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Oltre l’etichetta

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Luglio 24
09:23 2013

Il crollo del Rana Plaza in BangladeshL’incidente avvenuto in Bangladesh il 24 Aprile, in cui hanno perso la vita 1200 persone, in realtà è una diretta conseguenza del modello di business delle più grandi multinazionali tessili.

Il crollo del Rana Plaza, l’edificio nel quale lavoravano circa 3000 operai (soprattutto donne) per cinque fabbriche che producono abiti 24 ore su 24, rende più difficile occultare la storia degli indumenti che acquistiamo e il comportamento delle aziende coinvolte.

Tra le numerose aziende che si rifornivano nel distretto tessile di Dhaka figurano l’inglese Primark, le italiane Yes-Zee e Benetton poi ancora Wal Mart e C&A (già coinvolte a novembre nella morte di 112 lavoratori a Tazreen), Kik (interessata dall’incendio della Ali Enterprises in Pakistan, nel quale lo scorso settembre hanno perso la vita circa 300 lavoratori), Mango e Gap. I profitti di queste aziende e la loro competitività sui mercati mondiali si basano soprattutto sulle condizioni di lavoro degradanti che impongono ad un operaio di lavorare 12 ore al giorno durante le quali deve cucire un capo d’abbigliamento in pochi minuti per una paga mensile di 40 dollari, un quarto del salario di un operaio cinese.

Il Bangladesh è il terzo esportatore mondiale di capi d’abbigliamento dopo Cina e Italia e dal 2006 ha visto raddoppiare il numero di lavoratori nel settore arrivando a quota 4 milioni: sta vivendo di fatto un periodo di boom economico basato su crescita delle esportazioni e diminuzione della spesa in sicurezza. Questo fenomeno , che crea disagi sociali e che sempre più spesso mette in pericolo la vita di troppi lavoratori è sospinto dal sempre crescente interesse per quello che molti, nei paesi del nord del mondo, chiamano “fast fashion” ovvero la capacità dei grandi marchi di creare nella gente il bisogno di cambiare di frequente guardaroba al passo con una moda sempre più frenetica; una nuova frontiera del consumismo che per garantire prezzi bassi nei grandi stores sposta i costi sulle popolazioni sfruttate. Per non essere complici delle ingiustizie sociali ed economiche che si celano dietro l’etichetta dei nostri jeans preferiti possiamo iniziare con il preferire l’acquisto di capi realizzati nel rispetto dei diritti e della sostenibilità ma, visto che le scelte alternative ad oggi si limitano al commercio equo-solidale, l’unica possibilità concreta è quella di limitare i consumi all’indispensabile.

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