Notturni nella Divina Commedia
Notturni nella Divina Commedia
un saggio di Aldo Onorati edito dalla Società Editrice Dante Alighieri
Prima della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, prima dei Notturni di Chopin, prima del ‘lirico’ notturno leopardiano del Sabato del villaggio, che segue alla famosa ‘sera’ del Foscolo, ci sono…i ‘notturni’, poetici e musicali insieme, di Dante.
Non che prima di lui la poesia classica non descrivesse ‘notturni’: basti pensare, per citarne solo uno, alla celebre immagine serale della prima Bucolica virgiliana (vv. 83-84: «et iam summa procul villarum culmina fumant, / maioresque cadunt altis de montibus umbrae»).
Aldo Onorati indaga, con la consueta perizia, familiare a chi lo segue, le magistrali immagini notturne – stupende anche quelle crepuscolari del Purgatorio –, di cui Dante ha costellato la sua Commedia.
Passo dopo passo, dall’Inferno al Paradiso, cantica, quest’ultima, dove, certo, le raffigurazioni notturne sono di necessità scarse, ovvero evocazioni, per similitudine, di immagini terrene, l’autore di questo saggio, chiaro e stimolante, pur nella sua breve densità, ci accompagna nelle poetiche tenebre dantesche.
Fin dai primi passi fuori dalla selva – ci fa riflettere Onorati – il poeta è capace di associare al paesaggio cupo dell’intrico privo di luce di essa uno stato d’animo di rincuorante speranza al chiarore del sole, di cui il pellegrino vede irraggiare il colle che lo incoraggia al cammino.
Ben prima, dunque, della poesia romantica, Dante riflette lo stato d’animo dell’osservatore in quello più o meno sereno dell’ambiente naturale circostante.
Onorati attualizza acutamente i passi danteschi esaminati, sottolineando quanto dovesse essere diversa l’esperienza visiva di Dante a questo proposito, anche solo per il fatto che a quei tempi non esisteva certo l’inquinamento luminoso artificiale e, dunque, le possibilità di osservare un cielo stellato erano assolute e non così limitate come sono il più delle volte le nostre.
Ancora, non è di poco conto la capacità di Onorati di condurci dal chiarore, tutto sommato ‘eccezionale’, del nobile castello del canto quarto dell’Inferno alla tanto diversa ‘scenografia’ – così la chiama l’autore – della pioggia di fuoco dei dannati contro natura; alle tenebre, rischiarate da fiammelle, del cerchio VIII, dove viene sottolineata la precisione ‘astrale’ di Dante, alla notte senza stelle, poco meno che buia, del trentunesimo canto, fino alla disperata oscurità, dell’animo e visiva, dei canti di Ugolino e alla cupezza del più profondo baratro dove regna sinistramente Lucifero.
Ma quel che più si apprezza del breve saggio di Onorati è l’accurata precisione nel condurci gradualmente – e sempre attraverso puntuali riferimenti testuali –, in un crescendo di luminosità, dalla più tenue luce del Purgatorio a quella assoluta del Paradiso, mentre ci illustra le caratteristiche dei personaggi immortali che man mano Dante delinea ai nostri occhi, da Catone Uticense al dramma personale di Buonconte all’apertura celeberrima del canto ottavo della seconda cantica alla gioia ‘preparadisiaca’ di Stazio.
Finché, con rapida ed efficace apertura, Onorati sottolinea lo straordinario cambio di scenario, che ci immette nell’accecante luminosità del Paradiso: «Nel regno della beatitudine è tutto luce, sempre più radiosa, fino allo splendore di Dio nell’Empireo, tanto che Dante, essendo ancora vivo, ha bisogno di interventi superiori per reggere l’abbagliante Motore del Creato». «Quindi» nota, ancora, giustamente, l’autore di questo saggio così originale nel suo genere «le descrizioni notturne sono pochissime, e dipendono dalle similitudini, non dalla realtà paradisiaca».
Niente di più vero, considerando l’esigenza assoluta che sempre ha Dante di rivestire di realtà – seppure per riferimenti non legati, stavolta, di necessità, all’ambientazione della terza cantica – le sue descrizioni, comprese quelle ‘ineffabili’, indicibili, del Paradiso.
Tant’è che uno dei ‘notturni’ in assoluto più belli dell’intera Commedia, riportato fedelmente e suggestivamente da Onorati, si trova proprio nel Paradiso, quando, con una «similitudine, dal respiro grandioso», Dante descrive l’approssimarsi a sé di Cacciaguida, ‘luce’ simile a quella delle stelle cadenti in una notte estiva.
E siccome proprio con la parola ‘stelle’ ogni cantica si chiude, non poteva mancare la stimolante notazione al riguardo – stimolante ‘al silenzio e alla riflessione’, come sostiene il saggista, anche se con una postilla un po’ amara di chiusura per noi ‘moderni’ – circa questa volontà di Dante di chiudere il ‘cerchio’ della perfezione assoluta del suo poema: «Le stelle sono una parola-chiave nel discorso dantesco. Non per niente ogni cantica termina con questo sostantivo. Oggi noi abbiamo tanti comfort, che nessuno si sognava al tempo dell’Alighieri, ma il firmamento, almeno in gran parte del globo, è scomparso o diminuito di numero e di splendore. Ogni medaglia ha il suo rovescio, e non si può avere tutto».
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento