Dove
va la lingua italiana?
(Luca Nicotra) - A volte mi chiedo se mi trovo veramente in
Italia. Il dubbio mi assale leggendo cartelloni pubblicitari e insegne
anche di semplici negozi. Magazzini e supermercati di una volta sono ormai
diventati “store” e quelli ancora più grandi sono stati promossi a
“superstore”. Quello che una volta si sarebbe chiamato un negozio di
calzature, si trasforma in “shoe shop”, e il “Negozio delle belle
cose” di Vincenzo Rossi si abbellisce del vezzoso “by Vincenzo
Rossi”. Se un imprenditore italiano decide di aprire una società, il
suo nome è spesso inglese, e lo è rigorosamente se il settore
d’attività è quello dell’informatica, dove il “data” o il
“net” finale sono d’obbligo, quasi fossero previsti da una forma
sottaciuta di certificazione di qualità. Evidentemente, una società
informatica, il cui nome non termini con “data” o con “net”, già
a priori non è degna di essere presa in considerazione dal pubblico! Se
si decide di festeggiare un evento, non v’è dubbio che si devono
invitare parenti e amici ad un “party”, e se poi si ha la possibilità
di allestire la “festa” in giardino, allora non si sta nella pelle di
poter scrivere sul biglietto d’invito “garden party”. Nel campo
tecnico-commerciale, è da tempo quasi un obbligo usare in abbondanza
termini inglesi, anche quando esistono i corrispettivi italiani. E così
nessuno sfugge (nemmeno lo scrivente!) all’uso di “design” e
“designer” per “progettazione” e “progettista”, “setup”
per “impostazione”, “gap” per “intervallo” e così via
discorrendo. In campo commerciale, i fornitori diventano molto più
dignitosamente “supplier”, mentre i clienti, non potendo essere da
meno, si affrettano ad assurgere alla rispettabilità di “customer”. E
se si deve personalizzare qualcosa sulla base delle specifiche richieste
del cliente, non si può sfuggire all’uso di un termine terribile: “customizzare”,
in ossequio al sacro “customer” inglese. Fino a qualche tempo fa alla
televisione, che pure non è mai stata in contatto con l’Accademia della
Crusca, si sentiva parlare di primo ministro e di segretario del partito
tal dei tali. Da qualche tempo anche questi termini, ultimi baluardi in
politica del parlare italiano, sono capitolati sotto la scure dei colleghi
inglesi “premier” e “leader”. Quand’ero ragazzo, alla
televisione, che non era ancora scivolata nella sua buca di decadenza, si
poteva assistere a belle commedie di Gilberto Govi e di Eduardo de Filippo
o ad interessanti sceneggiati e romanzi a puntate. Anche questi termini
sembrano essere andati in pensione, e i nuovi assunti hanno il sapore
frizzantino di “fiction”. Sono sicuro che se gli italiani dovessero
avere corrispondenze assidue con amici e collaboratori inglesi o
americani, in breve tempo anche il nostro “distinti saluti” sarebbe
sostituto da un più rispettoso “best regards”, anche nella
corrispondenza fra connazionali. Per fortuna gli italiani, così come
leggono poco, scrivono poco, e questo pericolo, almeno per il momento, è
scongiurato. Insomma, la nostra bella lingua, nata dal “dolce stil
novo” di Dante, ci ha stancato, e non c’è quindi da meravigliarsi, se
“il presidente dell’Unione Europea, Josè Manuel Barroso, ha
cancellato la lingua italiana da tutte le conferenze-stampa dei
commissari, ad eccezione di quelle che si tengono il mercoledì, unico
giorno in cui è garantita la traduzione delle principali lingue
dell’UE. “, come si legge nell’articolo “La Crusca: italiano
declassato in Europa, politici colpevoli” di Belardelli e Di Stefano,
apparso sul Corriere della Sera il 18 febbraio 2005. Francesco Sabatini,
presidente dell’Accademia della Crusca, s’infuria contro i “politici
che non hanno fatto nulla per difendere in Europa il ruolo
dell’italiano”.
Certi fenomeni, tuttavia, non sono mai da ascrivere alla responsabilità
dei singoli. L’affermarsi e il diffondersi di una lingua nazionale non
dipendono dalla volontà di pochi, ma da quella di tutti i membri di una
nazione. Il dilagare, spesso ingiustificato, di “anglicismi”, come
quelli ricordati e molti più ancora, non citati, nella nostra lingua, è
un segno evidente che da anni sono venuti a mancare in maniera
generalizzata la fiducia e l’attaccamento alla lingua italiana. Le
ragioni sono senz’altro più di una: la mortificazione post bellica
dell’orgoglio nazionale, ingiustamente confuso con gli aspetti più
deteriori del ventennio fascista; la convinzione, e quindi
l’accettazione psicologica, della superiorità tecnica, scientifica,
culturale, commerciale e militare dell’America (USA) e con essa della
lingua che n’è il vettore comunicativo principale; il vezzo-vizio tutto
italiano di non apprezzare ciò che abbiamo e, infantilmente, guardare a
ciò che non ci appartiene con la cupidigia del bambino che desidera il
giocattolo del suo compagno, pur avendo in abbondanza i propri; una certa
“esterofilia”, che è il retaggio di troppi secoli d’asservimento
allo straniero. Certamente, però, fa bene il professor Sabatini a puntare
il dito contro i nostri politici, che dovrebbero essere i padrini
dell’orgoglio nazionale e i tutori dei valori più alti delle nostre
tradizioni culturali. Ma ci si può meravigliare veramente del
declassamento della nostra lingua in ambito europeo, quando lo stesso
attuale capo del governo (rifiuto da “italianista” il termine
“premier”) non perde occasione per demolire quanto è rimasto in
Italia di cultura, con continui attacchi alla scuola, alla ricerca
scientifica e con pubblica ostentazione di disprezzo e disistima verso i
docenti anche universitari? Siamo molto lontani dal modello di
“principe-mecenate” di un tempo! Infatti, una volta (fino al secolo
XIX) i capi politici e militari erano anche persone colte e amanti della
cultura, al punto da essere essi stessi, spesso, grandi mecenati (per
esempio Cesare, Augusto, Marco Aurelio e molti altri imperatori romani, i
faraoni tolemei ad Alessandria d’Egitto, i Medici a Firenze, Napoleone a
Parigi, Federico il Grande a Berlino, Caterina di Russia a Pietroburgo,
eccetera). Nei tempi attuali, invece, cultura e mecenatismo purtroppo sono
caduti in disgrazia e ai capi si chiede di essere soprattutto
“pragmatici” (che erroneamente è stato frainteso con “incolti”),
spregiudicati, opportunisti (ma il loro opportunismo non è quello
machiavellico a beneficio del bene dello stato, anche se a discapito dei
principi morali, ma è unicamente quello personale o di partito, a
discapito sia del bene collettivo sia dei principi morali). Una nazione si
distingue da uno stato per avere oltre che delle leggi comuni, una comune
identità culturale. Una nazione è tale se tutti si sentono orgogliosi di
farne parte. Allora diviene naturale, da parte di qualunque cittadino,
difendere tutto ciò che ad essa appartenendo appartiene anche a lui. E la
prima cosa che i cittadini di una nazione dovrebbero sentire propria è la
comune lingua nazionale, che dovrebbero difendere quasi come se fosse il
suolo patrio. Ma questo sembra non avvenire in Italia, dove da anni
assistiamo ad un progressivo vilipendio della lingua nazionale, attraverso
l’ostentazione di suoi usi errati, perfino da parte di coloro che
(giornalisti, politici e uomini di spettacolo), essendo più di altri
esposti all’attenzione pubblica, dovrebbero sentire maggiormente la
responsabilità di dare il buon esempio. Forse, la pedanteria della nostra
scuola del passato ha sortito l’effetto opposto di quello desiderato:
allontanare anziché attrarre, scoraggiare anziché stimolare, far sentire
vecchi anziché inalare la giovinezza della curiosità espressiva.
Insomma, i vecchi mali del “latinorum”, non correttamente inteso,
hanno prevalso su intenti che sicuramente all’inizio erano nobili.
Dunque, hanno tutta la colpa i politici nel non difendere la lingua
italiana all’Unione Europea? Io credo proprio di no: la colpa è di
tutti noi italiani, che troppo poco amiamo sentirci italiani. |