Tsunami,
una catastrofe evitabile?
(Simone Proietti) - Era il
26 Dicembre 2004, il giorno di Santo Stefano qui in Italia, una normale
giornata di vacanza per molti
laggiù
in quelle terre esotiche da sogno, proposte in tutti i cataloghi di
viaggio, sempre conditi dalle foto mozza fiato di spiagge candide e mare
smeraldino. Dei paradisi idilliaci che spesso hanno solleticato la mente
di noi “occidentali di città” a mollare il caos e lo smog alla ricerca
della tranquillità e bellezza di quei posti. Un teatro della natura
perfetto, che nonostante la scelleratezza umana degli alberghi costruiti
fin quasi sulle rive, delle barriere coralline ridotte a brandelli
dall’innalzamento della temperatura prodotta da quanto continuamente
riversiamo nell’aria, della vegetazione di mangrovie annientata per interi
lunghissimi tratti di costa, riusciva ancora a sorprendere ed estasiare.
Posti da sogno, fino a quando quella parte di globo tanto meraviglioza
quanto popolosa è stata spazzata quel 26 Dicembre dall’energia devastante
di un terremoto di grado 9 scala Richter. L’epicentro in mezzo all’oceano,
una fortuna? Macchè, l’energia del sisma in qualche modo doveva
dissiparsi, è stata l’acqua ad incaricarsi di prenderla con sé, di
trasportarla a velocità folle fino a terra, correndo in tutte le direzioni
da quell’unico punto. L’acqua era quella dell’Oceano Indiano, che si è
trasformata in un messaggero di morte, in un maremoto, o tsunami
come lo chiamano in Giappone, un fenomeno ben conosciuto che da milioni di
anni agisce soprattutto in quella parte del globo, con le sue onde tanto
potenti quanto alte, un incubo tramandato dal passato che aveva alimentato
nel tempo il rispetto per un mare tanto prodigo quanto pericoloso. Lo
sanno bene alle isole Hawaii dove da anni è attivo un importante centro
sismologico e non è permesso costruire al di sotto dei 10 metri di
altitudine, lasciando liberi ampi tratti di spiaggia.
È bastata qualche ora che quel sogno color turchese della barriera
corallina si sia tramutato in una catastrofe dalle dimensioni spaventose.
Centinaia di migliaia di morti di tutti i paesi, milioni di sfollati, un
evento naturale che ha messo in ginocchio intere nazioni.
Asse terrestre spostato di 6 centimetri, isole di 30 metri, ma questi
strumenti tanto precisi non potevano invece segnalare un terremoto tanto
catastrofico? Ma come, non siamo nel terzo millennio, non si poteva
evitare una tragedia di tali proporzioni? Forse sì, se vi fossero state in
quei paesi delle strutture scientifiche e di sorveglianza adeguate da
raccogliere e diffondere gli allarmi degli organismi di ricerca
internazionali, i quali avevano prontamente rilevato il sisma. Come
riferisce lo stesso Ingegnere Guido Cavalieri, dell’ISMAR (Istituto di
Scienze Marine) del CNR di Venezia, la velocità di propagazione di un’onda
circolare come quella che si origina a seguito di un terremoto in mare, è
ben conosciuta ed è pari alla radice quadrata della costante di gravità
(9,81) moltiplicata per la profondità del punto dove avviene il sisma. Da
ciò si ottengono mediamente velocità dell’ordine di circa 700 km\h in
oceano aperto, per terremoti verificatisi a circa 4000 metri di
profondità, una situazione paragonabile a quella del Sud-Esta Asiatico.
Tale stima consentirebbe ad esempio di avere un margine di tempo di un
paio di ore per avvertire e mettere in salvo gli abitanti di terre poste a
1400 km.
In Giappone gli tsunami sono fenomeni non rari, per i quali è stata
approntata un’efficace rete di sorveglianza, che ha consentito in passato
in diverse occasioni di avvisare e mettere in salvo la popolazione lungo
le coste. Alcune delle immagini più spaventose degli tsunami ci
arrivano proprio da quanti in quelle occasioni si erano messi in salvo,
filmando in sicurezza la furia di un evento naturale catastrofico ma di
grande spettacolo. Sì, oltre a misurare gli spostamenti dell’asse
terrestre, peraltro non più influenti sul clima di quanto lo siano le
nostre scellerate abitudini nella vita di tutti i giorni, i ricercatori
avevano previsto tutto con un certo vantaggio. Un vantaggio che non
avrebbe consentito di salvare le infrastrutture ma sicuramente di
risparmiare una buona fetta di vite umane. Almeno le popolazioni dei paesi
più distanti dall’epicentro, quali India, Sri Lanka etc, avrebbero avuto
tutto il tempo per sgomberare le coste e rifugiarsi nell’entroterra. È
mancato il passaparola in quei paesi spesso dimenticati, in cui spesso si
esportano i modelli peggiori del nostro benessere senza istruire, senza
diffondere quel concetto di “sviluppo sostenibile” tanto propagandato
sulla carta dalle nostre parti, ma mai realmente applicato né da noi né
altrove.
Una maggiore attenzione al Pianeta Terra, al monitoraggio dei fenomeni in
atto, alla conservazione ed al rispetto dei fenomeni e dei meccanismi che
lo regolano sarà fondamentale per evitare o quanto meno limitare nuove
catastrofi in futuro. La ricerca scientifica può dare una grossa mano in
questo senso, come avrebbe potuto darla nel Sud Est Asiatico se avesse
avuto il modo di farsi ascoltare. Ora in quei paesi è ricominciata la
ricostruzione. Sarebbe utile oltre che formativo programmare un viaggio da
quelle parti per collaborare attivamente alla rinascita di quei popoli e
contribuire all’economia di quelle popolazioni. Speriamo solo che tale
tragedia sia di insegnamento per evitare l’evitabile e non commettere gli
stessi abusi sull’ambiente perpetrati in passato. Sarebbe folle
ricostruire a cinque metri dalle spiagge, sottovalutare l’importanza della
vegetazione naturale, non investire in un valido organismo scientifico di
controllo ed allarme in un’area che chissà quante altre volte sarà
interessata dalla furia di terremoti tanto distruttivi. Il rischio ci sarà
sempre, ovunque, ma si può abbassare, se prenderà corpo un nuovo
atteggiamento di comprensione e rispetto dei processi naturali del nostro
pianeta. |