezza e chiuso un bottone del giacchetto saranno ‘per sempre’ anche quelle che hanno privato la famiglia della madre. Dei sensi di colpa e inadeguatezza di fronte al disperdersi dell’unità familiare, anche se più specificatamente nel contesto del suicidio, ne ha raccontato con grande lucidità e accortezza il mai troppo lodato Massimo Gramellini nel libro memoria Fai bei sogni. Il mostro narciso Belfagor, l’altro se stesso distruttivo, gli mangia un pezzo di vita (infanzia e giovinezza) a causa di un articolo di giornale per mezzo del quale tutti sanno i particolari del suicidio di sua madre, meno che lui, che la crede viva da qualche parte dopo averlo abbandonato. Ciò che la cerchia esterna alla famiglia d’origine apprende per via d’un quotidiano, lo lascia nella totale ignoranza della propria storia, tollerato in comportamenti ai limiti della rabbia o della depressione. Anni dopo, il dolore per la verità si stempererà solo alla vista di quell’articolo: il suo possesso, negato per tanto tempo, sarà catartico e liberatorio. (continua)
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