La concezione del
mondo in Verga
(David Salvi) - Alla base della visione del mondo di Verga
c’è un profondo pessimismo: la società è dominata dal meccanismo crudele
della ‘lotta per la
vita’,
per cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. La
generosità disinteressata, l’altruismo, la pietà non trovano posto nella
realtà, gli uomini sono mossi dall’interesse individuale e dalla volontà
di sopraffare gli altri. Questa, secondo Verga, è una legge di natura
universale che governa qualsiasi società, in ogni tempo e luogo, sia umana
che animale che vegetale. In quanto legge di natura è immodifìcabile,
perciò non ci sono alternative alla realtà presente, né nel futuro, nella
realizzazione di una società più giusta, né nel passato, nel tornare a
forme superate dal mondo moderno, né nel trascendente.
Influenzato dal determinismo naturalistico, Verga vede il progresso come
evoluzione e l’ordine sociale come ordine naturale. Manca la fiducia
romantica nella storia e nell’uomo che può costruirla e determinarla. Il
suo è un radicale antistoricismo. La vita umana è come quella animale, non
conosce mutamenti ma ripetizioni anche perché l’evoluzione è lenta e
graduale e non ammette salti. È dunque illusorio pensare di poter mutare
stato: bisogna rassegnarsi e accettare l’ordine esistente: una tassa
ingiusta non è diversa da un cattivo raccolto: è inutile protestare, è
meglio lavorare di più per pagarla. Questa è la filosofìa di padron ‘Ntoni
ma anche di Alfio, Mena, Nunziata, ne ‘I Malavoglia’, racchiusa nel
proverbio ‘meglio contentarsi che lamentarsi’. 0Ne ‘I Malavoglia, il
tentativo di mutare stato da parte di ‘Ntoni o del nonno (il commercio di
lupini, la vendita delle acciughe rimandata ad Ognissanti) viene punito
con il fallimento. La subordinazione alla durezza della legge naturale
impone la rinuncia, di per sé eroica: rinuncia all’amore, alla giovinezza,
al desiderio, perfìno agli affetti stessi della famiglia. I grandi
protagonisti del romanzo possono affermare se stessi solo negandosi e
scegliere il proprio destino solo scegliendo eroicamente i modi per la
propria sconfìtta. È così per padron ‘Ntoni che si fa portare all’ospizio,
ma anche per Mena che rinuncia ad Alfìo e per ‘Ntoni che sceglie
l’emarginazione e la perdita d’identità. ‘Ntoni incarna le forze
disgregatrici della modernità. Dal suo primo apparire evidenzia una
personalità complessa e contraddittoria, oscillante tra egoismo e
fannullaggine e buon cuore, tra impulsi di rivolta e generosità,
ribellione romantica all’ambiente: ‘perché sono tornato soldato?’ e
riconoscimento delle proprie radici ‘è una bella cosa tornare a casa’.
Ntoni esprime i turbamenti di una generazione ancora romantica stretta tra
ribellione e accettazione dell’ordine, adesione a un mondo di ideali e
rinuncia ad essi in nome della logica economica e della cultura
positivistica che la impone. Lo scontro padron ‘Ntoni /’Ntoni allude al
rapporto di continuità/rottura, affinità/differenza che contrappone padre
e figlio, ma, oltre ad avere un valore simbolico, ne ha uno ideologico
culturale basato sulla possibilità o opportunità di mutare stato e se
assumere o no la condizione degli animali come modello di vita.
Padron ‘Ntoni, come Mena, prende a modello le formiche e la passera che
torna sempre nello stesso nido. ‘Ntoni, al contrario, non vuole essere una
passera e respinge la vita immobile della natura con il suo ritmo ciclico
che, invece, affascina il nonno, Mena e Alessi. Avendo conosciuto il
progresso delle grandi città, non considera le leggi sociali come quelle
naturali: una tassa non è come un cattivo raccolto. Si scontrano, dunque,
due diverse concezioni del mondo: una ispirata a un darwinismo sociale che
vede la società specchio della natura e invita ad un’accettazione
fatalistica della lenta evoluzione naturale, l’altra romantica. ‘Ntoni
sceglie dunque la città, il progresso e il fallimento è già implicito a
priori nella partenza. Al ritomo diventa il mantenuto della Santuzza e la
sua degradazione ad animale viene scandita con metafore e similitudini con
maiali e cani: prima è un ‘cane grasso’ e ‘unto’, poi ‘un cane rognoso’,
infine ‘un cagnaccio da strada’. Anche il rapporto con il nonno viene
rovesciato: cessa di vergognarsi per la sua condotta e non ne teme i
rimproveri ma, con un discorso disperato in cui denuncia l’assurdità della
fatica quotidiana, scuote le certezze del vecchio. Alla fine estraneo alla
famiglia, emarginato dal paese e cacciato dalla Santuzza, entra nel
contrabbando. ‘Ntoni è il simbolo dell’escluso, è l’eroe problematico de
‘I Malavoglia’ e ne determina il messaggio conclusivo: la salvezza è
possibile solo al riparo del tempo etnologico in cui si muove Alessi,
nell’ideale dell’ostrica, ma è una salvezza a cui l’uomo moderno, ‘Ntoni
ma anche Verga, non può che dare l’addio. Il percorso di ‘Ntoni viene
continuato da Gesualdo il quale non conserva niente del tradizionale
immobilismo della realtà arcaico-rurale,è l’esponente più tipico della
logica economica del moderno e del self-made man.
Secondo Verga la lotta per la ‘roba’ non è che un aspetto della lotta per
la vita e ognuno deve combatterla da solo, ma essa condanna ad una
vigilanza costante, a una perenne alienazione da se stessi e dagli
affetti. Il controllo dei sentimenti con la razionalità economica è
possibile solo attraverso una devastazione ulteriore che finisce per
rendere impossibile proprio quella autorealizzazione che l’arrampicatore
sociale si propone. Questa è la morale del romanzo che contrasta con la
filosofìa della vita che, all’inizio, Gesualdo espone a Diodata: ‘ognuno
si fa con le proprie mani il proprio destino, c’è chi è abile e
intelligente e perciò diventa ricco e chi invece è inetto, come il
fratello Santo, e dunque non ha nulla’. Se da una parte ‘la roba’ è
condizione necessaria per autorealizzarsi, dall’altra la logica di essa
impone scelte che rendono impossibile tale autorealizzazione. Al suo
interno non c’è possibilità né di felicità né di salvezza. Il risvolto
negativo del successo economico si misura nel privato, infatti, pur
essendo affezionato a Diodata, la sua serva amante, da cui ha avuto due
figli, Gesualdo sposa Bianca, per ottenere l’appoggio dei parenti di lei,
i nobili del paese, per i suoi affari. Ma il matrimonio accentua la sua
solitudine perché finisce con l’essere estraneo sia alla classe a cui
appartiene che a quella della moglie che non gli perdona le sue origini.
Le delusioni affettive gli fanno lentamente percepire l’inutilità della
fatica e a mettere in discussione la logica economica che ha regolato le
sue scelte: il matrimonio è stato un affare sbagliato, l’educazione della
fìglia, per farne una signora, l’ha allontanata da lui e spinta a
vergognarsi del padre, i fratelli mirano a degradarlo, i figli avuti con
Diodata lo odiano, il padre nutre rancore nei suoi confronti. Dalla lotta
epica per la roba, dunque, Gesualdo ha ricavato solo odio, amarezza e
dolore che si concretizza in un cancro allo stomaco e muore nella più
completa solitudine. La sua morte dimostra l’assurdità della fatica
produttiva e dell’accumulo capitalistico, la corsa verso la roba è una
corsa verso il nulla: la morte giunge inevitabile. (continua) |