Out-let Dante – 2
Sarà il caso di ricordare a questo punto che quella delle Lecturae Dantis è un’istituzione di fine Ottocento (Firenze 1899), che si continua non solo nella storica sede di Orsanmichele, ma anche a Roma nella ‘casa di Dante’ con discreta affluenza di pubblico. Chi sa perché, infatti, l’opera di Dante invita all’oralità; forse perché l’immaginario collettivo, dall’Iliade in giù, lega il genere poema alla dimensione condivisa di un testo che si fa portatore dei valori, dell’ethos, della comunità. E dunque, legga pure chi vuole. Ma quanto all’esegesi, qualunque essa sia, accennata o dispiegata, raffinata o rozza, preferiremmo la si lasciasse a chi proviene da contesti universitari, a chi cioè in quello studio ha investito grandi somme di applicazione filologica, sforzo di intelligenza di testi e contesti e, perché no, tempo di vita, piuttosto che vederla svenduta a poco prezzo. E se è pur vero che di ‘ortodossia’ dantesca non si possa più parlare ormai, essendoci “non uno, ma più dantismi, e… più di un cantiere aperto”, come sottolinea Guglielmo Gorni nel freschissimo di stampa Dante. Storia di un visionario, la filologia resta tuttavia imprescindibile, per tenerci “al riparo da certo spavaldo dantismo contemporaneo”. Non che si voglia con ciò “castigare la fantasia” o “l’arbitrio”, come ‘ordinava’ Contini. Anzi luteranamente pensiamo che questa, o altra, Opera siano uno scrigno di cui ciascuno possa fabbricare la chiave, ma preferiremmo che poi il fruitore la conservasse nel chiuso del proprio cuore. E a proposito di Opera, come non menzionare qui La Divina Commedia. L’Opera andata in scena a Tor Vergata? Sottotitolato L’uomo che cerca l’Amore, accompagnato nella locandina dalla roboante dichiarazione “Attraverserò le fiamme dell’inferno per vederti”, cui segue la più commerciale promessa “Cantanti, attori, ballerini… per portarti dall’Inferno al Paradiso” lo spettacolo è stato preceduto da adeguata grancassa mediatica, e ha ricevuto l’imprimatur nientemeno che dalla presenza del Cardinale Camillo Ruini alla prima, per poi scivolare, nelle repliche, in pasto a scolaresche annoiate. E se nell’’operazione Notre Dame’ erano state essenzialmente le musiche a legittimare la riesumazione spettacolare dell’opera di Hugo (cui sarebbero bastate peraltro le delicatissime immagini dell’omonimo cartone a ridare nuova vita), cosa salverà invece questo prodotto da un precoce, meritatissimo, oblio? Anche in questo caso ci associamo al dubbio di Gorni: “Mi chiedo se l’età… delle immagini sintetiche, dell’animazione informatica, degli effetti di presenza e di movimento realizzati al computer, non sarà iconicamente più propizia delle precedenti alla Commedia”, perché “nella Commedia il gesto e l’evento sono rituali: legati a una pena, alludono a una realtà superiore. La vita terrena irrompe talora nel poema, ma è subito ridotta a caso esemplare, a parabola… il reale non è che una similitudine, è svuotato di concretezza dall’esemplarità”. Che dire dunque dell’idea di fare della Commedia un’opera? Dante certamente conosceva la musica, e pare ne abbia composta ed eseguita, se nel suo Compianto troviamo a piangerlo, tra le sette arti liberali, la Musica. L’esigenza del suono del resto sembra nascere quasi intrinseca al poema, e la sentì anche Liszt componendo la sinfonia Dante, per la quale aveva previsto tre movimenti. Ma poi, invitato a riflettere da quel grande artefice del Wort-Ton-Drama che fu Wagner, si rese conto di non poter esprimere il Paradiso e si limitò a concluderla con un Magnificat. Chiudiamo dunque la parentesi Opera di cui salveremmo soltanto certi effetti, compreso quello conclusivo, nel suo alludere alla geometria divina in cui si va ad incastonare il fluire di icone mariane. E chiudiamo anche questa ‘conversazione’, non senza aver prima detto che certe qualunquistiche ‘intrusioni’ Dante se le è pure meritate, e rappresentano quasi un contrappasso, se è vero che lui per primo, andandosene a spasso di Là, ha voluto razzolare in un orto che non era di competenza sua, bensì di Santa Romana Chiesa. Perché dovrebbero risentirsi dunque, l’Una e l’Altro, se poi il giorno di Natale, Benigni, nella sua lettura del III dell’Inferno ha associato il povero Papa Luciani a Celestino V? Per la brevità del Pontificato forse, o avrà voluto piuttosto insinuare l’analogia tra due anime candide alle prese con i ’lupi’ della Curia Romana? Perché, come è noto, quel Pietro Angeleri da Isernia, eremita sul monte Morrone, era apparso come l’unica soluzione per far esprimere un pontefice ai cardinali delle grandi famiglie romane, che si dilaniavano per questo. Il povero Celestino, si sa, accettò l’incarico, ma ben presto si accorse che non era mestiere suo. Eppure Jacopone da Todi l’aveva avvertito: “Questa corte è una fucina/ che ‘l bon auro se ce affina:/ s’ello tene altra ramina,/ torna ‘n cennere e ‘n carbone”. E col suo caratteraccio gli aveva detto pure ‘papale, papale’: “Que farai, Pier dal Morrone?/ Ei venuto al paragone./ Vederimo el lavorato,/ ché en cella hai contemplato./ S’è ‘l monno de te ingannato,/ seguita maledezzone”. E la maledizione seguì infatti. Non riuscendo a reggere ‘el paragone’, Celestino rinunciò (incoraggiato, pare, da quel cardinal Caetani, abile canonista, che gli sarebbe poi succeduto col nome di Bonifacio VIII) alla ‘gran degnitate”. Meritandosi così la ‘maledizione’di Dante che lo colloca senza tanti complimenti (pur senza menzionarlo espressamente) nel vestibolo d’Inferno, non riconoscendogli neppure il diritto ad una piena cittadinanza di quei siti: “Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,/ vidi e conobbi l’ombra di colui/ che fece per viltade il gran rifiuto./ Incontanente intesi e certo fui/ che questa era la setta d’i cattivi/ a Dio spiacenti e a’ nemici sui” (Inf. III, vv.58-63). Resta aperta la questione: Dante quale contrappasso assegnerebbe a Benigni?
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