Il pozzo della Rocca di Orvieto – 1
(Piercarlo D’Angeli) - Non sempre una espressione artistica
rivela a prima vista il suo vero significato; in molti casi dietro un
primo livello di conoscenza si celano riferimenti intellettuali legati a
tradizioni accessibili solo alla cultura dell’ epoca in cui è stata
concepita.
Dipinti, sculture e architetture che sino a ieri credevamo di conoscere a
fondo si rivelano spesso metafore e allusioni che traggono ispirazione da
un repertorio di simboli di cui non sempre siamo in grado di recepire i
significati reconditi..
Avvalendomi di una certa dimestichezza coi principali trattati di
emblematica rinascimentale vorrei proporre alla luce di alcuni documenti
iconografici poco noti una ipotesi interpretativa del Pozzo della Rocca di
Orvieto che a mio giudizio non esclude un atteggiamento emblematico ed
ermetico del suo ideatore. Prima di far questo credo sia opportuno
tracciare un breve profilo storico del Pozzo per mettere in evidenza il
significato che questo tipo di architettura ha assunto ed il ruolo che ha
svolto nelle antiche culture.
Considéré de bas en haut, c’est une lunette
Astronomique géante, braquée du fond
Des entrailles de la terre sur le pòle céleste.
Ce complexe réalise une echelle du salut
Reliant entre eux le trois étages du monde.
(de
Champeaux, dom Sterckx, Introduction an monde des Symboles).
Riflesso speculare della torre che si innalza verso il cielo, il
pozzo da sempre ha partecipato del valore simbolico di asse cosmico, cioè
di collegamento diretto a congiungere i tre stadi del mondo. Penetrando
come un fallo o un seme nelle viscere della terra esso istituiva un
contatto diretto con la Magna Mater.
Nel mondo orientale infatti, la fecondazione della Madre Terra ad opera
delle divinità trovò singolare espressione nei pozzi profondi delle torri
Mesopotamiche, scavati all’interno per realizzare un filo diretto tra la
volta celeste ed il mondo sotterraneo..
Nella sfera culturale etrusca invece il rito propiziatorio che precedeva
la fondazione di una città o la costruzione di un tempio, iniziava con la
escavazione nel terreno ancora vergine o nella roccia del Mundus, un
pozzetto circolare che serviva a consacrare una sorta di altare alle
divinità infernali e a quelle della fertilità, e a stabilire una via di
comunicazione diretta con le tenebre.
Per
gli Ebrei e più tardi per i Cristiani, il Pozzo finì per identificarsi con
l’acqua simbolo di abbondanza e sorgente di vita. In prossimità dei pozzi
e delle sorgenti del deserto, luoghi di gioia e di ristoro, si svolsero
gli incontri più significativi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Presso
il pozzo di Aran Rebecca incontrò Eliezer, inviato da Abramo a cercare la
futura moglie di Isacco. Al pozzo da cui attinsero per bere Rachele,
Giacobbe, i suoi figli e il bestiame Gesù offrendo l’acqua viva: bevanda
di vita e di insegnamento, si volse alla samaritana dicendo:”chi berrà la
mia acqua non avrà più sete in eterno; essa diverrà in lui sorgente
zampillante”.
Nella tradizione Cristiana l’acqua della vita si presenta, dunque, come un
simbolo cosmogonico; essa purifica, guarisce, rigenera, e introduce
all’Eterno. Gregorio di Nissa, uno dei più grandi teologi della Chiesa
orientale a tale proposito sosteneva che a differenza dei pozzi scavati
dagli uomini che contengono acqua stagnante, il pozzo di Cristo è il vero
pozzo di acqua viva: il solo che possiede la profondità del pozzo e le
acque la mobilità del fiume.
Sali , o pozzo; a lui cantate!
Pozzo, che i principi hanno scavato,
che i grandi del popolo hanno aperto
con lo scettro e coi loro bastoni.
Numeri
21,17
Con questo inno, ad una tappa del lungo viaggio attraverso il deserto, il
popolo d’Israele cantò la gloria del pozzo, ringraziando il Signore per
aver concesso ancora una volta acqua abbondante.
Ad un altro episodio biblico nel quale si racconta che Mosè percuotendo
con una verga la roccia fece scaturire l’acqua per dissetare il popolo,
venne tradizionalmente collegata la costruzione del pozzo di Orvieto. Ut bibat populus fu infatti il motto che Clemente VII, novello Mosè, fece
imprimere da Benvenuto Cellini sul rovescio di una medaglia incisa per
commemorare il ritorno dell’acqua, scaturita come per miracolo dalla
roccia orvietana. (fig 1)
A questo punto occorre fare un breve cenno ad alcuni importanti
avvenimenti accaduti nel terzo decennio del XVI secolo. Con l’entrata a
Roma dei Lanzichenecchi, scesi al seguito di Carlo V, il pontefice
miracolosamente scampato al sacco della città (1527), lasciò in fretta e
furia Castel Sant’Angelo e si rifugiò nel Palazzo Apostolico di Orvieto.
Durante il soggiorno venne a conoscenza dello stato di degrado in cui
versava l’acquedotto medievale dell’Alfina e dei disagi arrecati alla
popolazione dalla carenza di acqua. Per ovviare all’inconveniente che
avrebbe potuto compromettere le sorti della città e mettere a rischio la
sua incolumità in caso di assedio, ordinò che si costruissero quattro
cisterne e che venisse scavato un pozzo (1528) presso i bastioni della
fortezza dell’Albornoz, in un punto strategico compreso tra la rupe e il
fossato. Il compito di redigere il progetto e di seguire i lavori della
costruzione venne affidato ad Antonio da Sangallo il Giovane, architetto
fiorentino impegnato in quegli anni al rinnovamento del palazzo apostolico
della città e al completamento della fortezza da Basso a Firenze.
“Tutto in pietra…largo venticinque braccia con due scale a chiocciola
intagliate nel tufo l’una sopra l’altra…” il Pozzo comportò uno scavo
profondo 255 palmi che venne arginato per metà con il tufo e per metà con
30.000 mattoni. “…Cosa ingegnosa, di capriccio e di meravigliosa
bellezza…” come ebbe a definirla Vasari nel suo trattato
sull’Architettura, l’opera presentava un carattere insolito e quanto mai
originale dal momento che “…la salita è per una scala deversa dalla
discesa; poiché due sono le scale montate a spira intorno al vuoto del
pozzo, per le quali possono passare senza incontrarsi quei che salgono con
quei che discendono”.
Il Sangallo che in altre occasioni aveva dato prova di saper unire a un
senso pratico per l’architettura fantasia e genialità nella ricerca di
nuove soluzioni, anche in questo caso non rinunciò a dare dimostrazione
delle sue qualità ideando un’architettura che al di là delle ardite
soluzioni lascia intravedere intenzioni e caratteri di ben altra portata.
A questo punto occorre sciogliere le riserve iniziali e chiarire i motivi
che hanno indotto ad una lettura per certi versi così particolare ed
angolata di un’opera tra le più complesse realizzate dall’architetto. Mi
riferisco in particolare ad un sonetto enigmatico dei primi anni del
seicento, a firma del poeta toscano Francesco Ghezzi, rinvenuto dal Perali
nell’archivio Gadoli di Orvieto, che conferma certe mie impressioni, e
consente una lettura del pozzo alla luce dell’imagerie del tempo. ( fig.2)
Due gran serpenti avviluppati insieme
Stan dentro una città, non in foresta;
vanno sotterra con sue code estreme
e d’essi n’esce fuori una sol testa.
Questa ha ghirlanda in sue chiome supreme,
il capo è vuoto qual corbello o cesta,
ha due gran bocche e niuna d’esse freme;
queste i due draghi l’un all’altro presta.
Fanno ambi un mostro tal che niun l’abborre;
ma in bocca va del primo ognun festante
e per la coda gli esce, e poi ne corre
Per la coda dell’altro alla sua bocca;
ma pria, nel ventre ammira bocche tante
quand’alza gli occhi al cielo e l’acqua tocca |