Limiti
della democrazia
(Claudio Comandini) - Se Marx affermava che la democrazia
nasconde la dittatura della borghesia, e quindi il perpetuarsi di una
situazione di sfruttamento, Habermas ha puntualizzato che con il voto i
cittadini confermano scelte già fatte, sostanzialmente decise da poteri
monopolistici. Democrazia e sistema elettorale mostrerebbero quindi alcuni
limiti: limite deriva dal latino limes, che significa confine, condizione,
termine, e anche mèta; se pretende di contenere e definire, la parola
sembra appropriata a indicare sostanzialmente linee che si spostano, cioè
realtà caratterizzate da trasformazioni, da vincoli quanto da conflitti:
quindi critiche, e suscettibili di critica.
Una della posizioni più critiche rispetto ai limiti del suffragio
universale, del sistema dei partiti, e della stessa sovranità popolare
derivata dalla Rivoluzione Francese, è formulata da Jean Paul Sartre (Ribellarsi è
giusto, 1974): “il suffragio universale è un’astuzia
del potere borghese per sostituire una legalità alla legittimità dei
movimenti popolari e della democrazia diretta”. In questo contesto il
voto si riduce a “un simulacro liturgico della presunta volontà
generale”, ad un rituale scarsamente rappresentativo.
Mentre globale e locale trasformano funzioni e relazioni, il ruolo dei
“movimenti popolari” e le istanze di “democrazia diretta” sembrano
fuoriuscire dalla politica, che diventa sempre più “spettacolare” e
“liturgica”, come già evidenziava Guy Debord (La società dello
spettacolo, 1967). Per precisare il discorso nell’attualità, a Baghdad
si può osservare la realizzazione forzata di elezioni in un paese
occupato militarmente e in continua e inarrestabile sommossa; a
Grottaferrata lo svolgimento di elezioni “primarie” dove i cittadini
scelgono i loro candidati sindaci, anomalo rispetto alle pratiche del
contesto, organizzato dal senatore di centrosinistra Bordon in
contrapposizione ai suoi compagni di coalizione, ambiguamente avvicinato
da elementi della destra populista. La partecipazione viene ad essere
indubbiamente condizionata delle circostanze, che ne parzializzano sia
risposta che risultati, mettendo perlopiù in evidenza conflitti ed
inadeguatezze, in tutte e due le località: in tutti e due i casi
l’esito è puramente convenzionale, la rappresentatività è palesemente
falsata, e la effettive esigenze di una popolazione sono corrisposte con
eccessiva approssimazione, con strumenti non appropriati.
Infatti, a Baghdad il compromesso di maggioranza fra la minoranza
religiosa sciita (che in Iran è maggioritario ed è al governo dal 1979)
e la minoranza etnica kurda (la cui provincia è autonoma sotto protezione
americana dal 1991) si trova di fronte le infinite difficoltà determinate
da un contesto di guerra, in una zona “strategica” per giacimenti e
confini, mentre la maggioranza sunnita continua a tenersi fuori dalla
“partita”. Al di là dei falsi trionfalismi mediatici, le elezioni in
Iraq hanno avuto ampi fallimenti (specie al nord), ed un Gorbagiov le ha
definite come “offesa alla democrazia e cosa priva di senso comune”.
(La Stampa, 7.12.2005).
Invece, a Grottaferrata, quello che nonostante le altisonanti intenzioni
si riduce ad un “sondaggio di popolarità” privo di efficacia,
paradossalmente “calato dall’alto” proprio mentre pretendeva di
dover “partire dal basso”, servirà sostanzialmente ad equilibrare i
contrappesi delle relazioni politiche più influenti, notevoli in un
territorio come quello dei Castelli Romani che come serbatoio di voti
rappresenta una vera e propria “ghiottoneria elettorale”. I limiti
degli strumenti democratici sembrano essere non solo teorici, ma anche procedurali, comportando ampie difficoltà nel definirne la
legittimazione
e i modi.
Per mettere meglio a fuoco, cambiamo prospettiva, e allarghiamo la
visuale: ampliamone i limiti. Poco prima del Nuovo Ordine Mondiale, il
filosofo marocchino Abdallah Larui (Islam e Modernità, 1987) sollecitava
un incontro fra Islam e Occidente capace di rompere sia gli esclusivismi
culturali e religiosi che i monopoli economici. Seppur in ritardo, andiamo
quindi ad incontrare alcuni gruppi che contribuirono alla Rivoluzione
Islamica in Iran del 1979. I Mojadin ad esempio vedevano nella società
senza classi uno dei riflessi dell’unità di Allah, derivando quindi la
loro comunista visione della democrazia dall’uguaglianza religiosa di
tutti gli uomini, rifiutando inoltre l’idea della rappresentanza
partitica, così come l’Islam non conosce un clero come quello
cristiano. Invece gli sciiti duodecimani, il gruppo maggioritario,
ritengono che l’ayatollha (che nella comunità ha mansioni giuridiche,
spirituali e organizzative) sia un intermediario della volontà
dell’ultimo discendente del genero di Maometto, Alì, che si chiama
Maometto a sua volta, definito come teofania di Allah (manifestazione
divina non incarnata): è quindi supposto un contatto diretto fra la
divinità e i suoi interpreti. Questa concezione la troviamo anche in
ambito sufi ne Il mistero dei custodi del mondo di Ibn Arabi nel nostro
XIII sec. (VI sec. dall’egira), e più recentemente l’islamista Henry
Corbin sviluppa le implicazioni del pensiero sciita in L’imam nascosto
(1959).
Se tutto ciò può sembrare, ad un occidentale medio, “allucinante” o
“suggestivo” a seconda dei suoi gusti, in realtà anche il
contemporaneo ambito cristiano e democratico offre, seppur in versione
meno raffinata, la sua forma di teocrazia. Infatti un’investitura
religiosa diretta viene rivendicata in maniera piuttosto vistosa dal
presidente degli USA Bush Jr., che come gli antichi imperatori bizantini
intende rispondere solo al suo Dio, e come Cristo pretende la capacità di
redimere il mondo degli uomini. Attualmente questo “imperatore” sembra
superare in autorità anche l’infallibile vicario di Cristo e
dell’Occidente, il papa di Roma: e il ruolo della Chiesa nella politica
internazionale recente non è affatto trascurabile, specie nel periodo in
cui l’azione del vescovo Marcinkus, presidente della Banca Vaticana,
ebbe modo di influenzare le crisi in America Latina e il crollo dei paesi
dell’Est europeo.
Ora, un’odierna “crudeltà bizantina” viene individuata da Richard
Hard e Antonio Negri (Moltitudine, 2004) nell’enorme accentramento di
potere rappresentato dall’Impero, cioè dal capitale finanziario che
dopo il crollo della cortina di ferro prevale a livello mondiale; in
questa forma di assolutismo gli “odierni iconoclasti” (contrari al
culto delle immagini come strumento di salvezza) eliminano i rapporti di
partecipazione e di mediazione tra potere e base utilizzando
paradossalmente proprio le immagini, cioè “attraverso lo spettacolo
mediatico e il controllo delle informazioni”. Se il problema è più
propriamente nell’atteggiamento idolatra che distorce l’uso delle
immagini, un potere immenso è effettivamente concentrato dall’autorità
“imperiale”, ma questo non la salva comunque da rischi concreti, e
scarsamente dignitosi anche a livello di “immagine”: come quello di
strozzarsi con un salatino ad una riunione di stato, e una galleria
sterminata di gaffes che ha dato luogo addirittura ad un genere letterario
detto appunto “bushismi”.
Se al tempo di Napoleone un colto generale come il prussiano von
Clausewitz poteva affermare la continuità fra politica e guerra (Della
guerra, 1832), durante le guerre della globalizzazione un filosofo che va
nei centri sociali come Baudrillard scrive che “la guerra è la
continuazione dell’assenza di politica con altri mezzi” (Lo spirito
del terrorismo, 2001). Potremmo concludere che dove le “guerre
umanitarie” arrivano al punto di “esportare la democrazia”, le
elezioni si configurano come una sorta di “ordigni bellici simpatici”,
che apparentemente non uccidono le persone, anzi, le “liberano”: se può
sembrare assurdo, questo è quanto emerge dai mezzi di comunicazione di
massa.
La guerra diventa il modello di convivenza, e trionfa il culto della
democrazia quale forma di intrattenimento. Una forma democratica
duplicabile e modulabile, al passo coi tempi, si diffonde come fosse una
catena di franchising, collocandosi in ogni contesto senza riguardo per le
sue specificità. Così come la puzza dei Mcdonald è uguale in tutto il
mondo, abbiamo elezioni all’americana ai Castelli Romani, elezioni
occidentali in Medio Oriente, elezioni ovunque: eserciti di candidati e di
elettori si fronteggiano, ma nessuno sa davvero cosa fare. Intanto, se
Baghdad è stata conquistata in tre settimane, dopo più del triplo del
tempo un governo irakeno ancora non si è costituito; invece per le
elezioni regionali nel Lazio troviamo formazioni come Forza Roma e
Avanti
Lazio nello stesso schieramento, che però nella competizione precedente
erano ambedue in quello opposto. I limiti della democrazia sembrano quindi
essersi fatti molto ampi, solo che dentro c’è rimasto poco: e non certo
pluralismo e partecipazione.
Piuttosto, sembra che ci si presenti questo quadro: addirittura Dio, in
persona, che secondo Nietzsche sarebbe dovuto essere morto da un pezzo,
ora sembra vivo, e forse non è neppure uno solo; invece, il comunismo
tutti dicono sia morto, e basta, ma in fondo era un spettro già per Marx;
inoltre, anche il liberalismo non sembra stare bene, e molti infatti ci
credono solo per superstizione. Dal canto loro le civiltà, piuttosto che
scontrarsi, forse non ci sono proprio più, perché tanto siamo tutti
uguali, al livello più basso però, come se veramente fossero state
bombardate a tappeto. Dovunque andiamo, da Baghdad a Grottaferrata, ci
soccorrono bancomat, multinazionali e urne elettorali, permettendoci di
essere consumatori, e dire sempre si. |