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“Poetiche sinapsi”, di Antonietta Benagiano

Gennaio 18
13:33 2010

Incipit solenne, che nel noumeno dell’immortalità mortale ritrova “l’eletto verbo” e tra miti, classicismi e persino riferimenti biblici ci conduce nella lettura del libro. Talvolta s’incorre anche in misurati retaggi d’avanguardia, al verso interrotto che scandisce tratti dialogici, perlopiù riportati in corsivo; forse il modo migliore per focalizzare adeguatamente il razzismo (“sporco bianco/sporco negro/sporco giallo”) e lo spirito che lo corrobora, “l’altrui quiddità” che “non ama”. Si fotografa una sempre grigia borghesia accalcata nel cerimoniale (“non sono/ferrati non bavano veleni ma/negli occhi ridono nemiche lame”), rivisitata attraverso un maschile che si personifica in “cadaveri incravattati” tra un femmineo solforoso. E’ un “tricolore consunto” quello che fuoriesce dai suoi versi, ma nondimeno ancora consapevole e tributante al sangue risorgimentale versato, “bella Italia disamata/utopia risorgimentale”. Altrove si associano “bandiere e sillogismi”, fumi “d’odio” “oltre le dune”, possibili riferimenti alle sanguinose esperienze totalitariste del Novecento, ma quello di Antonietta Benagiano è soprattutto un incessante scavare il presente ed i suoi simbolici presagi, un mondo dove il Verbo è morto e “all’asta artifici raccozza il venditore di finto oro”. “A firmamento spento canterà l’androide perfetto” è quanto l’autrice intravede in un imminente futuro d’incomunicabilità, quale criogenia approntata a liberazione. Tuttavia, proprio nell’ “imperfezione nostra”, sussiste la costante di una “gran falce” preposta come “avvio alla Conoscenza”, Ercolano ne ripercorre il mito e svela Thanatos nel “nulla più reale”. “Ancor vuol esser la materia/enigma lo spirito lontananza dal Vero/che del minimo l’abisso dal massimo disvela” ne diviene l’esegesi poetica. Nel vivere, fortunatamente, resta comunque un “narghilé all’occaso”, che “dello scoglio spigoli arrotonda” per un senso d’inadeguatezza verso una “camaleontica/normalità anormale che t’esclude”. Pasanisi, curatore della prefazione, cita Pasolini e quel “nuovo fascismo”, insidia mediatica, omologazione culturale nel livellamento consumistico, trasversale e lontano da un autentico spirito liberale, ma soprattutto capace di penetrare laddove neppure lo stesso fascismo riuscì nei suoi più espliciti intenti totalitari: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi”. Fascismo che comunque, al contrario del “nuovo”, con Salò e le 120 giornate di Sodoma si presenta in tutta la sua esplicita violenza in un’identità culturale negatagli col dopoguerra e che Pasolini, nel pieno degli anni Settanta, non omette di esternare. Un fascismo che, alla base, vede il “travisamento” della modernità, dove il cantore omerico non ha più platea, né tra gli uomini né sull’Olimpo. Invece il “Nuovo fascismo” non risparmia neppure la poesia senza implicazioni di ermetismi, strumentalizza tanto la folla quanto i margini della follia, ne fa spettacolo e mercato incurante di letture e confronti. “Abbiamo ammelmato la farfalla”, come meglio precisa in versi l’autrice. Persino la lira di Orfeo sembrerebbe assoggettarsi a fredde timbriche forgianti “metalliche sinapsi” assetate più dell’altrui disgrazie che di cultura nell’ansia di un sentimentalismo preconfezionato, dove “anche Orfeo anfana”, poiché “più non dirozza d’Orfeo la baldracca cetra”.

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