Pietro Grasso: “La storia di Falcone non è finita”
Pietro Grasso, la memoria e l’accendino dell’amico Giovanni: “La storia di Falcone non è finita”
Pietro Grasso, un accendino e gli occhi lucidi di fronte alla storia che fu. Si può sintetizzare, un po’ sommariamente, in questa maniera la presentazione del libro “Il mio amico Giovanni” (edito da Feltrinelli e scritto insieme ad Alessio Pasquini) andata in scena a Genzano nell’ambito della rassegna “Il Parco dei Libri”, organizzata da Mondadori Bookstore Velletri-Lariano-Genzano-Frascati-Cisterna e Fondazione De Cultura in collaborazione con Sistema Castelli Romani e Comune di Genzano. Proprio gli amministratori genzanesi, con il Sindaco Carlo Zoccolotti e l’Assessora alla Cultura e alla Scuola Giulia Briziarelli, sono intervenuti per un saluto iniziale assieme al libraio Guido Ciarla.
Nel dialogo con Roberto Palladino, l’ex presidente del Senato ed ex magistrato ha ripercorso una storia vissuta in prima persona ma appartenente, in fondo, a tutti noi. Come dimenticare, a trent’anni dalle stragi che segnarono la fine ingiusta e anticipata di un’epoca? Il metodo Falcone – come sottolineato anche dallo stesso Roberto Saviano, curatore della prefazione del libro – ha fatto scuola e soprattutto ha fatto paura. Non c’era più, con il lavoro del pool antimafia, una dispersione delle testimonianze e delle ragnatele malavitose che imbrattavano l’Italia: grazie al giudice Giovanni e al giudice Paolo, e a tutto il loro entourage, era iniziata una lotta strenua e sistematica alla criminalità organizzata, sempre seguendo la scia e l’odore dei soldi.
Pietro Grasso, che dal 2005 al 2013 ha ricoperto il ruolo di procuratore nazionale antimafia, ha però anche nel suo bagaglio umano ed emotivo una serie di ricordi struggenti. Su tutti, quello dell’accendino: Giovanni Falcone, infatti, donò a Grasso un accendino poiché aveva deciso di smettere di fumare. Era però un dono con l’opzione per il riscatto: “Se dovessi ricominciare, me lo dovrai restituire.”, gli disse. Purtroppo, però, non ebbe il tempo di farlo: il 23 maggio 1992 si avvicinava a rapide falcate, la vita gli sarebbe stata strappata.
Ecco l’intervista rilasciata dallo scrittore e magistrato per approfondire alcuni aspetti del libro.
Un libro dopo trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio: un progetto editoriale diverso dalla commemorazione, tuttavia: c’è molto di Pietro Grasso in queste pagine…
Dopo trent’anni dalle stragi ho sentito il dovere e l’urgenza di mettere sul tappeto quelli che erano anche i miei ricordi personali. Li ho tenuti sempre nascosti, in maniera intima, e non volevo quasi mostrarli. Però penso che dopo tanti anni i ragazzi, cui il libro è rivolto, debbano conoscere anche il lato umano di queste persone: il sorriso di Paolo Borsellino, la luce negli occhi di Giovanni Falcone, quindi ho pensato che non poteva passare questo anniversario senza lasciare una traccia di memoria.
Utilizza un termine preciso: il mio “amico”. Che effetto fa, oggi, poter dire di essere stato amico di Giovanni Falcone?
In realtà molti lo hanno contrastato in vita e appena morto si sono dichiarati suoi amici. Io posso dire di essergli stato molto vicino e soprattutto lui ha influenzato – in senso positivo – e condizionato tante mie scelte nella vita. Se io sono diventato quello che sono è perché lui mi ha indicato come giudice a latere del Maxiprocesso, anche se formalmente non l’ha mai ammesso. Mi ha fatto andare alla Commissione Parlamentare Anti-Mafia come consulente, non volevo andarci e mi ha convinto. Mi ha chiamato al Ministero della Giustizia quando è andato a Roma e insieme abbiamo curato la legislazione anti-mafia che tutto il mondo ci invidia… Ho cercato, dopo le stragi e la morte di Giovanni e Paolo, di attuare le loro idee e i loro valori anche attraverso l’ufficio della procura nazionale anti-mafia in cui ho passato tredici anni della mia vita professionale prima come sostituto, poi come aggiunto e infine da procuratore nazionale.
I ricordi e gli aneddoti rientrano nella sfera personale. Ma dell’amico Giovanni cosa l’ha colpita dal punto di vista professionale?
La tenacia investigativa. Non mollava nulla, appena fiutava una pista concreta non la lasciava più. Aveva inventato un metodo, di fatto. Anziché indagare sui fatti diretti e sugli omicidi, di cui era difficile trovare i colpevoli senza conoscere le relazioni, si spostava sulle indagini bancarie. Ci dicono che il denaro non puzza, pecunia non olet, invece il danaro puzza e lascia una traccia.
Una rivoluzione nel modo di indagare…
Attraverso gli scambi di assegni, seguendo il denaro, troviamo le tracce di un rapporto. Dopo aver raccolto tanti elementi, poi, è arrivato Tommaso Buscetta che con altri collaboratori ha dato un quadro completo di questi rapporti. Falcone ebbe così il riscontro delle loro dichiarazioni. È stato questo il successo del maxi-processo.
Scrivere un libro nell’occasione di un anniversario e rivolgerlo al futuro. È questa la sua missione?
Sì. Avrei potuto finire la biografia di Falcone con la sua morte, con la storia della mia amicizia, o con la morte di Paolo arrivata cinquantasette giorni dopo. Ho voluto invece continuare per far comprendere ai ragazzi che dopo la morte Falcone e Borsellino sono rinati. Attraverso le idee ei valori che rappresentano – il senso del dovere, il senso dello Stato – sono coloro che possono far migliorare il mondo ancora oggi. Quindi i ragazzi seguendo questi esempi possono essere la nuova classe dirigente di domani. La storia non è finita e deve continuare con i ragazzi.
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