Out-let Dante – 1
Out-let è parola inglese che il Longman Dictionary of Contemporary English definisce così: “a shop that sells things for less than the usual price, especially things from a particular company or things of a particular type”. È parola che ormai tutti più o meno conoscono e che è passata a designare un vero e proprio fenomeno di massa, nonché il luogo dove il suo rituale si celebra. Perché oggi non è più la piazza, la chiesa, la sede di partito o il bar a coagulare le ‘masse’, bensì poli commerciali dove chiunque può acquistare a pochi soldi quello che altri hanno pagato cospicue sommette nei ‘templi’ della moda. Il fenomeno, che dilaga già da qualche anno, è divenuto tanto consistente da meritare l’attenzione degli studiosi e saggi interessanti come quello dedicatogli dal sociologo Giampaolo Fabris. In realtà l’apparentemente innocua idea ispiratrice dell’out-let, liquidare l’invenduto e svuotare i magazzini, deve essere un’altra trappola diabolica per mortificare sempre più la dignità dei ceti medi, togliendo loro anche quella piccola soddisfazione dell’”io ce l’ho e tu no”, del cosiddetto status-symbol, frutto evidente di un immaginario mediocre, poiché chi lo status ce l’ha davvero, non avrebbe bisogno del symbol. Dunque, nella civiltà del’equivalenza prima o poi tutto è destinato a passare in liquidazione. Così nel villaggio globale si svuotano le vere piazze, quelle testimoni e protagoniste di secoli di storia, e si costruiscono gli scenari fittizi del borgo out-let, dove i nuovi barbari sciamano la domenica e si accalcano per accaparrarsi relitti di una grandezza che non potrebbero attingere mai a prezzo pieno. E in tutta questa fiera si liquidano insieme oggetti e sentimenti, etica, istituzioni, merci e cultura. Inevitabile quindi che, prima o poi, toccasse anche a Lui passare in out-let; a Lui, guardato per secoli con devota riverenza e rispettosa distanza, Lui che sovrastava la nostra misera condizione umana dall’alto dei Suoi simulacri in pietra distribuiti nelle varie piazze e giardinetti delle nostre città; e, soprattutto, dall’alto di quella sua originale (ma non poi tanto, visto che Virgilio ci aveva già mandato il suo Enea, e, per non essere da meno, certa agiografia cristiana racconta che pure S. Paolo ci fece una capatina) trovata di andare di Là e di riuscire pure a tornare a raccontarcelo. Lui chi? Il Padre Dante, naturalmente. E mentre nelle scuole è tutto un fervere di rinnovate lecturae Dantis per iniziativa del benemerito (ex?)ministro Fioroni, le ‘benignate’ televisive tengono deste fino a notte inoltrata masse di ‘telespettanti’, ipnotizzate da ghigni e lazzi, che il solo esser pronunciati con la gorgia toscana non legittimerebbe a chi non fosse investito di tanto, oserei dire, ‘veltroniano’ carisma. Peraltro si racconta che in passato Benigni sia stato invitato a Tor Vergata per una lettura in quella sede, e, per il primo anno, abbia ‘benignamente’ acconsentito, salvo declinare poi cortesemente l’invito, preferendo la ben più prestigiosa “Normale” di Pisa, nonché l’’oceanica’ dimensione televisiva. Per carità, con ciò non vogliamo dire che ci piacesse di più il paludato gigioneggiare di Gassman, quando anche a lui, su invito di qualche Catone dell’epoca, toccò di ammaestrare l’italica gente da quel pulpito. E nemmeno le (ahimé) piuttosto soporifere ‘interpretazioni’ di Sermonti, che tuttavia (a dispetto delle stroncature dell”Unità”) merita ben altro rispetto se non altro per lo sforzo di riscrittura integrale in prosa del poema, che ha incontrato un certo successo.
(Continua)
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento