Polifonia per John Fante – 2
Quell’urgenza meravigliosa . «Rimasi lì a tirarmi i capelli e a riflettere. Finiscila, papà, sei sbronzo, non fai che commiserarti e invece dovresti smetterla, non hai alcun diritto di piangere, sei mio padre e il diritto di piangere appartiene a mia moglie e ai miei figli, a mia madre, e dunque è osceno che tu pianga, ed è una cosa che mi umilia, finirò per morire per la tua pena, non posso reggere questo tuo dolore, questa pena mi dovrebbe essere risparmiata, ne ho abbastanza delle mie. E altre ancora ne avrò, ma non piangerò mai di fronte ad altri, sarò forte e affronterò i miei ultimi giorni senza lacrime, vecchio. Ho bisogno della tua vita, non della tua morte; della tua gioia, non della tua mestizia. E allora piansi anch’io, in piedi, davanti a lui. Presi il suo capo ciondoloni fra le mie braccia (come avevo visto fare a mia madre), gli asciugai le lacrime con un lembo di lenzuolo, lo cullai come un bimbo e presto non pianse più, così lo adagiai dolcemente sul cuscino e dormì tranquillo». Le poeticità di Fante attinge da un cuore brado e allo stesso tempo sensibilissimo. L’ “urgenza meravigliosa” per Fante è quella di scrivere e forse la sua “urgenza meravigliosa” la possiamo avvicinare attingendo alle parole del figlio Dan, anche lui scrittore. C’è un passo commovente, vitale e rivelatore in cui Dan narra la creazione dell’ultima opera di suo padre, Sogni di Bunker Hill, che John Fante dettò alla moglie tre anni prima della morte, periodo in cui, a causa di complicanze dovute ad un diabete forse poco curato, era divenuto cieco e aveva subito l’amputazione delle gambe. «Per quelli di noi che erano già lì, ad aspettare, c’era poco da stare allegri. Presto saremmo usciti in fila indiana dalla porta principale, avremmo attraversato la strada che ci separava dalle alte scogliere di Malibu affacciata sull’Oceano Pacifico, e avremmo affidato le sue ceneri al vento. Tutti si erano arresi, tranne John Fante. Per conto proprio questo artista testardo e rabbioso, che affondava le radici nelle dure e fredde montagne degli Abruzzi, era giunto a una decisione: non sarebbe morto. Non ancora. Avrebbe invece scritto un altro romanzo. Adesso in quel che segue vi sembrerà di sentire l’eco di una scadente sceneggiatura holliwooddiana, ad esempio un film strappalacrime sulla seconda guerra mondiale con Spencer Tracy e Lana Turner. Perfino il mio vecchio avrebbe rifiutato di riscrivere queste pagine, o quantomeno avrebbe chiesto più soldi a Jack Warner. Eppure è così, ogni mattina dell’anno successivo John Fante si alzava e, con l’aiuto di mia madre, si sbarbava e si vestiva. (…). Una volta sistematosi a dovere, cominciava ad accadere una cosa inspiegabile. Una trasformazione. Era come se mio padre avesse ingerito una pozione per artisti invece di cinque tazze di espresso nero accompagnate da mezzo pacchetto di sigarette. Forse era a causa del suo ostinato coraggio, o di una visitazione della Vergine Maria quand’era bambino, ma in quei giorni John Fante era posseduto da qualcosa di magico. Era se stesso. Uno scrittore di libri. Il risultato era abbagliante». Ci sono stravolgenti poesie di Bukowski dedicate a Fante, inedite in Italia. La casa Editrice Fazi, tra le prime a diffondere le opere di Fante in Italia, ne ha tradotte due tratte da Betting on the Muse. Poems & Stories (1996). Riporto parte di Epilogo:
Fante che se n’è andato a Hollywood,
Fante su un campo di golf,
Fante al tavolo da gioco,
Fante in una casa a Malibu,
Fante amico di William
Saroyan.
Ma Fante il ricordo più bello
che ho di te
era negli anni ‘30
quando vivevi in quell’albergo vicino
all’Angel’s Flight
e lottavi per essere uno scrittore,
inviando racconti e lettere
a Mencken.
a quei tempi
ti veniva fuori
l’urlo dallo stomaco.
e io lo sentivo.
lo sento ancora adesso.
John Fante non riuscì in vita a vedere la pubblicazione di opere come 1933. Un anno terribile e La strada per Los Angeles. I suoi libri sono rimasti introvabili per anni. Negli anni ottanta si è iniziato a ristamparli in America grazie alle pressioni fatte da Bukowski al suo editore, negli anni novanta c’è stata una riscoperta di Fante in Italia. Nel corso della sua vita, a parte brevi momenti di successo, non ebbe mai un vero e proprio riconoscimento artistico. Dopotutto forse la sua modernità aveva bisogno di un tempo d’attesa prima di venire scoperta. La sensazione di un incompleto riconoscimento vissuto da questo artista genera in me un dispiacere e il desiderio di realizzare un doveroso omaggio. A 101 anni esatti dalla sua nascita voglio ricordarne la grandezza artistica con un consiglio di lettura, e mi piace farlo attraverso le parole finali della puntata del programma televisivo anni novanta Magazzini Einstein dedicata a Fante. Nella puntata Sandro Veronesi, scrittore, e Vinicio Capossela, musicista, si recano a Torricella Peligna per ricordare John Fante e visitare il piccolo paese arroccato, luogo natio del padre dello scrittore. Nel paesino i due incontrano un anziano signore e sua moglie. L’uomo è il cugino di John, ovvero è figlio del fratello del padre di John. Il vecchietto dice, con candore e abitudine, poche parole, sempre le stesse: il padre di John era cattivo e non andava molto d’accordo con il proprio fratello, che a un certo punto dall’America tornò in Italia e qui rimase. I due visitatori, ammiratori di Fante e conoscitori della sua opera, terminano il viaggio con poche parole anch’essi, le quali confermo pienamente: «Poniamo che vi capiti di leggere un romanzo di John Fante. Uno qualsiasi, il primo che trovate. Dopo averlo letto, dovrete per forza leggere anche tutti gli altri. È così che funziona». (Fine)
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