Obama a Roma e Guadagnuolo lo ricorda attraverso i suoi dipinti
materia in movimento e in trasformazione nel flusso del tempo in contiguità corporea anche con oggetti e coscienze fisicamente lontani, proprio secondo quello che afferma la meccanica quantistica (si veda a questo proposito Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà. Einaudi 2004). Chi cercasse nelle tavole di Guadagnuolo l’effimero dell’instant picture si troverebbe dunque nella paradossale condizione di un osservatore che cerca di comprendere la realtà tridimensionale disponendo soltanto di due dimensioni. È anche vero tuttavia che la complessità figurale dei lavori di Guadagnuolo legati all’America e a New York non dà conto da sola delle correlazioni tra coscienza e sostanza subatomica della realtà. Il segno pittorico, mai disgiunto da accelerazioni e pause, da un iter ondulatorio scheggiato da intarsi cromatici, si presta all’interpretazione e alla riformulazione linguistica dell’immagine solo a patto che la sua percezione viaggi su frequenze misteriose, fuori dalle convenzioni.
L’elezione di Barack Obama, il profilarsi di una nuova frontiera nella storia americana in ideale continuità col sogno Kennedyano e di Martin Luther King, ha offerto a Guadagnuolo un nuovo, recentissimo, terreno di indagine: il punto di singolarità tra il presente e il passato, il luogo, anzi il non luogo, dove s’annullano le identità epocali e che il segno pittorico non può che reinventare a partire dal caos primordiale del collage, dall’accumulo cromatico della luce che sta per essere lanciata in avanti. È la speranza la chiave di lettura di queste tavole, la speranza quale forza rigeneratrice di una nazione in crisi culturale ancor prima che economica. La catarsi si estrinseca nella frammentazione del disegno simbolicamente proiettato su brani di calendari, squarciato in trittici, riquadri ed occhielli dove s’affacciano i volti di Obama, Kennedy e Luther King, spalmato su sfondi magmatici dove emergono palmizi, grattacieli, folle oceaniche, affondato in scorci metropolitani dove sfarfallano dollari ed etichette della Coca Cola. Nelle tele la speranza si concentra nella sovraimpressione dei visi eccellenti, nella sostanza figurale di ritratti come simulacri di identità collettiva e, al tempo stesso, tracima nei passaggi liquidi del collage come in una fotocomposizione irrelata senza centro gravitazionale. Il soggetto diventa il sentimento raggrumato di una nazione il cui sangue scorre nelle vene di un consumismo sfrenato, nell’iconostasi mediatica che adombra il vuoto addensando immagini auto-replicanti di una realtà avvitata sui suoi miti. La memoria è senza dubbio terra d’origine ma separata dall’utopia ha la luce statica di uno stagno. Questo sembra suggerirci la violenza cromatica di Guadagnuolo: una ridefinita identità civile e culturale dovrà avere la corsa scintillante della cometa e sgocciolature di colore nel cielo nero della Storia. La speranza nasce dalla destrutturazione del presente, s’appella strumentalmente alla Storia di cui raccoglie icone e macerie, prende movimento da una ricostituita neutralità della coscienza di fronte ai drammi e alle catastrofi, è forza sorgiva che sana la ferita prima ancora che sia effettivamente guarita, è l’occhio al cielo dal fondo del pozzo. Come il volto di Obama, che in questi nuovi lavori di Guadagnuolo balugina da efflorescenze di bandiere a stelle e strisce, da sipari chiaroscurali, tra banconote galleggianti su incendi di colore, nel collasso materico di una realtà emblema della crisi del modello americano. Guadagnuolo ha dipinto il non luogo da cui si sta generando, forse, il nuovo sogno americano. Punto di singolarità, s’è detto, paradosso terrestre della surmodernità in cui il tempo e lo spazio si neutralizzano per via di una forza allo stato latente di energia: la speranza. E mai come in questo momento storico l’America ha avuto bisogno di speranza, mai come ora l’America è stata surmoderna” (da “Metamorfosi dell’iconografia nell’arte di Francesco Guadagnuolo”, Ed. Angelus Novus e Tra 8&9, 2011).
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