Bruno de Finetti: così è, se vi pare - 7
“.....ma davvero esiste la probabilità? e cosa mai sarebbe? Io
risponderei di no, che non esiste.”
(di Luca Nicotra)
La didattica (continuazione)
Bruno de Finetti, al pari di Polya, nell’introdurre una nuova teoria
matematica, predicava l’utilità, tanto utile da divenire “necessaria”,
dell’insegnamento “problematico”, vale a dire dell’insegnamento basato
sulla presentazione di problemi concreti, e possibilmente “apparentemente”
più diversi fra loro, in modo da far librare il discente dal concreto
all’astratto nel modo più naturale e “storicamente” vero. In tale spirito,
anche ai fini di una più intuitiva comprensione, era da lui ben accettato
il sacrificio di una parte del famigerato rigore matematico, al quale si
dovrebbe arrivare soltanto dopo una già sicura acquisizione dei concetti,
come naturale esigenza d’inquadramento logico di quei concetti, che
all’inizio del processo di apprendimento, invece, sarebbe oltremodo
sterile e dannoso. La cosiddetta “matematica da fisico”, come viene spesso
indicata la matematica nella forma più concettuale in cui normalmente è
utilizzata dai fisici (e ancor più dagli ingegneri), non solo quindi non
scandalizzava de Finetti, ma anzi lo trovava pienamente d’accordo e
contrariato, semmai, dal constatarne una diversa concezione: “Ma cosa
apprendevo di per me nuovo - mi si chiederà - e quali cose potevano
costituire rivelazioni, e addirittura raccapriccianti, se ho da sempre, e
forse anche troppo ripetendomi, deprecato e stigmatizzato molte
manchevolezze e storture? Già: forse nulla... salvo che molti interessanti
esempi di cose presentate intelligentemente, e che invece (pare) nelle
scuole si insegnano appiattite o non si toccano affatto, mi ha fatto
percepire le pur risapute manchevolezze come un unico immenso incubo, che
lì per lì mi ha suggerito la denominazione del titolo: Matematica per
Deficienti. E devo subito dare delle spiegazioni perché nessuno pensi che
ciò costituisca un’offesa diretta a lui o ad altri: non si tratta di
applicare la qualifica di deficienti ad insegnanti o a studenti che
insegnano o che imparano in un certo modo: è questo modo che sembra
imporre come norma di insegnare e imparare in forme adatte per
deficienti...” 1
Il Club Matematico di Roma
I miei studi d’ingegneria, purtroppo, non mi hanno dato l’occasione di
avere come professore de Finetti nel corso dei miei studi universitari.
Tuttavia, ancor prima, ai tempi del liceo, ebbi la fortunata opportunità
di conoscerlo personalmente.
Ero all’ultimo anno del Liceo Scientifico, e facevo parte della sezione
pilota in matematica del mio liceo, il “Cavour” di Roma, in cui, allora,
si sperimentavano i futuri programmi di matematica “moderna”, che,
parzialmente, furono introdotti nell’ordinamento scolastico diversi anni
più tardi. Essendo, un po’ per vocazione, un po’ per educazione familiare,
un “innamorato” della matematica, quasi tutti i venerdì, all’Istituto
Matematico Guido Castelnuovo dell’Università La Sapienza di Roma,
frequentavo il Club Matematico, istituito dal professor Giandomenico
Majone nel 1964 su ispirazione di una sua precedente esperienza
all’università di Berkeley. La sede era veramente storica: aule austere,
dove avevano insegnato eminenti matematici, quali Guido Castelnuovo,
Federigo Enriques, Francesco Severi, Mauro Picone ed altri ancora. Ma
anche ai tempi del Club Matematico quelle aule erano frequentate da grandi
nomi della matematica italiana: Lucio Lombardo Radice, Attilio Frajese e
Bruno de Finetti. Ospiti di quegli indimenticabili incontri settimanali
erano altri illustri matematici e filosofi della scienza: oltre i già
ricordati Lombardo Radice e Frajese, anche Luigi Campedelli, Corrado
Mangione, Ludovico Geymonat, Giuseppe Vaccaro ed altri ancora. Insomma,
per un giovane come me, cresciuto nel culto della scienza e della cultura,
quella era un’occasione oltremodo stimolante per venire a contatto con
protagonisti di primo piano del mondo scientifico italiano e
internazionale. Di ognuno di essi, tutt’oggi, ricordo qualcosa di
caratteristico: di Campedelli i suoi interessi letterari (sul comodino
teneva in permanenza l’Orlando Furioso che pare leggesse ogni sera prima
di addormentarsi), di Frajese lo sguardo penetrante e benevolo, nonché la
sua cultura matematico-storica sorretta da una altrettanto grande cultura
umanistica, di Vaccaro l’incisività unita alla forza comunicativa e alla
grande vivacità siciliana, di Geymonat la paradossale difficoltà a parlare
(ogni parola, nessuna fuori posto, beninteso, sembrava opera di un parto),
di Lombardo Radice il fascino dell’intellettuale entro il corpo di un
corazziere. Ma uno sopra tutti suscitava in me le più grandi emozioni:
Bruno de Finetti, autorevolissimo e instancabile organizzatore di quei
seminari. Già il nome, con quel “de”, con la “d” minuscola, incuteva un
rispetto “nobiliare”, con allusiva reminiscenza del nome di grandi
matematici del passato: Pierre de Fermat , Pierre Simon de Laplace, Gilles
Persone de Roberval,… Insomma, già nel nome si avvertiva il destino
storico del personaggio. E poi, ne avevo sentito parlare, con riverenza,
come del più grande matematico italiano vivente.
E così, quando, per la prima volta, nell’aula austera e poco popolata
dell’istituto Castelnuovo entrò quell’uomo claudicante2 , ma eretto nella
sua persona fisica quanto lo era nella sua grande statura morale e
intellettuale, vestito di grigio, col pullover a “v” sotto la giacca, le
penne a biro che fuoriuscivano dal taschino, la fronte ampia e aperta, gli
occhi luccicanti e chiusi in fessure acute che ti penetravano da parte a
parte, l’emozione che subito provai fu quella di trovarmi davanti un
“grande”, uno di quelli che la storia ricorderà per sempre. E quella mia
impressione è stata avvalorata dai fatti che, molti anni dopo, hanno visto
l’affermazione lenta, ma crescente, della sua opera in tutto il mondo
scientifico internazionale. Quando parlava Bruno de Finetti, il silenzio
era assoluto e la tensione dell’attenzione dell’uditorio era ai massimi
livelli, e ciò per vari motivi: l’autorevolezza del personaggio, il suo
parlare pacato, a voce bassissima, quasi esile, sapientemente modulato
sulle parole chiave del discorso, quel suo interrogare senza interrogare
di fatto, proponendo a tutti noi giovani quesiti “strani”, di contenuto
originale e provocatorio per le nostre menti assopite nel convenzionalismo
della cultura scolastica. La soluzione dei suoi famosi quesiti arrivava
soltanto alla fine di quegli incontri, dopo aver raccolto tutte le nostre
risposte, che egli analizzava, commentava e classificava criticamente,
quasi da statistico. La soluzione era sempre un po’ sconcertante, perché
inaspettatamente semplice, ma per noi irraggiungibile, malgrado i nostri
sforzi.
Una volta era ospite Giuseppe Vaccaro, che doveva parlarci del modo di
creare nuove geometrie. Dopo la sua presentazione, de Finetti si sedette
accanto a me nei banchi degli studenti, con l’umiltà di un uomo qualunque,
anzi quasi di uno studente come noi. Naturalmente, la mia emozione era
grandissima, perché sapevo bene chi in realtà era colui che si era seduto
accanto a me. Quella figura di matematico, così severa, ma altrettanto
ricca di semplicità, di onestà, di umanità, di autentica umiltà, di
straordinario equilibrio fra teoria e senso della realtà, fra rigore
logico e intuizione, capace all’occorrenza di scagliare senza pietà strali
infuocati di purissima passione intellettuale per la verità contro
l’ignoranza e il bieco conservatorismo culturale e “burofrenico” o
“burosadico”, com’egli amava dire, mi è rimasta nel cuore e nella mente
per sempre e mi ha ispirato e sorretto in molti momenti della mia crescita
interiore e culturale.
I geni non servono soltanto per riempire delle loro mirabili scoperte i
dotti libri del sapere umano, ma anche e soprattutto per formare le
coscienze di uomini migliori. Ed è per questo che è importante
incontrarli, dal vivo o anche soltanto attraverso le loro opere. Bruno de
Finetti era uno di loro.
Fine
Note:
1 B. de Finetti Contro la matematica per deficienti. Op. citata.
2 Bruno de Finetti, purtroppo, all’età di 13 anni rimase vittima di una
osteomielite acuta alla gamba sinistra, per la quale dovette subire
l’asportazione della testa del femore che accorciò di ben 7 cm la gamba. |