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Sommario anno XIV numero 4 - aprile 2005

 SPETTACOLI

“Dialoghi con il muro”
(Caterina Rosolino) - Nell’ambito della rassegna cinematografica che ha avuto luogo presso il cinema Tibur a Roma, è stato proiettato il film-documentario “Il muro” della regista Simone Bitten, marocchina con cittadinanza francese, per metà araba e per metà ebrea. Il film ha riscosso numerosi riconoscimenti.
Notizie sul muro.
La lavorazione del film è cominciata nel 2002 durante l’inizio della costruzione del muro che dovrebbe venire ultimata entro la fine di quest’anno. A nulla è valsa la sentenza, senza obbligo d’esecuzione, della Corte Internazionale di Giustizia che ha dichiarato illegittima la costruzione del muro. Il rapporto dell’Onu dello scorso luglio denuncia il muro di Israele come un tentativo di annessione di “sostanziose porzioni” dei territori palestinesi, vero e proprio “atto illegale di conquista”. John Dugard, relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani, dice chiaramente che ciò rappresenta una violazione della carta dell’Onu e della quarta convenzione di Ginevra. Il gigantesco muro di circa 640 chilometri, alto 8 metri e largo 50 metri, è la più grande opera d’ingegneria mai fatta dagli Israeliani. I 50 metri di larghezza comprendono varie recinzioni di filo spinato, un fossato e delle strade dove fanno avanti e indietro le guardie israeliane. Inoltre il muro è dotato di un sistema elettronico che avvisa se qualcuno arriva a scavalcarlo e vi sono un gran numero di video camere e torri di controllo. L’esorbitante somma per la costruzione di questo muro è di circa 1.280.000.000 dollari. Recente è la notizia sul finanziamento della Banca Mondiale per la costruzione del muro.
Recensione del film “Il muro” di Simone Bitten.
Il film inizia con un episodio che suscita un’importante riflessione. Mentre la regista riprende il muro pitturato di disegni colorati, le si avvicinano dei bambini. La regista domanda loro come fanno a riconoscere un arabo da un ebreo: “dalla lingua” rispondono, ma subito dopo una bambina ebrea dice che sua madre è marocchina e parla arabo ma non in casa. Già questa mescolanza ci fa capire quanto una netta separazione delle due etnie non sia realisticamente possibile. Possiamo stabilire una vicinanza tra queste facendo riferimento anche alle origini della loro storia. E’ piuttosto difficile separare l’etnia degli Ebrei e degli Arabi. Erano entrambi due popoli semiti. Secondo la Bibbia, il nome Ebreo discenderebbe da Eber, a sua volta discendente da Sem figlio di Noè (il capostipite dei popoli semiti) e antenato di Abramo, il comune patriarca delle due religioni: dell’ebrea, che sarebbe discesa da Isacco figlio di Abramo e di Sara, e della musulmana che secondo Maometto sarebbe discesa da Ismaele figlio dello stesso Abramo e di un’altra moglie alla quale il patriarca si era unito su consiglio della stessa Sara. Il testo biblico stabilisce così una parentela strettissima fra ebrei e arabi musulmani. Questa riflessione sull’identità può inserirsi nel discorso più generale sul genere umano. Infatti, al di là delle differenze etniche, culturali, linguistiche, religiose e razziali, tutti gli uomini hanno uno stesso genoma. Se anche esistono delle differenze come dice Moni Ovadia: “l’incontro di diversità genera una nuova vita”. Il muro invece è espressione della paura dell’altro, e l’incontro mancato genera morte e distruzione del sé. Così, come dice un uomo israeliano nel film, prima di tutto “gli israeliani stanno costruendo la loro prigione”. Quest’uomo non è il solo a esprimere il suo scetticismo riguardo la costruzione del muro. Tutti gli uomini intervistati nel film, israeliani e palestinesi, danno un’opinione negativa della folle opera. Un palestinese che ha sette figli dice di essere riuscito a mandarli tutti all’università lavorando la sua terra, adesso il muro gli toglierà la terra e sarà costretto a cercare di campare altrove. Un israeliano racconta la storia che ha permesso ad alcuni israeliani di avvicinarsi ad altri palestinesi: un ragazzo palestinese di Hebla ha salvato due bambini israeliani che stavano annegando nel fiume e poi è annegato. In seguito a ciò si sono stabiliti dei rapporti tra alcuni palestinesi ed israeliani che però, a causa del muro, possono oggi andare avanti solo attraverso la comunicazione telefonica! Un israeliano recita una poesia di Rachele: “Ho chiuso le porte del mio cuore. Ho gettato le chiavi nel mare. Non avrò più timore sentendo i tuoi passi che si avvicinano verso me. L’unica consolazione che mi rimane è di sapere che sono io la causa del mio dolore”. Così, dice, anche l’ultima consolazione degli israeliani è quella di sapere che sono responsabili della loro morte. Dice che si stanno suicidando volendo portare con sé i palestinesi. Questa lettura è profondamente diversa da quella che dà il suo connazionale Amos Yaron, direttore generale del Ministero della Difesa israeliano, incaricato del progetto. A differenza dell’israeliano il ministro afferma che il muro e il perdurare del conflitto è tutta colpa dei palestinesi. Yaron è seduto dietro una scrivania, incorniciato da due bandiere israeliane, e snocciola freddamente le ragioni di un muro che dovrebbe proteggere gli ebrei dai terroristi palestinesi e dai furti d’auto e dei trattori agricoli. Alla domanda se il muro segue il percorso della linea verde risponde evasivamente: “sì in parte”. In realtà il muro entra in territori non previsti dal percorso della linea verde, annettendo aree palestinesi. Tutto il film è stato girato registrando le voci delle persone che dialogano con la regista senza mostrare quasi mai il loro volto. Questo con l’intenzione di accostare alla posizione degli israeliani e palestinesi che intervengono quella della stessa regista. Inoltre la contrapposizione tra quelle voci e le immagini del muro e delle macchine che scavano e alzano enormi blocchi, dà una sensazione maggiore di vanità e fragilità di quelle opinioni innanzi alla schiacciante ed inevitabile presenza del muro. Alla fine del film l’unico volto, oltre a quello di Yaron, che viene ripreso dalla prima all’ultima parola dell’intervista è quello dello psichiatra che si trova nella striscia di Gaza. La Bitten è ricorsa alla video-conferenza per poter parlare con lui. Così le uniche persone che ci vengono mostrate, si trovano all’interno dello spazio delimitato da un televisore (lo psichiatra) o da una scrivania e due bandiere (il ministro della difesa israeliano): l’unica esistenza che riesce ad affermarsi è quella “soffocata” entro dei confini chiusi! Lo psichiatra stesso dice “Forse l’unica maniera che noi ebrei conosciamo per risolvere i problemi è quella di rinchiudere noi stessi o gli altri.” Simone Bitten replica a questa frase: “I miei genitori non hanno conosciuto che questo tipo di vita e perciò ho tremato quando ha detto questa cosa. Questo muro è proprio il sintomo di una malattia, della malattia di cui soffrono gli ebrei.” Quale malattia? Durante l’intervista con lo psichiatra la Bitten gli chiede se è pazza sentendosi allo stesso tempo ebrea e araba, lo psichiatra risponde che ad essere pazzi sono quelli che credono il contrario…

 SPETTACOLI

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