“Parthenope” di Paolo Sorrentino, una città, una donna, che hanno il volto del sole…
Parthenope, un film su cui si è già scritto tutto è il contrario di tutto è l’esperienza che si aspetta il cinefilo: abbacinante. Ma oggi, lungi dal volersi far abbacinare, al cinema si va informati, spesso avendo letto di tutto e possedendo brandelli di film raccontati da altri: così Paolo Sorrentino è erede di Fellini (e chi non vuole esserlo? Anche l’attore, rock star e regista Johnny Deep ha dichiarato in una recente intervista televisiva di ispirarsi al maestro per eccellenza…). La sua Parthenope è così e colà, gli attori sono tutti attoroni (ma contano davvero le loro sembianze se Isabella Ferrari è nascosta da una maschera, e Luisa Ranieri sembra indossare la maschera dell’attrice partenopea per eccellenza salvo poi rivelarsi un’anziani donna stanca e sfiduciata?). Parthenope va preso così, da cinefili, per endovena: lasciandosi distruggere dal sole mediterraneo, dall’azzurro e dal bianco dei faraglioni capresi, ricordando quell’eterna volta in cui anche noi eravamo protagonisti di quella luce, mille estati fa, (girando l’isola su una Cadillac rosa o incontrando Edoardo Bennato che se ne andava rasente i muri per non essere riconosciuto ma ci ha accordato qualche minuto di conversazione all’ombra di un portone socchiuso, quando eravamo infelici, profondamente, perché non si poteva diventare tutto ciò che si sentiva, si desiderava). Convinti sempre di più dal racconto per capitoli di Sorrentino (da Il divo a Youth – La giovinezza, da La grande bellezza a È stata la mano di Dio passando per This Must Be the Place) che l’orrore ci sta davanti quando il passare dell’età giovanile lascia il posto al disfacimento del corpo ma, forse molto peggio, al disincanto davanti ad ogni forma di bellezza, di passione, di fiducia in qualche cosa.
I personaggi, però, compreso il bel volto della protagonista Celeste Dalla Porta o Silvio Orlando, amano tutti qualcuno, profondamente, altrimenti, forse, l’esistenza, trascorse poche decine di anni, diverrebbe sempre più inquieta e solitaria: Parthenope amerà per sempre il fratello e la propria immagine di divina bellezza giovanile e il professor Devoto Marotta l’antropologia, ovvero ‘la capacità di vedere’, e quel suo figlio rimasto bambino e malato, che senza di lui forse non sopravvivrebbe. Lungi dall’essere moralistico il film mostra, come deve fare il cinema, come si passa sopra i luoghi comuni: non esiste blasfemia se i gioielli del santo, per se stessi eretici, vestono il corpo perfetto d’una giovane donna e, la stessa, può darsi ad un amante imperfetto, improbabile, se solo lo vuole e non c’è né diminuzione della sua bellezza né dannazione, che tutti siamo uomini e donne in cammino nel lasso di tempo concessoci da quella che si chiama vita. La stessa è incontenibile e irriducibile, nel caso, come una città dai mille scorci di bellezza come Napoli con le paure che stanno sempre acquattate dietro l’angolo: si citano persino gli antichi lussuosi carri funebri che richiamano Il funeralino episodio nel film L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, o appaiono veri e propri mostri rombanti con tanto di mega zampe come il vecchio carro arrugginito che sanificava le strade al tempo del colera.
Napoli resta centro di una luce sfacciata (tanto quanto la contemporanea donna Parthenope, sorridente e dolente al contempo, presente a se stessa da ere immote, alla quale nessun uomo deve insegnare qualcosa), perché Napoli è una città mai divenuta metropoli: allargatasi a dismisura ma mai seppellita, né dallo smog né dalla tristezza profonda, ché le città davanti al mare non subiscono la stessa onta di tutte le altre, checché se ne dica… Così che neppure le vite possono subire solo onte, andando incontro alla vecchiaia, poiché la consapevolezza e la voglia di riscattare ogni giornata con qualcosa di bello (Perfect Days di Wim Wenders) è ciò che ci fa umani al di là della macchina tecnologica e delle paure che con violenza vorrebbe infonderci una cultura che pretende di seppellire il naturale, la natura. Il film, a modesto parere di chi scrive, è così bello, e non poteva essere scelta altrimenti l’epoca in cui ambientarlo, anche perché non vincola il regista alla presenza di telefoni cellulari e social con le loro doppie e triple vite che corrono parallele e innaturali, violente, a disturbare la nostra percezione di ciò che vale, che è bello per noi, dei nostri sentimenti davanti al tempo che, inesorabile, scorre. Mai come con Parthenope, ed altri film così visivi e carichi di colore, ogni recensione può divenire inutile. Occorre prendere posto al cinema, nel buio della sala, e godere il calore delle immagini vive. Splendido.
Piccola nota d’attualità, (e domanda retorica): può rappresentarci agli Oscar il film Vermiglio di Maura Delpero? Ottimo e vibrante esercizio di cinema ma il cui centro, l’impostazione medievale della famiglia trasportata fino al ‘900, la difficoltà e la voglia di emancipazione femminile, sono state forse raccontate con maggiore veemenza e ritmo immaginifico da film come Piccolo corpo di Laura Samani, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli o il televisivo Gloria di Fausto Brizzi (per non farne solo una questione di regia al femminile che dovremmo aver superato anche per l’esistenza di cineaste del calibro di Alice Rohrwacher con le sue opere, tanto per citare, Le meraviglie e Lazzaro felice)… (Serena Grizi)
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