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Sommario anno XIV numero 4 - aprile 2005

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Limiti della democrazia
(Claudio Comandini) - Se Marx affermava che la democrazia nasconde la dittatura della borghesia, e quindi il perpetuarsi di una situazione di sfruttamento, Habermas ha puntualizzato che con il voto i cittadini confermano scelte già fatte, sostanzialmente decise da poteri monopolistici. Democrazia e sistema elettorale mostrerebbero quindi alcuni limiti: limite deriva dal latino limes, che significa confine, condizione, termine, e anche mèta; se pretende di contenere e definire, la parola sembra appropriata a indicare sostanzialmente linee che si spostano, cioè realtà caratterizzate da trasformazioni, da vincoli quanto da conflitti: quindi critiche, e suscettibili di critica.
Una della posizioni più critiche rispetto ai limiti del suffragio universale, del sistema dei partiti, e della stessa sovranità popolare derivata dalla Rivoluzione Francese, è formulata da Jean Paul Sartre (Ribellarsi è giusto, 1974): “il suffragio universale è un’astuzia del potere borghese per sostituire una legalità alla legittimità dei movimenti popolari e della democrazia diretta”. In questo contesto il voto si riduce a “un simulacro liturgico della presunta volontà generale”, ad un rituale scarsamente rappresentativo.
Mentre globale e locale trasformano funzioni e relazioni, il ruolo dei “movimenti popolari” e le istanze di “democrazia diretta” sembrano fuoriuscire dalla politica, che diventa sempre più “spettacolare” e “liturgica”, come già evidenziava Guy Debord (La società dello spettacolo, 1967). Per precisare il discorso nell’attualità, a Baghdad si può osservare la realizzazione forzata di elezioni in un paese occupato militarmente e in continua e inarrestabile sommossa; a Grottaferrata lo svolgimento di elezioni “primarie” dove i cittadini scelgono i loro candidati sindaci, anomalo rispetto alle pratiche del contesto, organizzato dal senatore di centrosinistra Bordon in contrapposizione ai suoi compagni di coalizione, ambiguamente avvicinato da elementi della destra populista. La partecipazione viene ad essere indubbiamente condizionata delle circostanze, che ne parzializzano sia risposta che risultati, mettendo perlopiù in evidenza conflitti ed inadeguatezze, in tutte e due le località: in tutti e due i casi l’esito è puramente convenzionale, la rappresentatività è palesemente falsata, e la effettive esigenze di una popolazione sono corrisposte con eccessiva approssimazione, con strumenti non appropriati.
Infatti, a Baghdad il compromesso di maggioranza fra la minoranza religiosa sciita (che in Iran è maggioritario ed è al governo dal 1979) e la minoranza etnica kurda (la cui provincia è autonoma sotto protezione americana dal 1991) si trova di fronte le infinite difficoltà determinate da un contesto di guerra, in una zona “strategica” per giacimenti e confini, mentre la maggioranza sunnita continua a tenersi fuori dalla “partita”. Al di là dei falsi trionfalismi mediatici, le elezioni in Iraq hanno avuto ampi fallimenti (specie al nord), ed un Gorbagiov le ha definite come “offesa alla democrazia e cosa priva di senso comune”. (La Stampa, 7.12.2005).
Invece, a Grottaferrata, quello che nonostante le altisonanti intenzioni si riduce ad un “sondaggio di popolarità” privo di efficacia, paradossalmente “calato dall’alto” proprio mentre pretendeva di dover “partire dal basso”, servirà sostanzialmente ad equilibrare i contrappesi delle relazioni politiche più influenti, notevoli in un territorio come quello dei Castelli Romani che come serbatoio di voti rappresenta una vera e propria “ghiottoneria elettorale”. I limiti degli strumenti democratici sembrano essere non solo teorici, ma anche procedurali, comportando ampie difficoltà nel definirne la legittimazione e i modi.
Per mettere meglio a fuoco, cambiamo prospettiva, e allarghiamo la visuale: ampliamone i limiti. Poco prima del Nuovo Ordine Mondiale, il filosofo marocchino Abdallah Larui (Islam e Modernità, 1987) sollecitava un incontro fra Islam e Occidente capace di rompere sia gli esclusivismi culturali e religiosi che i monopoli economici. Seppur in ritardo, andiamo quindi ad incontrare alcuni gruppi che contribuirono alla Rivoluzione Islamica in Iran del 1979. I Mojadin ad esempio vedevano nella società senza classi uno dei riflessi dell’unità di Allah, derivando quindi la loro comunista visione della democrazia dall’uguaglianza religiosa di tutti gli uomini, rifiutando inoltre l’idea della rappresentanza partitica, così come l’Islam non conosce un clero come quello cristiano. Invece gli sciiti duodecimani, il gruppo maggioritario, ritengono che l’ayatollha (che nella comunità ha mansioni giuridiche, spirituali e organizzative) sia un intermediario della volontà dell’ultimo discendente del genero di Maometto, Alì, che si chiama Maometto a sua volta, definito come teofania di Allah (manifestazione divina non incarnata): è quindi supposto un contatto diretto fra la divinità e i suoi interpreti. Questa concezione la troviamo anche in ambito sufi ne Il mistero dei custodi del mondo di Ibn Arabi nel nostro XIII sec. (VI sec. dall’egira), e più recentemente l’islamista Henry Corbin sviluppa le implicazioni del pensiero sciita in L’imam nascosto (1959).
Se tutto ciò può sembrare, ad un occidentale medio, “allucinante” o “suggestivo” a seconda dei suoi gusti, in realtà anche il contemporaneo ambito cristiano e democratico offre, seppur in versione meno raffinata, la sua forma di teocrazia. Infatti un’investitura religiosa diretta viene rivendicata in maniera piuttosto vistosa dal presidente degli USA Bush Jr., che come gli antichi imperatori bizantini intende rispondere solo al suo Dio, e come Cristo pretende la capacità di redimere il mondo degli uomini. Attualmente questo “imperatore” sembra superare in autorità anche l’infallibile vicario di Cristo e dell’Occidente, il papa di Roma: e il ruolo della Chiesa nella politica internazionale recente non è affatto trascurabile, specie nel periodo in cui l’azione del vescovo Marcinkus, presidente della Banca Vaticana, ebbe modo di influenzare le crisi in America Latina e il crollo dei paesi dell’Est europeo.
Ora, un’odierna “crudeltà bizantina” viene individuata da Richard Hard e Antonio Negri (Moltitudine, 2004) nell’enorme accentramento di potere rappresentato dall’Impero, cioè dal capitale finanziario che dopo il crollo della cortina di ferro prevale a livello mondiale; in questa forma di assolutismo gli “odierni iconoclasti” (contrari al culto delle immagini come strumento di salvezza) eliminano i rapporti di partecipazione e di mediazione tra potere e base utilizzando paradossalmente proprio le immagini, cioè “attraverso lo spettacolo mediatico e il controllo delle informazioni”. Se il problema è più propriamente nell’atteggiamento idolatra che distorce l’uso delle immagini, un potere immenso è effettivamente concentrato dall’autorità “imperiale”, ma questo non la salva comunque da rischi concreti, e scarsamente dignitosi anche a livello di “immagine”: come quello di strozzarsi con un salatino ad una riunione di stato, e una galleria sterminata di gaffes che ha dato luogo addirittura ad un genere letterario detto appunto “bushismi”.
Se al tempo di Napoleone un colto generale come il prussiano von Clausewitz poteva affermare la continuità fra politica e guerra (Della guerra, 1832), durante le guerre della globalizzazione un filosofo che va nei centri sociali come Baudrillard scrive che “la guerra è la continuazione dell’assenza di politica con altri mezzi” (Lo spirito del terrorismo, 2001). Potremmo concludere che dove le “guerre umanitarie” arrivano al punto di “esportare la democrazia”, le elezioni si configurano come una sorta di “ordigni bellici simpatici”, che apparentemente non uccidono le persone, anzi, le “liberano”: se può sembrare assurdo, questo è quanto emerge dai mezzi di comunicazione di massa.
La guerra diventa il modello di convivenza, e trionfa il culto della democrazia quale forma di intrattenimento. Una forma democratica duplicabile e modulabile, al passo coi tempi, si diffonde come fosse una catena di franchising, collocandosi in ogni contesto senza riguardo per le sue specificità. Così come la puzza dei Mcdonald è uguale in tutto il mondo, abbiamo elezioni all’americana ai Castelli Romani, elezioni occidentali in Medio Oriente, elezioni ovunque: eserciti di candidati e di elettori si fronteggiano, ma nessuno sa davvero cosa fare. Intanto, se Baghdad è stata conquistata in tre settimane, dopo più del triplo del tempo un governo irakeno ancora non si è costituito; invece per le elezioni regionali nel Lazio troviamo formazioni come Forza Roma e Avanti Lazio nello stesso schieramento, che però nella competizione precedente erano ambedue in quello opposto. I limiti della democrazia sembrano quindi essersi fatti molto ampi, solo che dentro c’è rimasto poco: e non certo pluralismo e partecipazione.
Piuttosto, sembra che ci si presenti questo quadro: addirittura Dio, in persona, che secondo Nietzsche sarebbe dovuto essere morto da un pezzo, ora sembra vivo, e forse non è neppure uno solo; invece, il comunismo tutti dicono sia morto, e basta, ma in fondo era un spettro già per Marx; inoltre, anche il liberalismo non sembra stare bene, e molti infatti ci credono solo per superstizione. Dal canto loro le civiltà, piuttosto che scontrarsi, forse non ci sono proprio più, perché tanto siamo tutti uguali, al livello più basso però, come se veramente fossero state bombardate a tappeto. Dovunque andiamo, da Baghdad a Grottaferrata, ci soccorrono bancomat, multinazionali e urne elettorali, permettendoci di essere consumatori, e dire sempre si.

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