Poesia di Città di Natale Sciara
“Città dei miei desideri, sei apparsa / piena di fascino ai miei occhi / di giovane pieno di sogni e speranza; / in te ho costruito la mia esistenza / scoprendoti a poco a poco, / ma tanto di te ho ancora da conoscere. / Il tuo cuore, la tua anima / che si è andata formando / attraverso il tempo ha nutrito / il mio essere” (“A Roma”). Seguo Natale Sciara si può dire da sempre e credo di conoscere ogni intonazione della sua voce sommessa che sorge dal senso della precarietà e spinge verso una visione comunitaria e solidale, positiva, della vita. Occorre distinguere nettamente questa poesia civica dalla cosiddetta poesia civile, di impegno ideologico e denuncia sociale, poesia di passione politica, urlante e dogmatica, assolutamente priva di problematicità.
Sciara non è un drago sputafuoco e la sua poetica intrisa di relativismo è ispirata ad un senso pacifico del vivere insieme, a quell’autentico spirito di solidarietà che spinge al rifiuto di ogni atto estremistico, di ogni negazione di convivenza e di civiltà. “Scusateci se il nostro modo / di pensare vi sembra un po’ arretrato”, scrive in “La nostra Italia”, disgustato, si, ma senza perdere signorilità, da uno scellerato atto malavitoso salito alla ribalta delle cronache. Ed ecco cosa scrive in “Avvenimento”, ricordando uno storico incontro di capi religiosi ad Assisi: “pace, ancora e sempre pace, / di questo abbiamo bisogno e vogliamo / per vivere e costruire un avvenire / migliore”.
Di paternità sicula e maternità marchigiana, l’autore vive da decenni a Ciampino, ai margini della Capitale, a ridosso, da un lato, della piovra metropolitana e dall’altro dei verdeggianti Castelli Romani, sospeso tra il fascino degli antichi borghi e l’arida, moderna cementificazione urbana: “Sparse in qua e in là le luci / sulla massa oscura dei Colli Albani / e raggruppate quelle dei paesi / che brillano nella fredda sera / a fare da sfondo allo scenario / di questa zona ai piedi dei Castelli” (“Tra i Colli Albani e Roma”). Ed è in virtù di tale collocazione che si trova da sempre conteso fra tradizione e modernità, fra i fasti di forti e sedimentate radici storiche, alimentate d’altro canto dalle sue stesse origini siculo-marchigiane, e l’anonimato disarmante delle odierne periferie romane.
Struggente il ricordo dell’infanzia lontana: “Io ti osservavo nella sicurezza / dei tuoi gesti; quante cose mi hai / trasmesso in quelle ore serene! / Poterti vedere ora e raccontarti / della mia vita trascorsa, di tutto ciò / che ho vissuto e visto, ritrovando / quei momenti di comunione e complicità” (“Ricordando nonno Raffaele”). Poi Jesi: “Hanno distrutto un mondo dove / ho trascorso la mia adolescenza / e prima giovinezza. / Ora so quanto l’amavo e mi lacrima / il cuore a vedere quella devastazione / e quello scempio. / Di quelle bianche stradine che percorrevo / in solitudine con la bicicletta / ne sono rimasti piccoli indimenticabili / tratti. / Larghi viali asfaltati ed interi / quartieri hanno invaso la campagna; / tanta gente sconosciuta è venuta / ad abitare da queste parti” (“Cambiamento”).
Ed ecco Ciampino, il nuovo habitat, il nuovo paesaggio urbano: “Sfilano ininterrottamente automobili / sul nastro asfaltato, conquista / e simbolo della nostra civiltà / tecnologica; piccole, comode / abitazioni mobili che sanno / offrire sicurezza e protezione. / Le città sono invase da queste / scatolette di latta, e lungo le strade / periferiche cumuli di cose / in disuso si offrono al nostro / sguardo. / Come siamo cambiati in breve tempo! / La civiltà contadina è ormai / un ricordo? / Dove andremo?”. Jesi da un lato, Ciampino dall’altro: due aspetti di uno stesso racconto. L’inurbamento delle plebi rurali, con le conseguenti crisi di identità che sappiamo a tutti i livelli, sia individuali che collettivi. Ed è qui che trova asilo la pagina poetica di Natale Sciara, inquieta e problematica sui destini del Postmoderno e del mondo tecnologico.
Un esistenzialismo sui generis, paradossalmente limpido e tutto giocato en plein air: “Cammino sulla verde distesa di dune / ammirando la spiaggia e il mare, / qui dove sembra essersi creata una barriera. E’ il vento che ha / ammucchiato la sabbia che caratterizza / abbellendolo il paesaggio, fra cespuglietti di varie / specie di erbe e colorati fiori / senza nome” (“Dune”). Annotazioni rapide e svelte pennellate, guizzi impressionisti, coloristicamente efficaci, in un eloquio lapidario ed icastico, ai bordi dell’aforisma, teso a evidenziare interrogativamente le contraddizioni della contemporaneità. Poesia semplice, addirittura ingenua all’apparenza, ma poesia di smarrimenti esistenziali, immersa negli orizzonti della società di massa dell’odierno villaggio globale: “Benessere, ricchezza, sono la legge / del nostro tempo; / non ci si può sottrarre / se non vivendo in una propria dimensione”.
Grandi interrogativi: “Che ne sarà del tuo domani uomo? / Muta la vita rapidamente sotto / la spinta dell’industrializzazione / e della tecnologia, dei moderni / mezzi di trasporto e di comunicazione / che demoliscono confini, costumi / e tradizioni. / Razze e lingue vanno perdendo / i loro caratteri e connotati / abbattendo vecchie barriere di / incomprensione. / L’uomo sradicato è ormai cittadino / del mondo. / Le città, la metropoli, la grande aggregazione urbana diviene / meta di moltitudini. / Potrà esserci un vivere migliore / sulla Terra? / Come sarà il nostro domani?” (“Dove vai uomo?”). Poesia labirintica, disseminata di incertezze, con una sola, indiscutibile certezza: quella del mistero che aleggia dentro e fuori di noi, tessere di un immenso mosaico del quale sfugge la vista complessiva.
L’uomo è un frammento trascinato nel mare tempestoso, parentesi nel nulla, bolla evanescente, nicchia di poetica perplessità ritagliata nel chiasso babelico delle agonizzanti bolge metropolitane. Eppure, in questa sua fragilità, ha la possibilità di interrogarsi – lui, piccola tessera di un immenso mosaico – sulla grandiosità del tutto e sul suo ruolo nella vita universale: “Mi lascio andare al flusso del destino / senza certezza alcuna d’un fine / positivo, e sia ciò che deve essere. / Operare è ciò che conta, e la vita / ci spinge in qualche direzione”. Grande saggezza. E in “Voglia di vivere” aggiunge: “I giorni da vivere si assottigliano / ed il corpo non è più quello di un tempo, / ma
tanta è la voglia di vivere / nuove esperienze, situazioni, / e conoscere ambienti e persone. / Ho bisogno di ostacoli da superare”.
I limiti esistono, dunque, non per soffocare, ma per essere superati, per spingere oltre, in avanti, verso l’ignoto, verso l’infinito. Meglio di così non può essere descritto il sano rapporto tra limitato e illimitato, tra universale e particolare fusi in un solo respiro. E sta qui la peculiarità di questa poesia immersa nel relativismo e nell’esistenzialismo dei tempi attuali, senza smarrire la tensione verso l’assoluto. “Essere comparsi sulla scena / della vita è un mistero / e pare non possa essere stato / inutile nel destino di ogni apparire”. Una condizione di crisi perenne, ma vivace e feconda, ancorata allo scoglio dell’armonia dei contrari, in un dire semplice, essenziale, concreto e scarno, cronachistico addirittura.
Franco Campegiani
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