Nullità canonica e civile del matrimonio
La nullità canonica era stata dichiarata per esclusione unilaterale della prole da parte della moglie, dopo che i coniugi avevano convissuto per oltre vent’anni. La Corte si chiede se si possa riconoscere nello Stato italiano la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, quando i coniugi abbiano convissuto come tali per oltre un anno, nella fattispecie in questione vent’anni, e se tale sentenza produca effetti contrari all’ordine pubblico italiano, cioè a quanto stabilito in merito alla materia matrimoniale, ai requisiti richiesti per la validità del matrimonio e, d’altra parte, per la sua invalidità.
La Corte tenta di ricostruire un principio di ordine pubblico matrimoniale, che si ispiri alla disciplina delle invalidità per vizi o difetti del consenso la cui violazione impedirebbe il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche. Il principio è che la convivenza o coabitazione tra i coniugi “prolungata”, e quindi rivelatrice dell’esistenza di una comunione materiale e spirituale tra questi, vale come accettazione del rapporto che ne è seguito, incompatibile con la volontà di rimetterlo in discussione. Non solo la Corte interpreta la convivenza e la coabitazione come sinonimi, ma richiede, perché sussistano entrambe le situazioni, la realizzazione tra i coniugi di una vera e propria comunione materiale e spirituale che legittimerebbe la decadenza dalle azioni di nullità civilistiche. Non si fa riferimento ad una durata predefinita. Si richiede solo che la convivenza sia “prolungata”. La centralità della comunione materiale e spirituale tra i coniugi è confermata e rafforzata dalla legge n. 898 del 1970 e successive modifiche, che non consente al giudice di pronunciare lo scioglimento del matrimonio, o la cessazione degli effetti civili dello stesso, prima di aver accertato che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa essere mantenuta o riconosciuta per una delle cause espressamente previste (art. 1 della legge). Si può sostenere che la convivenza deve essere considerata ostativa al riconoscimento della sentenza di nullità canonica ogni volta che sia durata abbastanza da far ritenere effettivamente realizzata quella comunione materiale e spirituale. L’anno di convivenza o coabitazione ritenuto dal legislatore, nella maggior parte dei casi (ma non in tutti: l’art. 123 C.C. prevede la sola convivenza senza nessuna indicazione temporale), sufficiente a dimostrare la raggiunta “accettazione del rapporto” da parte dei coniugi e la prevalenza di questo sull’atto di matrimonio viziato, non deve essere considerato un termine vincolante: il giudice della delibazione dovrà valutare, caso per caso l’effettiva realizzazione di una comunione di vita che solo una convivenza “prolungata” esprime. Questa sentenza ha il merito di aver superato la logica della mera comparazione tra norma canonica e norma civile, tra incompatibilità relative e incompatibilità assolute, tra differenze accettabili e differenze non accettabili, tra specificità canoniche e maggiore disponibilità dello Stato, affermando la prevalenza dell’effettività del rapporto sull’atto di matrimonio inficiato da vizio o difetto del consenso. Tale sentenza rischia di vanificare, nei fatti, il riconoscimento della quasi totalità delle sentenze di nullità che, molto spesso, intervengono in relazione a situazioni di stabile convivenza anche prolungata nel tempo.
Cass., I sez., 20 gennaio 2011, n. 1343
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