Polifonia per John Fante – 1
Quell’urgenza meravigliosa. «Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l’esame. Signore, dissi, perchè in quei giorni ero un credente che parlava con franchezza al suo Dio: Signore che sta succedendo? È questo quello che vuoi? È per questo che mi hai messo sulla terra?»
Nel libro 1933. Un anno terribile (1985) di John Fante il protagonista è il diciassettenne Dominic Molise. Residente a Sant’Elmo, in Colorado, figlio di madre italoamericana lavoratrice di casa e di padre abruzzese muratore con intenzione di avviare il figlio al mestiere, mentre il sogno del ragazzo è di divenire battitore di baseball. Vive in casa con i fratelli e l’anziana terribile nonna italiana, spietata soprattutto verso chi fa uso dell’elettricità e verso il futuro irrispettoso dei figli d’America. Il racconto è incentrato nel periodo adolescenziale che precede il conseguimento della maturità; il titolo inizialmente creato da Fante era “The Left-Handed Virgin, ovvero “il mancino vergine”. Mancino perchè la bravura di battitore di Dominic risiede nella mano sinistra. La verginità è intesa come modalità di percepire gli eventi e gli altri. Rappresenta quella condizione per cui le emozioni sono tutto o nulla e travolgono, da quelle verso la ragazza per cui il giovane Molise stravede a quelle verso i familiari, di ognuno dei quali il ragazzo sembra capire il punto di vista e il vissuto. Dominic, nonostante le sue discordie con i familiari e amici, conserva sempre un pensiero in cui poter comprendere gli altri.
«Ero steso in quella notte bianca e guardavo il mio respiro che formava piume di vapore. Sognatori, eravamo una casa piena di sognatori. La nonna sognava la sua casa nel lontano Abruzzo. Mio padre sognava di essere senza più debiti e di fare il muratore a fianco di suo figlio. Mia madre sognava la sua ricompensa celeste con un marito allegro che non scappava via. Mia sorella Clara sognava di fare la suora, e il mio fratellino Frederick non vedeva l’ora di crescere per diventare un cow boy. Se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa, poi mi addormentai.»
Il 1933 si rivelerà un anno terribile perchè Dominic si renderà conto che i suoi sogni sono lontani, un divario incolmabile composto da soldi, status sociale, provenienza etnica, immaturità, abitudini, tradimenti lo separa da essi, e il cammino da attraversare per giungervi, se vi si riesce, è fatto d’abisso, precarietà e delusioni ricevute dagli altri, ma anche date. E lungo questo cammino il rischio più grande è quello di perdere la speranza, indispensabile per divenire se stessi. L’umorismo e la poeticità del racconto lo rendono in grado di rappresentare un insieme di aspetti delicati e difficili.
John Fante nasce a Boulder l’8 aprile del 1909, 101 anni fa, figlio di Nick Fante, giunto in America da Torricella Peligna, in Abruzzo, e Maria Capoluongo, italoamericana nata a Chicago. È stato definito da Bukowski, che ne aveva piena ammirazione e lo prese come punto fondamentale di riferimento letterario, come “lo scrittore più maledetto d’America”. Questa definzione di Bukowski fa pensare alla speciale tipologia di maledizione dello scrittore John Fante: non è quella degli outsider, ovvero quella di chi, in fin dei conti, non vuole partecipare davvero al sistema dominante e alle sue regole. Quella di Fante sembra più la maledizione dell’uomo comune, in continua oscillazione tra la propria ingloriosa normalità e la propria vitale unicità. Colui o colei che desidera essere se stesso, elaborando creazioni personali per le quali essere riconosciuto da quel mondo da cui si sente in parte diverso ma con il quale sa di condividere un forte legame composto da paure, codardie, vigliaccherie, disprezzo, coraggio e onnipotenze. Questa è la maledizione di cui Fante canta con ingenuo cinismo e ironia, costruendo ballate autentiche, dall’enorme potere identificativo.
Come scrittore John Fante ha vissuto un periodo di successo negli anni quaranta; nella vita per poter guadagnare, data la scarsa rendita ricavata delle sue opere, si è cimentato nel lavoro di sceneggiatore hollywooddiano. La California è stata la sua terra adottiva, sia in quanto residenza reale e lavorativa, sia in quanto, spesso, spazio di vita di molti suoi personaggi. La sua opera più nota ambientata a Los Angeles è Chiedi alla polvere (1939), appartenente ad un insieme di opere che ruotano intorno al medesimo personaggio, Arturo Bandini, un aspirante scrittore. Del ciclo Bandini, alter ego di Fante, fanno parte anche i romanzi Aspetta primavera, Bandini (1937), La strada per Los Angeles (1985) e Sogni di Bunker Hill (1982). Meno conosciute, ma a me più care, sono le opere i cui personaggi hanno per cognome Molise, i quali fanno pensare ad unica persona in epoche diverse della vita. 1933. Un anno terribile narra l’epoca della piena adolescenza di Dominic Molise. La confraternita dell’uva (1977) e il racconto Il mio cane Stupido contenuto in A ovest di Roma (1986) narrano importanti momenti dell’età adulta dello scrittore Henry Molise. Sebbene i nomi a volte siano diversi, le storie e il carattere dei personaggi-Molise sembrano raccordarsi per costituire un altro alter ego di Fante oltre quello di Arturo Bandini, la cui saga invece può inserirsi proprio tra l’adolescenza e la giovinezza, comprendendo il periodo di vita nel quale Arturo Bandini cerca di affermarsi come scrittore. Così l’opera di Fante, di ispirazione autobiografica, pare ricoprire un completo arco di vita.
Nella raccolta di racconti Dago red (1940) – il cui titolo inizialmente era Il vino della giovinezza – protagonista è la famiglia Toscana; “dago” è il termine con cui ci si riferiva agli italiani guappi e “dago red” era il loro vino rosso rubino. Fante nei suoi libri descrive spesso il peso dell’essere parte di una famiglia italoamericana. Eppure gran parte delle sue opere sono incentrate proprio nella descrizione di cosa significasse vivere in una famiglia italoamericana, partecipare alla piccola comunità di immigrati e al contempo alla società americana di stampo protestante.
Anche il rapporto con suo padre è una delle tematiche principali, a volte legata a quella del dolore che l’immigrazione forzata può portare con sè. Henry Molise, ne La confraternita dell’uva finisce per accompagnare l’anziano padre ubriacone in una sfida efferata, data l’età, per la salute del suo vecchio: costruire dal nulla e con le proprie mani un affumicatoio per carne di cervo, in una piccola pensione tra le montagne. Nel corso del viaggio e del lavoro insieme emergeranno tutti gli aspetti peggiori di suo padre. Ma in quella vicinanza strana, non cercata, quasi detestata da Henry, quegli stessi aspetti assumeranno in parte un significato diverso. Henry sentirà il dolore di suo padre, la sofferenza di chi è stato costretto a distaccarsi dalla sua terra natia e dalla sua cultura, per non ritrovarla mai più, perdendo con essa parte delle sue forze e delle sue speranze, e portando con sè un forte bisogno di essere riconosciuto e amato, ma anche la sventurata libertà del permettersi di non curarsi degli altri. Così quando il padre di Henry dopo l’arrivo alla pensione dell’italoamericano Ramponi e una giocata a poker è di nuovo ubriaco, si stende sul letto esausto addormentadosi subito, Henry lo stente chiamare sua madre, poi si accorge che sta piangendo. La madre l’aveva lasciata in Italia, ed era morta più di sessanta anni prima, dopo il suo arrivo in America. (Continua)
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