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Uno sguardo di chi c’era  ‒ 4

Uno sguardo di chi c’era  ‒ 4
Settembre 12
10:38 2022

Uno sguardo di chi c’era  ‒ 4

 Gli anni ’70 non furono solo lutti e dolore, non furono solo gli anni della sconfitta e di tante morti assurde. Quegli anni non furono soltanto questo, ma uno spacco della storia che racchiude più vita di quanto non si creda, tanta vita e tanta passione.

 La legge 180 del 13 maggio 1978, nota come legge Basaglia – dal suo promotore Franco Basaglia – impone la chiusura dei manicomi e introduce il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi del CIM (Centro Igiene Mentale) poi confluiti nel Servizio Sanitario Nazionale.

“La  follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”.                                                          (Franco Basaglia)

Iniziò il processo di chiusura secondo i dettami della legge (applicata poco e male e solo in alcune realtà locali) che prevedeva lo svuotamento dei manicomi entro il 1980. Ma le cose andarono ben diversamente, con i manicomi aperti e funzionanti ancora per decine di anni e “residui manicomiali” difficili da collocare in mancanza dei servizi alternativi previsti, case alloggio e “appartamenti protetti”, realizzati solo come proforma e assolutamente insufficienti. In compenso sorsero ovunque cliniche private, costosissime e in tanti casi (poi accertati) inaffidabili, dove si praticavano ancora i vecchi metodi, spesso con risultati drammatici, a carico dell’utente. Si aprono inoltre studi di “esperti” del settore a cui ricorrono in tanti, afflitti da quel “male di vivere” che si propaga come un’epidemia. Un male di vivere che non trova spiegazioni, che non trova giustificazioni, per chi in passato ha superato mille difficoltà senza perdere la ragione.

Alienazione mentale, così viene pure definito il senso di estraneità e di malessere che pervade l’uomo moderno, macchina produttiva di una società all’arrembaggio che non consente defezioni.

Tirava ovunque un’aria di sospetto che faceva rintanare la gente, sempre più diffidente e spaesata. La sera, all’ora del telegiornale, la porta di casa si chiude e si lascia fuori il mondo con tutte le sue traversie, che filtrate dallo schermo TV colpiscono al pari di un brutto filmato. Ma chi ha i figli grandi la porta di casa l’accosta soltanto e resta in attesa del loro rientro.

I genitori hanno paura di rapportarsi con i figli, temono le loro reazioni rabbiose di fronte a un rimprovero, a un divieto: “vietato vietare” sembra essere diventata la nuova regola. Ma ciò che più temono i genitori è la minaccia da parte dei figli di andarsene di casa. Si sente parlare delle comuni, di gruppi di ragazzi che si organizzano in abitazioni di fortuna e si dividono tutto.

Una minaccia che mette l’angoscia, che finisce di indebolire l’autorità genitoriale, già traballante per i troppi colpi subiti. E i figli, arroccati nelle loro posizioni, non sembrano disposti a considerare punti di vista diversi dai loro, o a venire incontro per un accomodamento. Ma forse si è soltanto incapaci, da ambo le parti, di superare sbarramenti eretti troppo alla svelta e senza svincoli.

I ragazzi politicamente impegnati sono sempre in partenza, sacco a pelo e il maglione di papà, il Libretto rosso di Mao e le citazioni di Marx nello zaino assieme alla bottiglia dell’acqua. Dove vanno? Ovunque si ha bisogno di loro: nelle fabbriche occupate, alle manifestazioni di protesta, a fianco di chi sciopera, a sostegno di chiunque si dichiari contrario al sistema capitalistico.

Gli adulti, quasi legati a un ceppo, e tuttavia vacillanti nelle loro convinzioni messe così a dura prova, li guardano andare impossibilitati a impedirlo, desiderando forse trovarsi al loro fianco per una protesta tardiva contro tante ingiustizie subite anche a proprio carico, cui non hanno mai potuto  o saputo ribellarsi.

Le mamme si guardano attorno smarrite, cercando nelle stanzette troppo ordinate l’infanzia dei loro figli, scappata via troppo presto. La pentola sempre sul fuoco perché quando i ragazzi tornano sono sciupati, hanno fame, hanno bisogno di calore. Quando sono via si nutrono di scatolame, si lavano alle fontanelle pubbliche, dormono sul duro.

E intanto si vive all’erta.

Sulla politica di “riappropriazione” portata avanti da alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare, fondata sul carovita e sul basso reddito delle fasce popolari della società, si diffonde l’esproprio proletario il cui primo caso pare risalga agli inizi degli Settanta in un grande magazzino a Milano.

La spesa proletaria prende l’avvio su iniziativa dei Comitati di quartiere per  consentire alle famiglie disagiate di fare la spesa gratis nei supermercati. Si tratta inizialmente di spese alimentari e sono le donne, madri di famiglia, a provvedere, mentre i compagni del Comitato gestiscono il servizio d’ordine e la sicurezza.

S’intende così combattere le grandi catene commerciali e contrastare il fenomeno sempre più sfrenato del consumismo,  ma presto i presupposti saltano e si cominciano a “espropriare” negozi di abbigliamento e altri generi non strettamente necessari, spesso anche per iniziativa spontanea di gruppi di giovani che partono dai quartieri periferici semiorganizzati quasi alla conquista di un territorio, quello elegante e ricco del centro, che in un certo senso li alletta e li tradisce.

I ragazzi tendono a escludersi dalla cerchia familiare, preferendo ritrovarsi con i giovani che la pensano allo stesso modo e parlano lo stesso linguaggio, ma anche tra loro si verifica una spaccatura di vedute. Gli spazi cittadini, una volta comuni, vengono spartiti in un trinceramento che non è fatto solo di scelta di quartiere. Le piazze, da punto di socialità e d’incontro, diventano terreno fertile per lo smercio dell’eroina e luogo di raduno per condividere la triste esperienza degli stupefacenti.

Esplode il problema anche nei piccoli centri, e la prima reazione fu d’incredulità. Si potevano pestare ovunque siringhe e tamponi, nei giardinetti pubblici se ne potevano trovare a mucchi, ma era come se la realtà dei fatti non riuscisse a penetrare nella mentalità corrente, restia a prendere atto del nuovo e sconosciuto malanno.

Cominciano a muoversi in tante parrocchie giovani sacerdoti collegati a ospedali e centri di recupero, ai quali si uniscono gruppi di volontari per fronteggiare insieme una vera emergenza.

Si sentiva parlare di Vincenzo Muccioli e della Comunità di San Patrignano, e  altre comunità terapeutiche che proliferarono ovunque. E chi ‒ vivendo nella propria cerchia  il problema della droga ‒  se lo poteva permettere, preferiva allontanarsi dal proprio ambiente per non dovere affrontare anche il biasimo della gente, più incline alla facile condanna che a cercare di capire quel che stava capitando in tutta Italia.

Dalle minacce si passa ai fatti. Tanti ragazzi lasciano la famiglia e vanno a vivere in alloggi di fortuna, o mettono su una comune dove tutto deve essere “alternativo”, dall’arredamento al cibo alla convivenza.

La famiglia li segue come può, per quanto viene concesso dalla intransigenza dei figli, che non vogliono interferenze nelle loro scelte. Quasi scusandosi, le mamme s’intrufolano come topini per portare loro cibo e scarponcini per l’inverno, per essere almeno certe che avranno lo stomaco pieno e i piedi asciutti.

Questi ragazzi, per guadagnarsi una certa autonomia e affermare la loro adesione al proletariato, sono disposti a fare i lavori più umili, dagli spazzini ai lavapiatti, ai braccianti agricoli, alle pulizie a ore.

Intanto studiano – o almeno continuano a frequentare la scuola – e portano avanti le loro idee e la loro lotta, sempre più duri, sempre più compatti.

La tragedia di Ustica il 27 giugno 1980 in cui perdono la vita ottantuno persone, la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna con ottantacinque morti e duecento feriti, il terremoto dell’Irpinia il 23 novembre con circa tremila morti e migliaia di feriti, chiude un decennio che non si ama ricordare e resta tuttavia memorabile.

Gli anni ’70 non furono solo lutti e dolore, non furono solo gli anni della sconfitta e di tante morti assurde. Quegli anni non furono soltanto questo, ma uno spacco della storia che racchiude più vita di quanto non si creda, tanta vita e tanta passione.

Si trattò di ben altro che voltare pagina, si chiuse un capitolo e un altro se ne aprì tutto ancora da scrivere, e tanta carta bianca dava le vertigini. Ma il prezzo di quella “carta bianca”, per cui nessuno era forse preparato a dovere, fu certamente eccessivo e non concordabile. Un conto che rimane aperto e tra perdite e conquiste forse non deficitario, forse un accredito per investimenti futuri.

                                                                     (prosegue)

 Foto di Michele Concilio

Uno sguardo di chi c’era – Annotazioni sulla nostra storia recente fra cronaca e memoria ‒ 1 | Notizie in Controluce

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