“Dialoghi con il muro”
(Caterina Rosolino) - Nell’ambito della rassegna
cinematografica che ha avuto luogo presso il cinema Tibur a Roma, è stato
proiettato il film-documentario “Il muro” della regista Simone Bitten,
marocchina con cittadinanza francese, per metà araba e per metà ebrea. Il
film ha riscosso numerosi riconoscimenti.
Notizie sul muro.
La lavorazione del film è cominciata nel 2002 durante l’inizio della
costruzione del muro che dovrebbe venire ultimata entro la fine di quest’anno.
A nulla è valsa la sentenza, senza obbligo d’esecuzione, della Corte
Internazionale di Giustizia che ha dichiarato illegittima la costruzione
del muro. Il rapporto dell’Onu dello scorso luglio denuncia il muro di
Israele come un tentativo di annessione di “sostanziose porzioni” dei
territori palestinesi, vero e proprio “atto illegale di conquista”. John
Dugard, relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani, dice
chiaramente che ciò rappresenta una violazione della carta dell’Onu e
della quarta convenzione di Ginevra. Il gigantesco muro di circa 640
chilometri, alto 8 metri e largo 50 metri, è la più grande opera
d’ingegneria mai fatta dagli Israeliani. I 50 metri di larghezza
comprendono varie recinzioni di filo spinato, un fossato e delle strade
dove fanno avanti e indietro le guardie israeliane. Inoltre il muro è
dotato di un sistema elettronico che avvisa se qualcuno arriva a
scavalcarlo e vi sono un gran numero di video camere e torri di controllo.
L’esorbitante somma per la costruzione di questo muro è di circa
1.280.000.000 dollari. Recente è la notizia sul finanziamento della Banca
Mondiale per la costruzione del muro.
Recensione del film “Il muro” di Simone Bitten.
Il film inizia con un episodio che suscita un’importante riflessione.
Mentre la regista riprende il muro pitturato di disegni colorati, le si
avvicinano dei bambini. La regista domanda loro come fanno a riconoscere
un arabo da un ebreo: “dalla lingua” rispondono, ma subito dopo una
bambina ebrea dice che sua madre è marocchina e parla arabo ma non in
casa. Già questa mescolanza ci fa capire quanto una netta separazione
delle due etnie non sia realisticamente possibile. Possiamo stabilire una
vicinanza tra queste facendo riferimento anche alle origini della loro
storia. E’ piuttosto difficile separare l’etnia degli Ebrei e degli Arabi.
Erano entrambi due popoli semiti. Secondo la Bibbia, il nome Ebreo
discenderebbe da Eber, a sua volta discendente da Sem figlio di Noè (il
capostipite dei popoli semiti) e antenato di Abramo, il comune patriarca
delle due religioni: dell’ebrea, che sarebbe discesa da Isacco figlio di
Abramo e di Sara, e della musulmana che secondo Maometto sarebbe discesa
da Ismaele figlio dello stesso Abramo e di un’altra moglie alla quale il
patriarca si era unito su consiglio della stessa Sara. Il testo biblico
stabilisce così una parentela strettissima fra ebrei e arabi musulmani.
Questa riflessione sull’identità può inserirsi nel discorso più generale
sul genere umano. Infatti, al di là delle differenze etniche, culturali,
linguistiche, religiose e razziali, tutti gli uomini hanno uno stesso
genoma. Se anche esistono delle differenze come dice Moni Ovadia:
“l’incontro di diversità genera una nuova vita”. Il muro invece è
espressione della paura dell’altro, e l’incontro mancato genera morte e
distruzione del sé. Così, come dice un uomo israeliano nel film, prima di
tutto “gli israeliani stanno costruendo la loro prigione”. Quest’uomo non
è il solo a esprimere il suo scetticismo riguardo la costruzione del muro.
Tutti gli uomini intervistati nel film, israeliani e palestinesi, danno
un’opinione negativa della folle opera. Un palestinese che ha sette figli
dice di essere riuscito a mandarli tutti all’università lavorando la sua
terra, adesso il muro gli toglierà la terra e sarà costretto a cercare di
campare altrove. Un israeliano racconta la storia che ha permesso ad
alcuni israeliani di avvicinarsi ad altri palestinesi: un ragazzo
palestinese di Hebla ha salvato due bambini israeliani che stavano
annegando nel fiume e poi è annegato. In seguito a ciò si sono stabiliti
dei rapporti tra alcuni palestinesi ed israeliani che però, a causa del
muro, possono oggi andare avanti solo attraverso la comunicazione
telefonica! Un israeliano recita una poesia di Rachele: “Ho chiuso le
porte del mio cuore. Ho gettato le chiavi nel mare. Non avrò più timore
sentendo i tuoi passi che si avvicinano verso me. L’unica consolazione che
mi rimane è di sapere che sono io la causa del mio dolore”. Così, dice,
anche l’ultima consolazione degli israeliani è quella di sapere che sono
responsabili della loro morte. Dice che si stanno suicidando volendo
portare con sé i palestinesi. Questa lettura è profondamente diversa da
quella che dà il suo connazionale Amos Yaron, direttore generale del
Ministero della Difesa israeliano, incaricato del progetto. A differenza
dell’israeliano il ministro afferma che il muro e il perdurare del
conflitto è tutta colpa dei palestinesi. Yaron è seduto dietro una
scrivania, incorniciato da due bandiere israeliane, e snocciola
freddamente le ragioni di un muro che dovrebbe proteggere gli ebrei dai
terroristi palestinesi e dai furti d’auto e dei trattori agricoli. Alla
domanda se il muro segue il percorso della linea verde risponde
evasivamente: “sì in parte”. In realtà il muro entra in territori non
previsti dal percorso della linea verde, annettendo aree palestinesi.
Tutto il film è stato girato registrando le voci delle persone che
dialogano con la regista senza mostrare quasi mai il loro volto. Questo
con l’intenzione di accostare alla posizione degli israeliani e
palestinesi che intervengono quella della stessa regista. Inoltre la
contrapposizione tra quelle voci e le immagini del muro e delle macchine
che scavano e alzano enormi blocchi, dà una sensazione maggiore di vanità
e fragilità di quelle opinioni innanzi alla schiacciante ed inevitabile
presenza del muro. Alla fine del film l’unico volto, oltre a quello di
Yaron, che viene ripreso dalla prima all’ultima parola dell’intervista è
quello dello psichiatra che si trova nella striscia di Gaza. La Bitten è
ricorsa alla video-conferenza per poter parlare con lui. Così le uniche
persone che ci vengono mostrate, si trovano all’interno dello spazio
delimitato da un televisore (lo psichiatra) o da una scrivania e due
bandiere (il ministro della difesa israeliano): l’unica esistenza che
riesce ad affermarsi è quella “soffocata” entro dei confini chiusi! Lo
psichiatra stesso dice “Forse l’unica maniera che noi ebrei conosciamo per
risolvere i problemi è quella di rinchiudere noi stessi o gli
altri.” Simone Bitten replica a questa frase: “I miei genitori non hanno
conosciuto che questo tipo di vita e perciò ho tremato quando ha detto
questa cosa. Questo muro è proprio il sintomo di una malattia, della
malattia di cui soffrono gli ebrei.” Quale malattia? Durante l’intervista
con lo psichiatra la Bitten gli chiede se è pazza sentendosi allo stesso
tempo ebrea e araba, lo psichiatra risponde che ad essere pazzi sono
quelli che credono il contrario… |