O la fabbrica o la vita
Ai bambini in genere si racconta di essere nati sotto un cavolo, a me invece la cicogna mi ha lasciato sotto una ciminiera, anzi due che sputavano cemento notte e giorno. Della mia infanzia ricordo solo cieli e case grigie. Persino gli alberi del giardino erano grigi e nel fiume dove facevamo il bagno galleggiava un metro di schiuma. Eppure è stata un’infanzia felice, vissuta nel mondo globale di una società raccogliticcia forse ma proprio per questo più aperta e accogliente.
Siamo negli anni della ricostruzione tra il 1950 e il ’60 culminati poi con il boom economico. La fabbrica contava 12000 dipendenti e anche se i salari erano bassi, le garanzie di crescita e prosperità erano buone, oltre al fatto che esisteva una struttura sociale con enormi agevolazioni sulle abitazioni, sugli alimenti, gli svaghi, i cinema, le scuole pubbliche, gli ospedali, i ricoveri per gli anziani,la profilassi per il rachitismo e la tubercolosi. Tutto gratuito o quasi, compresa l’acqua, la luce e il telefono. Ma in fabbrica si muore anche; spesso c’erano incidenti di cui nessuno però parlava, come quando rischiammo di rimanere intossicati in un cinema per le esalazioni di Gamesano, un potente veleno usato come insetticida. Morti bianche rimaste nell’ombra di impenetrabili archivi segreti. Neppure io che ero la figlia di un alto dirigente ottenni il permesso di accedervi per la mia tesi di laurea sulla morbilità della fabbrica. La verità nuda e cruda che sia è che “non esiste la fabbrica che non inquina”. Tutte, chi più chi meno, producono scorie, residui pericolosi, liquami mefitici che rimangono nelle acque, filtrando nel terreno e avvelenando i raccolti e il bestiame. Già nel ’70 era diventato un obbligo fornire gli impianti inquinanti di depuratori, ma la legge veniva regolarmente disattesa e nulla o quasi è cambiato da allora. Ringrazio Dio e la saggezza degli italiani che hanno voluto fermare il nucleare con il referendum, anche se purtroppo siamo letteralmente circondati su tutto l’arco alpino dalle centrali francesi e company, perché, e lo dico con cognizione di causa per aver vissuto il problema sulla mia pelle, soltanto i residui emessi dal ‘normale funzionamento’ delle centrali atomiche, senza parlare degli incidenti, sono un cancro inestinguibile per secoli. Ma torno a dire con convinzione che le fabbriche pulite non esistono. Bisogna conviverci mettendo sulla bilancia pregi e difetti, scegliendo il male minore tra il lavoro e la vita.
Non riesco neppure a sorridere, perché c’è solo da piangere davanti alle pretestuose diatribe giuridico-governative sulla questione dell’Ilva di Taranto, quando già quarant’anni fa era impossibile attraversare la città per le polveri inquinanti. Ma dove stava tutta questa gente che ora grida allo scandalo? La verità senza ipocrisia è che l’Ilva garantiva posti di lavoro e di conseguenza voti. Tutto il resto era solo borotalco, un po’ puzzolente forse, ma innocuo. Volevano crederci tutti, operai compresi, per mandare avanti la baracca, quella che grazie alle politiche sconsiderate del dopoguerra, hanno insozzato un paese, distruggendo la sua ricchezza primaria, che avrebbe potuto portare benessere come e quanto le ciminiere. Solo oggi si parla di investire sul turismo culturale e ambientale, ma ormai è troppo tardi, almeno per Taranto, che era una città bellissima, come tante altre deturpate dai veleni, come l’arsenico e la diossina, o peggio ancora i metalli pesanti dei computer in rottamazione.
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