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Pochi mesi alla morte

Agosto 05
23:00 2007

Pochi mesi. Questo il mio sangue ha lasciato scritto nelle carte del medico. Pochi mesi al mio corpo per preparare i bagagli, pochi mesi a me per celebrare la vita.
Il mio corpo ogni sera affanna, e giunge alla notte sempre più pallido.
Lo stomaco alle volte reclama il terreno in uno svenimento che cela gli occhi all’improvviso, e la bussola perde aderenza con la stanza attorno a me.
In gabbia. Il corpo è fragile e il freddo della strada è troppo forte perché io possa uscire di casa.
Comprendo quanto una finestra si affacci al mondo. Ed odio il mio corpo per essere così debole, ma poi ritiro l’offesa perché m’accorgo che in diciannove anni di note e sinfonie me ne ha fatte arrivare.  E poi torno ad odiarlo nel vedere quante carte e pagine ho scritto, reinventando, evocando la vita, seduto con la matita in mano.
Poi lo venero quando, seppur ormai lentamente, passeggiando per casa vedo appesi alle pareti i miei colori schizzati sul bianco.
E lo odio per tutto quello che avrei potuto se fosse stato più resistente, più forte, più alto.
Ma poi torno ad abbracciarlo, il mio corpo, per tutte le ragazze con le quali mi ha permesso l’incontro.
Dalla finestra, dalla televisione, dalle telefonate, m’accorgo di quanto tempo ho per gridare queste pagine prima di dover tacere per eccessiva stanchezza.
Perché non vedo gaiezza né densa pienezza nelle vite che osservo. Perché fate volare 24 ore come se fossero due, e alle volte vi impegnate per trovare occupazioni che durino il più possibile anche se in realtà d’esse non ve ne frega più di tanto.
Perché sprecate parole laddove necessitate di silenzio e ponete silenzio imbarazzante laddove dovreste porre parole vive.
Perché vedo scegliere strade, con la convinzione che siano le giuste, quando sono le uniche che vi siete concessi, e le uniche sopravvissute alle vostre accette di complimenti e pigrizia. Perché vedo persone attendere d’abbandonare finalmente il lavoro odiato da sempre, quando bastava dargli il giusto peso, definirlo un lavoro, da compiere con la stessa intensità e presenza d’ogni altro gesto, parte d’una totalità che è la vita.
Perché vedo case enormi abbondanti di stanze tanto da non essere curate. E gli stessi ambienti curati alle volte divengono preoccupazioni per il giudizio o l’arrivo d’un ospite, perdendo il senso di luogo di vita e assumendo quello di vetrina.
Una signora in strada sgrida il bambino, presumo il figlio, con schiaffi, muscoli tesi e vene del collo ingrossate, illusa che così facendo lui capisca; signora, d’ora in poi non lo farà più per puro timore di sberle, o si dichiarerà a lei ribelle! Ma non ha compreso ancora il motivo del richiamo!
Ho assistito alla tv al parto d’una donna nelle foreste indonesiane. Corpo che dà corpo, respiro dà respiro, attraverso un filo tagliato termina il nutrimento diretto, per permettere la vita dell’uno, mentre sorge l’accostamento d’umani.
E ricordo quanti invece li abbandonano, quanti sono nati infastidendo, quanti sono odiati.
E quanti genitori vogliono invece possedere la loro vita, elevandosi al grado di genitori e avendo in realtà negato il vivere libero. Quanti hanno preteso di vedere nei figli la realizzazione delle loro aspettative mancate.
Quanto siano pochi in realtà coloro che hanno saputo partorire senza esigere diritti in cambio.

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