Preoccuparci dell’ambiente, nostro e degli altri
Una delle immagini più penose degli ultimi tempi, osservando la vita negli altri regni che dovremmo ricordarci essere abitanti della terra tanto quanto noi, è stata quella della strenua lotta che un granchio non più grande del palmo di una mano aveva ingaggiato con un’azzurra spaventosa, perché impigliatosi il laccio elastico in una chela se la trascinava dietro come una formidabile orrorifica esuvia di chissà che, mascherina di quelle comunissime, celesti e bianche che s’indossano di questi tempi. La mascherina era finita, ovviamente, in mare e il povero decapode l’aveva scambiata, forse, per un vorace polpo, suo predatore naturale o per una medusa. Un polpo, invece, ne usava un’altra come cappello un po’ largo per starsene ben nascosto sul fondo del mare. Le immagini provenivano da un servizio televisivo di ‘informazione’. Quel tipo di informazione confezionata in maniera ‘rotonda’ (contrario di spigolosa, ficcante) che prima suggerisce preoccupazioni riguardo disastri che, per l’entità, si capisce quanto siano irrimediabili, poi una volta suggerito il problema, tenendo conto, forse, che i poveri umani sono già colpiti dalle tasse, dalla pandemia, dalla disoccupazione, dai disastri climatici, pare fornire una scappatoia ‘estetica’ così da chiudere il ragionamento attorno all’allarme dato in principio, anche prima che il ragionamento inizi. Nello specifico, qui, milioni di mascherine sono state riversate nell’ambiente senza nessuna remora come si trattasse di erba tagliata o, forse, carta, mentre in quelle più comuni che indossiamo la plastica la fa da padrona così che la loro frammentazione, in acqua, nell’aria, comporta la messa in circolo di miliardi di particelle di microplastiche e altro che rientreranno in molti cicli e catene alimentari; ecco perché dovrebbe preoccuparci dove finiscono le mascherine gettate, sia a livello individuale che di chi le sversa nell’ambiente per non pagare tasse di smaltimento per rifiuti speciali. Così il servizio proseguiva mostrando come in Inghilterra (chissà perché molte cose ‘magiche’ accadono sempre lontano dalla possibilità di verifica), una start up stava già riciclando le plastiche contenute in quelle mascherine azzurre e bianche: dalla loro ‘cottura’, infatti, si recupera un materiale opaco di color blu, piuttosto resistente, che sarebbe impiegato per fare sedie, tavoli e telai di biciclette. La lontana possibilità del recupero dei materiali non dovrebbe consentirci, comunque, né di sprecare le mascherine gettandole in ogni dove, dimenticandole dove capita, cambiandone decine al giorno, né di pensare che tutto questo ‘usa e getta’ resosi ‘indispensabile’ con la pandemia non ha un costo altissimo per l’ambiente e quindi, di conseguenza, per noialtri viste le modalità con cui lo stesso, da qualche tempo a questa parte, ci compensa degli affronti subiti (nel novero dei materiali usa e getta, oltre le maschere: guanti, flaconi vuoti di disinfettante, siringhe, bicchieri, cucchiai, contenitori per ogni tipo di cibo da asporto etc….). Questo nel caso non ci facesse nessuna impressiona quel piccolo granchio che lotta contro una schifosa mascherina inanimata con la dignità d’un antico guerriero.
Le mascherine andrebbero smaltite correttamente dopo averne fatto un giusto uso (sono comunque ricettori di microbi e particelle biologiche); l’elastico che aiuta a mantenerle sul viso andrebbe tagliato nel mezzo perché nel malaugurato caso di dispersione nell’ambiente il laccio non diventi la trappola per qualche malcapitato animale o copertura indesiderata per piante e fiori. Nel ricordarci che il pianeta che abitiamo di passaggio non è nostro ma, per usare una parola cara al linguaggio tecnologico, in condivisione. (Serena Grizi)
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