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“PAROLE” DI DIRITTO PENALE: CORTE COSTITUZIONALE E DI CASSAZIONE

Maggio 24
18:09 2019

Il fine di questo “collage” di parole estrapolate da alcune sentenze della Corte Costituzionale e di Cassazione è di cercare di “vedere” la “logica ontologica” del diritto penale. Naturalmente ogni sentenza va letta nella sua integralità cui si rimanda. La sentenza n. 168 del 1971 definisce l’ordine pubblico come “ordine pubblico costituzionale.” mentre la sentenza n. 1085 del 1988 afferma che “non può denominarsi dolo l’intenzione di realizzare una condotta positivamente valutata dal legislatore” dove “la valutazione unitaria…di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie tipica…non esclude, tuttavia, che, in sede di colpevolezza, si analizzino i diversi dati, i singoli elementi che contribuiscono a contrassegnare il disvalore oggettivo del tipo: ed è in relazione a ciascuno di tali elementi che va ravvisata la responsabilità dell’autore…il rimprovero, la disapprovazione etico-sociale”. Inoltre, affinché il principio di personalitàcolpevolezza sia effettivamente rispettato, afferma che “tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati.” Per quanto riguarda la sentenza n. 364 del 1988, trova “nella Costituzione, d’un vincolo, per il legislatore ordinario, di non sanzionare penalmente fatti carenti d’effettiva coscienza dell’antigiuridicità.” Ribadisce la funzione di garanzia del principio di legalità, la funzione del principio di tassatività dove “Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato…leggi precise, chiare” e del principio di colpevolezza che garantisce “libere scelte d’azione” dove il soggetto sarà “chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili” e che tale principio “deve accompagnare il fatto materiale.” Passaggi importanti emergono, come “la responsabilità penale personale” implica la “possibilità di muovere rimprovero all’agente potendo da lui pretendersi un comportamento diverso”, che la “rieducazione presuppone la colpa”, che bisogna “conferire alla responsabilità il connotato della personalità”, che “rispettare l’ordinamento democratico…è tale in quanto sappia porre i privati in grado di comprenderlo” e questi siano dotati di “specifiche cognizioni” e tenuti a “controllare le informazioni ricevute” al fine di riconoscere e prevenire i “divieti”. In riferimento all’art. 27 Cost. terzo comma la sentenza n.313 del 1990 afferma che si “impone al giudice di valutare l’osservanza del principio di proporzione fra quantità della pena e gravità dell’offesa, e quindi il concreto valore rieducativo della pena in relazione alla sua pregnante finalità.” Nell’esercitare “il controllo sulla definizione giuridica dei fatti, il giudice non valuta soltanto la correttezza di un’operazione logico-giuridica”, ma “trae il suo convincimento proprio dalle risultanze degli atti” e “indichi le prove che intende porre a base della sua decisione, ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie” dove la “finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena” e rieducare indica “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico”. Quindi proporzione tra qualità e quantità della pena all’offesa e specie e durata calibrata alle necessità di rieducazione del soggetto? Con la sentenza Franzese del 2002, nel ricostruire il nesso causale su leggi scientifiche e di esperienza, è stabilito che “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne le validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta…è stata condizione necessaria…con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica” dove il ragionevole dubbio in base all’evidenza comporta il giudizio assolutorio. In fine, la sentenza n. 162 del 2014 afferma che “i principi di non discriminazione e ragionevolezza rendono ammissibile la fissazione di determinati limiti ai diritti, ma vietano di stabilire una diversità di trattamento di situazioni identiche o omologhe, in difetto di ragionevoli giustificazioni.” Si fa riferimento al principio di ragionevolezza e alla distinzione tra irrazionalità “interna” a “causa dell’incoerenza tra mezzi e fini” e da irragionevolezza “esterna” e che a supporto dell’argomentazione sono richiamati “ricerche e studi”. Rilevanti nel ragionamento “la contraddizione insita nella circostanza” e il “percorso argomentativo”. Per quanto riguarda i “temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore, ma resta ferma la sindacabilità della stessa, al fine di verificare se sia stato un non irragionevole bilanciamento di quelle esigenze e dei valori ai quali si ispirano.” Inoltre, è affermato che “L’esigenza di garantire il principio di costituzionalità rende, infatti, imprescindibile affermare che il relativo sindacato deve coprire nella misura più ampia possibile l’ordinamento giuridico, non essendo, ovviamente, ipotizzabile l’esistenza di ambiti sottratti allo stesso. Diversamente, si determinerebbe, infatti, una lesione intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato, soprattutto quando risulti accertata la violazione di una libertà fondamentale, che non può mai essere giustificata con l’eventuale inerzia del legislatore ordinario. Una volta accertato che una norma primaria si pone in contrasto con parametri costituzionali, questa Corte non può, dunque, sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio e deve dichiararne l’illegittimità, essendo poi compito del legislatore introdurre apposite disposizioni, allo scopo di eliminare le eventuali lacune che non possano essere colmate mediante gli ordinari strumenti interpretativi dai giudici ed anche dalla pubblica amministrazione, qualora ciò sia ammissibile.” In fine, è ribadito che la giurisprudenza costituzionale ha desunto dall’art. 3 Cost. un “canone di razionalità della legge svincolato da una normativa di raffronto, rintracciato nell’esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità ed a criteri di coerenza logica, teleologica, e storico-cronologica, che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa. Lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, impone, inoltre, a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. A questo scopo può essere utilizzato il test di proporzionalità, insieme con quello di ragionevolezza, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.” e che “il principio di cui all’ art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell’identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe.”

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