Perché in Afghanistan non si dà fuoco ai campi di oppio?
Nel mio orto ci nascono ogni anno i papaveri da oppio. Qualche seme arrivò qui portato da una ventata da un vicino prato che ne era pieno, e ogni anno si riproducono belli alti e sfolgoranti, ben visibili dalla strada, tanto da far pensare che prima o poi avrebbero richiamato l’attenzione di qualche pattuglia di carabinieri di passaggio e si sarebbe dovuto spiegare loro che non erano stati piantati ma si erano da soli trapiantati, e stavano lì come ogni altro fiore solo per bellezza. Questo per dire che i papaveri da oppio fanno spettacolo, e c’è da immaginarsi quanto spettacolari siano gli smisurati campi di papaveri da oppio coltivati in Afghanistan, paese al primo posto nel mondo nella produzione di droga pesante. Allora uno si domanda: invece di dar fuoco alle città e a chi le abita, invece di bruciare le case e la gente, perché non s’incendiano con una buona passata di napalm questi campi della morte bianca, della morte lenta, e così si disinfetta una piaga che affligge tutto il pianeta e si riduce la causa del male? Ma che domanda ingenua, che domanda sciocca! Diciamo pretestuosa, per arrivare al dunque: la droga è il grosso business che ne sostiene un altro altrettanto sporco, quello delle armi. Tu mi dai la droga e io ti do le armi e siamo pari e patta. Così si fa tra nazioni civili. L’Italia in brevissimo tempo si è conquistato un bel secondo posto nella graduatoria delle potenze mondiali produttrici ed esportatrici di armi, l’Italia che ripudia la guerra, che grida nelle piazze durante le manifestazioni per la pace «articolo 11 della costituzione, undicesimo comandamento», che stufa di poeti santi e navigatori e povericristi s’imbarca nell’affare più redditizio del mondo. Ma sia chiaro, solo come raccattattrice di cocci, senza mani in pasta in questa guerra mistificata chiamata come tutte le guerre “guerra giusta” e meglio ancora “guerra umanitaria”, dove i nostri soldati stanno lì in missione di pace in assetto però di guerra, e quando capita loro di morire diventano angeli e eroi per chi resta a piangerli, e anche modelli da imitare, così da proseguire con questa illogica pantomima che miete vittime da tutte le parti – solo che da una parte i morti si contano e si onorano e dall’altra si mettono nel mucchio e nel dimenticatoio – e alimenta il giro del denaro sporco, esentasse, che però con l’azione risucchiante e sbiancante del provvidenziale “scudo fiscale” ritrova tutta la sua virginea legalità, e si rimette in circolo senza vergogna. Le guerre servono, sono sempre servite, e per alimentarle serve il commercio di droghe e di armi, e propaganda tronfia che s’inventa per la guerra aggettivazioni da brivido. “Guerra preventiva” ne è l’esempio più terribile e squallido: con il principio della guerra preventiva si fa la guerra per evitare la guerra, colpendo per primi e colpendo sodo, e quando l’inferno si scatena si mandano sul luogo delle stragi soldati in missione di pace che operano però in territorio di guerra, e quando ci scappano i morti si viene colti di sorpresa, come se i nostri soldati si fossero trovati in terra afgana per una passeggiata domenicale, e non per una azione bellica congiunta.
I papaveri da oppio sono belli, ma i loro frutti fanno addormentare. Fanno morire. E così le armi, e così la cattiva propaganda. Teniamoci bene a mente almeno questo: la guerra è sempre guerra, in qualunque modo essa venga prospettata. La guerra non è mai giusta, non è mai santa. La guerra è sempre e solo sporca.
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