Padre Marco Petta
Ricordare Padre Marco Petta, che il 26 Settembre, nella solennità di S. Nilo, ha fatto ritorno alla casa del Padre, non è impresa facile. Occorre infatti fare memoria ad un tempo: del monaco, del diligente bibliotecario, dell’insigne grecista, dell’Esarca del nostro caro cenobio. Tutto questo, nella sua parabola terrena, è stato Padre Marco, sempre con una mitezza, una affabilità ed una bonomia che lo hanno contraddistinto, ogni volta che, ormai non accadeva più molto spesso, lo si incontrava in una delle sue lunghe passeggiate per il paese. Quando ne ho elencato, pur se sommariamente, quelle che mi sono parse le sue caratteristiche più salienti, ho scelto di partire, non casualmente, dal suo essere monaco perché credo che proprio in un monachesimo autenticamente vissuto possa trovarsi la cifra più profonda della persona che ci ha lasciati. Del monachesimo, infatti, Padre Marco visse esemplarmente la passione per lo studio ed in particolare per i libri: tesori di fede e di cultura che ha custodito per una vita intera e che, in un tempo in cui lo iato tra queste due dimensioni dell’esistenza sembra acuirsi, appaiono ai nostri occhi ancora più lucenti e preziosi. Sembrava quasi che, ogni altro incarico, compreso l’esarcato, fosse vissuto da lui come un “tradimento “ dei suoi amati libri: ma quell’amore non era una fisima, era la cifra di una esistenza e di una fedeltà radicale alla vocazione monastica, di cui lo studio e la meditazione sono elementi costitutivi.
Altra caratteristica del monachesimo che visse intimamente fu il silenzio, inteso come condizione dello spirito capace di intercettare valori radicati e profondi: un silenzio vissuto in lunghe ore di studio nella sua biblioteca, che non era rifiuto della comunicazione, ma, in certo senso, il suo coronamento naturale. A questo proposito un autore francese scrive: “Eppure, quando due parlano tra loro, c’è sempre un terzo accanto a loro in ascolto: il silenzio”. Ciò da ampiezza alla conversazione, perché le parole non si muovono solo nel ristretto ambito degli interlocutori, ma vengono di lontano, da quel luogo in cui appartengono al silenzio”.
Nato a Piana degli Albanesi (PA) negli anni 20 del secolo scorso, Padre Marco è divenuto Archimandrita nel 1995 ed ha ricoperto questo incarico fino al 2000.
Ma tutti questi fatti, pur se rilevanti nella biografia di un uomo e di un monaco, non riescono a riassumere fino in fondo la complessa parabola del suo percorso di vita e di fede.
Che i figli di San Nilo conoscano la lingua greca è cosa naturale: la frequentano quotidianamente, la usano nella divina liturgia, la studiano fin da giovani con impegno e passione. Ma anche in questo Padre Marco Petta, aveva qualche cosa di speciale: ne apprezzava i costrutti, le finezze, quelle piccole sfumature che fanno disperare gli studenti di liceo e che solo il greco sa cogliere; per il greco dei padri d’oriente, poi, aveva una predilezione tutta speciale.
Aprendo la sua enciclica su fede e ragione Giovanni Paolo II scrive “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso”.
Credo che questa frase riassuma egregiamente lo sforzo di Padre Marco che, non solo per chi scrive, resta l’esempio di una fede pensata, profondamente intrisa di cultura classica, capace di raccogliere quanto di autenticamente umano, sia presente in ogni aspetto della vita.
In questo uomo dei libri, avvinto alla carta nel tempo dell’immaterialità digitale, è rivissuto quel connubio tra cultura ellenica e nascente cristianesimo, che diede ai padri greci la forza di pensare in modo nuovo con parole antiche, in quella lingua che Padre Marco frequentò in modo eccellente.
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