Passi scolpiti nella pietra
“Il mito rappresenta la vita con più precisione della Scienza” (C.G.Jung)
Ho raccolto appunti, idee e spunti di riflessione durante questa calda estate, un po’ intorpidita dai circa 40° e ciondolando tra un viaggio e l’altro sulla Salerno-Raggio Calabria. Un labirinto? Questo il tema, un labirinto costruito, una forma architettonica. Ma il labirinto non è una forma architettonica, è prima di tutto un percorso, mi dicevo zigzagando su tratti lunghissimi a corsia unica, dietro a macchine e autotreni e vedendomi arrivare addosso i fari di chi procedeva in senso contrario, fari zigzaganti come i miei, incerti o aggressivi, senza alcun filo o alcuna possibilità di tornare indietro. Poi, per alcuni tratti si doveva lasciare l’autostrada ed entrare tra boschi e sorgenti, colline e strade, scoprendo piccoli paesi e fattorie, gruppetti di case ed una umanità silenziosa che si sentiva scoperta ed invasa dal serpente di macchine.
Allora, come un labirinto la Salerno-Reggio Calabria (che tanto mi ha fatto spazientire) regala improvvisi squarci di mondi sconosciuti, di cui ho goduto con inaspettata gioia.
40° di temperatura e quarant’anni che percorro questa strada, uno dei miei personalissimi labirinti da cui esco sempre vittoriosa.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
…… I’ non so ben ridir com’io v’entrai”
Come non far riferimento alla suggestione dei versi danteschi. E’ una vera fortuna dunque che questa “diritta via” venga smarrita, in questo smarrimento risiedono le più incredibili opportunità di conoscenza e di crescita umana. Dobbiamo infatti necessariamente lasciare da parte la lettura negativa, che si è venuta e creare con molta probabilità in età barocca, del labirinto come simbolo del disorientamento, della perdita di punti di riferimento, luogo della possibile perdita di se stessi.
Il labirinto ha sì a che fare con la possibilità di smarrirsi ma anche e fondamentalmente con la possibilità di uscirne dopo aver trovato ciò che si cercava, ed ha a che fare con la materia, con ciò che ha corpo, e possiamo ben dire, con l’architettura. La sua definizione sembra nascere infatti da una incisione sulle pietre del famoso “Palazzo” di Cnosso a Creta che rappresenta la Labrys, l’ascia a due lame, raffigurata ripetutamente sui muri di quegli spazi che, non appena scoperti, disorientano per la loro complessità e difficile lettura ed interpretazione (per questo motivo labirinto significherà percorso difficile e tortuoso). l’ascia bipenne è uno dei simboli della Grande Madre e di un culto religioso orientato al femminile. Saranno poi delle studiose a rendere possibile l’approfondimento e la conoscenza delle funzioni e del significato di quel Palazzo che, secondo quanto riporta Marija Gimbutas, è in realtà un complesso prevalentemente templare , utilizzato cioè, in molte delle sue parti per i rituali religiosi, sebbene conglobasse in modo articolato sia in orizzontale che in verticale, con terrazzamenti, gradinate ed strutture a più piani, anche edifici amministrativi. L’interpretazione ufficiale del sito, legata alla leggenda del re Minosse, fa riferimento ad una gerarchia regale maschile ma le ricerche archeologiche e gli stessi ritrovamenti nella sala del Trono testimoniano una cultura incentrata sulla simbologia della dea, pare che a governare il complesso templare fossero proprio delle sacerdotesse. Teseo rimane comunque il simbolo dell’eroe che ha il coraggio di entrare in quel luogo misterioso e sconosciuto nel cui centro regna il terribile Minotauro, per affrontarlo ed ucciderlo, guadagnando così un grande beneficio – un mito ha sempre valore sociale – per la collettività ateniese. Per Teseo gloria perenne, per il mostro la morte, per Arianna l’abbandono. Ma prima ancora che nascesse questo mito, si danzava a Creta, si danzava il “labirinto” la danza della “rinascita” , ritmo e suono, quei passi avanti e indietro sempre più veloci i cui segni rimangono impressi oggi, con molta probabilità, nella nostra tarantella, in cui ancora la donna sembra essere “la luce” o “il filo” che conduce.
Il labirinto ha dunque davvero a che fare con la materia e direi con la materia-pietra, con un’opera umana e naturale al tempo stesso, con la capacità dialogica tra queste due realtà. Le prime immagini di esso risalgono al neolitico, incise sulle pareti di caverne e rocce; i villaggi neolitici hanno la caratteristica forma circolare, spesso sono formati da più cerchi concentrici e comprendono altri recinti a cerchi concentrici con aperture e incastri appunti labirintici dove pare avvenisse la domesticazione di buoi e tori; le rappresentazioni di questo si trovano in graffiti del neolitico sahariano dove dei buoi passano attraverso le soglie ed il toro è collocato al centro di un inestricabile trappola. Immagini dunque antichissime, impresse sulla pietra, la cui supposta funzionalità pratica non ne diminuisce il fascino e non ne impedisce la successiva evoluzione in una simbologia così complessa e significativa. Una simbologia riportata nei secoli non solo sulla pietra ma nella tessitura dei tappeti e nei mosaici delle Cattedrali, un viaggio riportato sui pavimenti a contatto sempre e comunque con la terra.
Per ritrovare tracce del labirinto in architettura occorrerà guardare a quel femminile scomparso che rimanda a vuoti e cavità, a volumi e spazi che sono caratteristiche dell’architettura delle caverne, delle tombe e dei villaggi neolitici e pare anche del “Palazzo” di Cnosso in cui, secondo l’interpretazione di Dorothy Cameron citata nel testo di Marija Gimbutas, è evidente l’influenza della sensibilità femminile. La struttura del complesso templare appare suddivisa in due blocchi, quello occidentale caratterizzato da ambienti meno luminosi, santuari e cripte serrati e come scavati, quasi a rappresentare le grotte o caverne uterine a scopo rigenerativo; fu in questo settore che vennero trovate il maggior numero di asce bipenne incise sulle basi delle colonne. Il settore orientale sembra rappresentare la nascita ed è infatti realizzato in modo completamente diverso: spazi ampi e luminosi, colori vivaci, grandi sale e cortili a cielo aperto. Sulle pareti spirali, seni e delfini. Nell’atrio la statua di legno, gigantesca, della dea che ne conferma il culto. “Questi palazzi sono un superbo insieme di dettagli che esalta la vita e appaga lo sguardo, e non i monumenti all’autorità e al potere tipici di Sumer, dell’Egitto, di Roma e di altre antiche società guerriere a dominio maschile” (Riane Eisler – storica). La ricchezza, la varietà, la scelta dei materiali, l’uso dell’illuminazione naturale e dei colori negli affreschi, la cura dei particolari, erano queste le caratteristiche principali di ciò che venne definito “labirinto”; Non possiamo guardare dunque, per entrare nel suo simbolismo, a formali facciate, a corridoi anonimi senza fine o a forme ripetitive e statiche ma alle curve di un percorso che rimane misterioso, pur avendo un punto di arrivo ed un centro. Il labirinto certamente si oppone allo schema rigido e regolare di percorsi lineari da cui il centro è ben visibile e che ormai, a partire dalla fine del ‘400 informa la gran parte del nostro linguaggio urbanistico-architettonico – lunghi rettilinei, tridenti che corrono verso obelischi o fontane; simmetria, ordine, proporzione, questi i codici costruttivi a cui occorre dare un giusto valore ma che la consuetudine utilizza per realizzare una architettura che diventa di facciata e bidimensionale, contro appunto, un uso della volumetria che consenta allo spazio di farsi “vuoto”, di aprirsi con improvvisi squarci, di nascondere intenso e misterioso. Spazio definito da materia – pietre, argilla, legno o vegetazione, che invita alla fruizione attraverso un cammino carico di attese.
Questa possibilità di fruizione dello spazio come percorso, del vuoto come significato, si fa più evidente nell’architettura medioevale ed anche barocca in parte. L’ idea del labirinto è dunque principalmente legata allo spazio, al territorio con le sue diverse altimetrie, i suoi canali, gole, grotte; alle strade ed ai sentieri, ed è stata spesso fantasiosamente sviluppata nei giardini e, come già ho accennato, negli antichi tappeti o nei mosaici delle cattedrali.
E’ evidente il contenuto psichico dell’architettura, dal singolo elemento costruito fino ai più complessi elementi, come le città. Le città medioevali, alcune in particolare come Lucignano, in val di Chiana, per esempio ma anche molte altre, o le città rupestri credo siano oggi le immagini più vicine al labirinto.
Entrare nei Sassi di Matera significa fare immediatamente esperienza di un viaggio nell’ignoto, ed anche nel tempo, passando sui tetti, tra le grotte, scendendo strette scale o trovandosi improvvisamente con lo sguardo perso sulla grande conca del Sasso Barisano dove si intuiscono più che vedere percorsi circolari concentrici con interruzioni di fenditure nella roccia o di minuscole piazze , un gioco volumetrico-spaziale segnato da profonde ombre ed accecanti luci: un paesaggio dell’anima come mi diceva con tono estatico il regista Luigi Di Gianni parlandomi del suo personale labirinto composto dai Sassi e dai Calanchi lucani, dove ha girato molte scene dei suoi film-documentari sul Sud. Lo stesso potremmo dire dei villaggi nuragici: Su Nuraxi a Barumini venne abbandonato nel 238 a.C. e “idealmente risorto – dice B.Zevi – nel 1988 a New York, quando nella mostra sul decostruttivismo, si sostenne il diritto degli architetti a non aspirare più al perfetto, al puro, per cercare la creatività nel disagio, nell’incertezza, nel disturbato” io aggiungerei semplicemente nel vissuto ed il vissuto è movimento, è svolgersi degli eventi è comprensione di questo svolgersi, è andare e tornare sapendo che i passi non saranno mai gli stessi e che ogni angolo, ogni ombra ci svelerà qualcosa a patto di stare nella dimensione della ricerca.
Il Labirinto ha sempre suscitato attrazione e curiosità e l’arte ne ha fatto oggetto di rappresentazione in forme ed immagini ricche di intensità, colore, intuizioni. In particolare l’arte del ‘900, sembra far proprio, attraverso la liberazione dai legami della tradizione un fecondo percorso labirintico fatto di sperimentazione e nuovi linguaggi.
Ma cos’altro in architettura può richiamare il senso del labirinto? Ho seguito la traccia segnata dalla mia esperienza ho attinto a ciò che da molto tempo attira il mio interesse sia professionale sia personale ed intimo: la casa-luogo , uno spazio in cui sia possibile esperire significati legati alla propria autocostruzione e riconoscimento di sé. Un luogo con caratteristiche proprie come una personalità, dove sia possibile entrare in relazione. Tenendo fede alla simbologia del labirinto, la casa può essere testimone fisica e concreta del nostro percorso esistenziale, essa stessa percorso, centro, luogo di arrivo e partenza, di andata e ritorno.
Ecco allora il richiamo alla casa di Jung a Bollingen. Credo che sia l’esempio più chiaro della valenza fortemente simbolica di un luogo costruito, di spazi e volumi, di materiali – la pietra in particolare – di pittura e di scultura. La casa di Jung è realmente un percorso iniziatico, un’opera che esprime e realizza il suo “sé” come lui stesso afferma. In essa egli può sentirsi in una unità armoniosa con l’ambiente circostante, l’acqua del lago, la vegetazione ma prima di tutto ha la possibilità ed il bisogno di costruire il proprio percorso personale in modo materico e per questo visibile: una occupazione del territorio, un plasmare lo spazio oltreché la pietra, creando e ricreando il susseguirsi dei luoghi, per un abitare sempre più consapevole ma anche aperto al mistero ed all’inafferrabile, al mutamento ed al sogno. La casa di Bollingen nasce da una idea di semplicità ed essenzialità, si potrebbe dire che nasce dal suo centro, segnato dal fuoco vivo tra pochi sassi ma poi cresce e si espande o meglio si dirama, seguendo l’elaborato e complesso cammino esistenziale del suo ideatore, e diviene quel labirinto di stanze, di percorsi, non solo in pianta come “accoccolata al suolo” ma in verticale, con le torri, costruite secondo un ritmo temporale, e poi aperta verso il lago con la loggia e poi segnata da quella pietra scolpita davanti alla soglia, che diviene spiegazione incomprensibile e che rimanda dunque al mistero dello stesso costruire: tramutare la pietra in una dimora, così evidente nella sua concretezza e stabilità, senza poter comunque dire tutto e senza poterne eliminare o nascondere la fragilità, la mutevolezza. Sebbene non si possa parlare della casa di Jung come del classico labirinto a cui ci rimanda la nostra immaginazione, a mio parere ne ha tutte le caratteristiche simboliche, ha quindi valenza universale, anche in quanto invita l’ospite a percorrere e sperimentare, sentire su di se il valore stesso del simbolo. “una professione di fede in pietra” dice Jung, dove professione di fede potrebbe significare la necessità di “dare alla luce” matericamente ciò che si riesce a vedere del proprio percorso interiore, seppure oscuro e misterioso e sperimentare in essa la continua rigenerazione, la rinascita. E’ chiaro che non sempre è possibile costruire materialmente la propria casa, spesso la troviamo già realizzata e magari in edifici dove ve ne sono molte simili ma, nonostante questo, attraversata la soglia siamo noi, col nostro corpo, il nostro sguardo, a intrecciare con essa un particolarissimo percorso esistenziale. Siamo noi che in essa ritroviamo le tracce del vivere conoscendoci, ed il centro cosmico, quello da cui parte il nostro contatto con la terra e con il cielo, quel centro da cui possiamo ripartire e da cui possono diramarsi, senza farci perdere, altre infinite relazioni. La casa-luogo allude poi proprio a quel luogo che è dentro di noi, quel labirinto di stanze, ingressi, scale e corridoi che devono portarci al centro, all’essenza della nostra esistenza; quel “Castello Interiore” che non necessariamente è riferibile solo a chi vive una esperienza di fede. Significativo a questo proposito è anche ciò che esprime Etty Hillesum nel suo Diario, quel viaggiare dentro di se e scoprire luoghi oscuri e paludi quando il cammino ristagna e regna lo smarrimento e la confusione, mentre la visione di grandi pianure, ampie e luminose, dove regna la luce indica la ripresa fiduciosa del cammino, dove intravede quel centro significativo ed indispensabile per poter vivere anche in condizioni di difficoltà: E perché poi non dovrei vivere in cielo? Il cielo esiste, perchè non ci si potrebbe vivere? O piuttosto il cielo vive dentro di me. Devo pensare a un’espressione di una poesia di Rilke: “spazio interno del mondo”…. Dietro gli arbusti della mia irrequietezza e dei miei smarrimenti si stendono le vaste pianure della mia calma e del mio abbandono. Così, l’ambiente naturale, il paesaggio, una piazza, una strada e poi la soglia, le mura, una scala, divengono il percorso alla ricerca di sé e il linguaggio stesso del sé. Senza dimenticare che la scoperta del sé porta necessariamente ad una nuova relazione con l’altro da se.
Il labirinto qualunque sia la sua forma, ha comunque la caratteristica di non lasciar vedere chiaramente il centro, l’oggetto della ricerca, il senso del cammino, occorre essere attenti all’orientamento, dare valore ad ogni meandro, riconoscere gli angoli, i lati d’ombra, le improvvise lame di luce delle ore del giorno o i tagli lunari nelle notti di luna piena. Il Centro che rappresenta l’intero mondo e che è il luogo dove si congiungono cielo e terra, non ha maggiore valore del cammino, Centro e Cammino si parlano, tessono reti di comunicazione, l’uno è richiamo l’altro è via, questo diventa evidente graficamente, come accennavo, nei mosaici o nella tessitura degli antichi tappeti; Anche se, come dice Mircea Eliade ” il labirinto è la difesa magica di un centro, di un significato” , quel centro non si può dare senza un cammino, aggiunge infatti: “andiamo e torniamo e torniamo a ripartire” un cammino che non può avvalersi di sentieri dritti e semplificazioni ma necessita del coraggio della fatica e gode della continua scoperta di nuovi panorami.
Mi piace rimanere nell’ambito dell’abitazione e guardare alcuni esempi anche di culture diverse che confermano il mio pensiero. Fatema Mernissi, raccontando in modo ironico ed affascinante la vita nell’harem, disegna lo svolgersi di questa vita attraverso la descrizioni dei luoghi, della articolata e complessa casa-harem dove lei nasce. E’ possibile ritrovare ancora l’emblema del labirinto nel passaggio da quel cuore-centro che è il cortile, simmetrico e perfettamente ordinato geometricamente e funzionalmente, alle scale, all’incastro dei piani superiori custodi di una vita dove i passi si intrecciano, una vita più attiva, più individuale – nel senso delle singole famiglie – e più vera ma, al tempo stesso, silenziosa e nascosta, il cui sottofondo è il leggero parlottare, ricco di intelligenza e curiosità delle donne adulte, gli occhi sgranati delle bambine e dei bambini ed i racconti notturni della zia, abbandonata come l’Arianna della mitologia. In una architettura in cui non domini il muto formalismo ma la carica vitale dei percorsi, le vibrazioni dei materiali, il gioco di pieno-vuoto, si ricrea e si vive il simbolo del labirinto, il luogo laddove l’energia vitale si rigenera ciclicamente scoprendo sempre nuove dimensioni e più chiare rappresentazioni. Si può arrivare a questo come abbiamo visto sia a livello di un territorio, di un giardino, di una città, sia all’interno di una casa o addirittura in una stanza dove ogni angolo abbia il suo significato ed ogni oggetto il suo posto. Da ciò si comprende come l’esperienza del labirinto-casa sia fondamentale per posizionarsi nel mondo e nella vita, dove posizionarsi non significa dunque stabilirsi nell’immobilità ma saper camminare e al tempo stesso stare. Saper “abitare” come dice Heidegger ed “essere abitate/i” aggiungo.
Nel viaggio, anch’esso labirintico, di questa mia ricerca, cercando nella casa una sua espressione si può arrivare a comprendere l’interessante racconto di Borges, la casa di Asterione, dove la leggenda si rovescia ed il labirinto viene vissuto a partire dal centro, dal luogo cioè dove Asterione-minotauro, vive, luogo dove regna la quiete e la solitudine, da dove nottetempo esce per girovagare per le strade intimorito dai volti inespressivi della gente. Vorrebbe, Asterione, un suo simile a cui raccontare, raccontare cosa? Ma proprio di quella sua grande labirintica casa di cui gode ogni angolo. La sua casa è grande come il mondo e lo rappresenta: “Ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili,le cisterne”
Il simbolo del labirinto come espressione di uno spazio esistenziale costruito e da costruire; da percorrere andando e tornando, sapendosi fermare e imparando anche a stare, in un ciclico ripetersi di partenze e ritorni. La soglia di ogni abitazione può rappresentare l’ingresso al suo interno e la funzionalità degli spazi prelude sempre ad una capacità di relazione con essi che includa anche il senso, il significato, non la pura e semplice utilizzazione. L’importanza che Jung dà alla costruzione della sua casa di Bollingen rappresenta davvero una lezione per chi progetta e costruisce. Quella costruzione in pietra concretizza l’insieme di conscio ed inconscio, “rappresenta in pietra- dice Jung – i miei più interni pensieri ed il mio sapere” .
Il labirinto dunque come percorso costruito e da costruire, mai separabile dalla materia con cui costruiamo e dalla terra su cui mettiamo le fondamenta-radici di ogni costruzione.
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