Primo Vere: la meraviglia di un risveglio
Ver chiamavano i latini, con un termine di origine indoeuropea, la primavera; mentre primo vere significa propriamente «inizio della primavera», la stagione della fioritura, del passaggio dallo spento inverno alla vitalità della rinascita della natura.
Questo periodo si ripete ogni anno, eppure, per chi ha il dono della meraviglia, il rifiorire degli alberi e dei prati, gli intensi profumi inebrianti, il verdeggiar d’erbe novelle, l’infervorato sciamare d’insetti e uccelli in amore, compiono un’inattesa epifania. La capacità di stupirsi di fronte al già visto, di vedere ancora attraverso lo sguardo della prima volta, come fosse il primo giorno della creazione, è l’inizio della conoscenza, come diceva Platone nel Teeteto: «È tipico del filosofo quello che tu provi, essere pieno di meraviglia; il principio della filosofia non è altro che questo…». Ed è da questa meraviglia che scaturiscono l’arte e la poesia, profondi strumenti di conoscenza capaci di penetrare l’essenza dell’ “essere”. E non è casuale che nella Roma arcaica, il primo calendario regio poneva il principio dell’anno all’inizio della primavera, nel mese di marzo, dedicato al dio Marte, padre di Romolo e Remo; e il primo di marzo le vestali accendevano il sacro fuoco nel tempio di Vesta, dea della terra e patrona del focolare domestico, per simboleggiare la nascita del nuovo anno. Anche per i babilonesi l’anno cominciava in primavera, nel mese di nisannu, con la prima falce di luna successiva all’equinozio, che gli astronomi determinavano osservando la levata eliaca della stella più luminosa della costellazione dell’Ariete (evento che tuttora segna l’inizio dell’anno astrologico). Ugualmente gli ebrei pongono il capodanno in prossimità dell’equinozio di primavera, inizialmente nel mese lunare di abib; dopo la cattività babilonese venne mantenuto l’uso di Babilonia di iniziare l’anno con la prima falce di luna di primavera e il primo mese abib venne rinominato nisan. Appare evidente come molti miti e riti connessi ad eventi di morte e rinascita siano legati a questo periodo dell’anno, ad iniziare da quello dell’originario Adone fenicio, non ancora ellenizzato, adorato in tutta l’area mediterranea e che era in realtà un dio babilonese e sirio, Tammuz, al quale i fedeli si rivolgevano chiamandolo Adon, ovvero Signore. Questi era condannato a dimorare sei mesi negli inferi, come il Sole quando si trova al di sotto dell’equatore celeste; dopo i pianti rituali per la sua morte, si festeggiava la sua risalita alla luce, quando si ricongiungeva con la dea Ishtar, analoga, come funzione, all’Afrodite greca. Tammuz diventò in tutto il Medio Oriente il dio della morte e della resurrezione: lo ricorda anche il profeta Ezechiele, scandalizzato perché persino le donne di Gerusalemme si lamentavano per la sua morte, all’ingresso del tempio che guardava a settentrione. Tammuz fu ellenizzato come Adone, il cui mito narrava che Afrodite nascose in una cassa un bimbo bellissimo, Adone appunto, nato da Mirra e lo affidò a Persefone, regina degli inferi, la quale, colpita dalla sua grazia non voleva più renderlo. La disputa fu risolta da Zeus, che decretò che Adone abitasse con Persefone nelle stagioni autunnale e invernale e con Afrodite l’altra metà dell’anno, composta dalle belle stagioni. Nell’equinozio di primavera cadevano per il mitraismo la nascita del mondo e il suo futuro rinnovarsi alla fine del Grande Anno. Il mito narra di come Mitra avesse ucciso un toro per ordine del Sole e di come dal corpo della vittima sacrificale fossero generate tutte le erbe e le piante salutari: dal midollo il grano, che spuntò sulla coda in forma di spiga, dal sangue la vite, e infine dal seme, raccolto e purificato dalla Luna, gli animali utili. E quale simbolo più dell’uovo può rappresentare questo rinnovamento, questa ricreazione cosmica? Un mito orfico greco narrava che in principio la Notte, nelle sembianze di un grande uccello fecondata dal vento, aveva deposto nell’immenso grembo dell’Oscurità un uovo d’argento da cui Eros, un dio dalle ali d’oro, balzò fuori, mostrandone il contenuto: il cosmo intero con tutte le sue creature. A proposito di questo tempo di morte e rinascita scrive Hugo Winckler: «Al tempo dell’equinozio era visibile nel cielo di Babilonia la più notevole figura astrale del cielo meridionale, la Croce del Sud. […] Perciò la Croce è segno dell’adempimento […] L’ultimo segno grafico della scrittura alfabetica è una croce e ha come nome adempimento […] Perciò il mito del dio dell’anno si conclude al termine della sua orbita con “il dio appeso alla croce”». Sia l’anno romano arcaico che quelli babilonese ed ebraico sono costituiti da mesi lunari, corrispondenti a cicli lunari completi che si compiono in circa 29 giorni. Per gli antichi non era certo un mistero l’influenza che la Luna esercita sulla natura ed è evidente che essi ritenessero la prima luna di primavera l’artefice del risveglio del creato dopo il lungo letargo invernale. I romani veneravano la luna anche col nome di Anna Perenna (perenne andare) che festeggiavano alle Idi di marzo, cioè il giorno del primo plenilunio di primavera, in un boschetto al primo miglio della via Flaminia, nei pressi dell’attuale ponte Milvio. Ed è proprio alla prima luna piena di primavera, come spiega l’Antico Testamento, che era connessa la festa ebraica del Pesāh celebrata la sera del 14 di nisan, ovvero il giorno del plenilunio del primo mese lunare dopo l’equinozio primaverile. Pesāh, termine passato nella lingua latina col nome aramaico e greco Pascha (da cui Pasqua), significa letteralmente “saltar oltre”. Questo rito risale a un’arcaica celebrazione familiare con la quale i pastori solennizzavano il rinnovamento del cosmo a primavera, come in tutte le religioni semitiche, durante la notte di plenilunio precedente la partenza per i pascoli estivi. Al chiaro di luna s’immolavano i primi nati del gregge, il cui sangue veniva sparso su capanne e animali per proteggere le famiglie e le greggi da calamità, e assicurarne la fecondità; poi si consumava la carne in un pasto rituale. La festa fu poi storicizzata in memoria della fuga del popolo ebraico dall’Egitto quale evento che aveva segnato l’inizio del viaggio verso la terra promessa. Secondo la narrazione evangelica passione, morte e resurrezione di Cristo sono avvenute in concomitanza della Pesah. Stando ai sinottici, l’ultima cena fu il pasto rituale pasquale di Gesù e dei suoi discepoli secondo i dettami della legge mosaica. La cattura avvenne quella notte stessa, il processo e la morte il giorno dopo, quello stesso della Pesah; il terzo giorno, che coincise con quello successivo allo shabbath (poi indicato come dies dominica) avvenne la resurrezione. Va detto che gli ebrei considerano inattendibile la versione dei sinottici, poiché ritengono impossibile che si sia potuto celebrare il processo a Gesù il giorno della Pesah. Senza entrare nelle controversie che animarono a lungo le comunità cristiane sulla data da adottare per la celebrazione della Pasqua, intesa come commemorazione della resurrezione di Cristo, fu infine stabilito l’obbligo di celebrarla di domenica, attenendosi anche al duplice vincolo dell’equinozio e del plenilunio: la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera, quasi a voler adombrare un’altra resurrezione, quella della natura che, per quanto possa apparire “modesta” ha saputo stupire e far sognare l’umanità per millenni.
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Alfredo Cattabiani, Lunario, Mondadori, Milano 1994
Alfredo Cattabiani, Calendario, Mondadori, Milano 2003
Piero Tempesti, Il calendario e l’orologio, Gremese Editore, Roma 2006
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