Notizie in... Controluce Notizie in... Controluce
 Versione digitale del mensile di cultura e attualità dei Castelli Romani e Prenestini

sei il visitatore n.

 

home | indice giornali | estratti | info | agenda | cont@tti | cerca nel sito | pubblicità

 

Sommario anno XIII numero 10 - ottobre 2004

 CINEMA

Fahrenheit 9/11, di Michael Moore
(Roberto Esposti - laleggedimclurg@yahoo.it) - Esce finalmente in Italia uno dei film più controversi della storia del cinema: Palma d’Oro al Festival di Cannes presieduto da Quentin Tarantino, omaggiato di decine di minuti di applausi, unico documentario in 48 anni a vincere il premio come miglior film.
Trattasi in realtà di documentario appartenente al genere infotainment, ossia ad un’idea prettamente televisiva di fare informazione intrattenendo: nata dall’esigenza di ricavare il maggiore ascolto possibile da programmi costruiti con materiale tratto dalla realtà, ha trovato le forme più alte in Italia in programmi come Blob e Striscia la Notizia, in cui l’informazione viene montata e/o commentata seguendo un filo logico che oltre a far pensare strappa sorrisi con sarcasmo ed ironia.
Le analogie con la fiction vengono fuori già dalle connotazioni delle due parole che compongono il titolo del film: “Fahrenheit” richiama il titolo “Fahrenheit 451”, romanzo di Bradbury (e film di Truffaut), in cui un’America oscurantista persegue la distruzione sistematica dei libri (quindi della cultura e del libero pensiero) soppiantati nelle case da enormi televisori. 451 è infatti la gradazione a cui brucia la carta, quella dei libri, ma anche quella su cui sono scritti gli emendamenti della Costituzione statunitense, pilastri della libertà mandati in fumo dal Patriot Act, legge postundicisettembrina che restringe i diritti dei cittadini a stelle e strisce. Se la parola “fahrenheit” descrive lo spazio semantico del film, “9/11”, nain ileven, ne stabilisce il tempo. L’attimo in cui questo spazio semantico comincia a vivere nella cultura e nell’esistenza degli americani (vedi grafia della data).
Il film tratta di vari temi che chi conosce Michael Moore sa essergli cari. L’incipit parla del broglio del 2000 in Florida realizzato grazie alla neutralizzazione del voto degli afroamericani (tradizionalmente democratici) nello stato governato da fratello di George Bush, Jeb. L’avallo dato dalla corte dello stesso stato e dal Senato USA incapace di offrire un’unica firma (anche democratica) in favore di un’inchiesta. Si prosegue poi con il rilevante fancazzismo del Presidente USA che riesce durante i primi mesi del suo mandato, a governare il pianeta Terra trascorrendo la metà del tempo in vacanza. Evidentemente tanto relax disabitua alla prontezza decisionale se Moore riesce a farci vedere George W. il quale, avvertito da un collaboratore dello schianto degli aerei sulle Torri, continua per 7 minuti con sguardo ebete a leggere “La mia capretta” assieme ad una classe di meravigliosi bambini di Sarasota, (sempre) Florida.
L’attentato non fa perdere il buon umore al Presidente USA che un paio di giorni dopo invita a cena (privatamente) l’ambasciatore saudita con cui vanta, tramite papino, lunga amicizia e rapporti d’affari. Ottimi amici dei Bush son anche i Bin Laden ed i buoni uffici dei primi sono determinanti ad aprire i cieli statunitensi (blindati in quei giorni) agli aerei degli arabi, prima che questi possano essere scomodati da qualche noioso funzionario del controspionaggio incaricato di indagare sulla morte di 3 mila persone.
George, che come detto ama il relax, non vuol saperne di far partire una commissione d’inchiesta sugli attentati, che poi dovrebbe evidentemente ascoltare ricavandone grande tedio. Queste cose non gli interessano, come non lo colpirono i dettagliati rapporti a lui presentati alla vigilia delle stragi. Meglio il tiro al piattello, il ranch ed un po’ di Bibbia: lontane le passioni giovanili per il bere, il baseball ed il petrolio; passioni a cui si era dedicato una volta risolta (con la truffa) la sciocca coscrizione al Vietnam che il suo paese gli imponeva (e di cui Moore mostra le prove). Del resto “naja” si scrive quasi come “noia” e ben lo sanno anche i 535 membri del Congresso: tra loro solo uno ha figli in Iraq, scopre Michael Moore e di ciò chiede conto ai parlamentari stessi che fuggono o fanno spallucce. Meglio per loro dire che questi sono divertimenti ideati per poveracci ed a tal uopo zelanti e creativi reclutatori dei marines battono Flint (città natale di Moore), alla ricerca di ragazzotti che la fuga della General Motors ha privato di un futuro. Questi ruffiani sostengono che si possa anche fare rock nei marines e dev’esser vero dato che i giovanissimi soldati mandati al macello in Mesopotamia ascoltano rap metal negli Humvee. Il relax ed il divertimento devono regnare anche in guerra e per le famiglie rimaste a casa che c’è di meglio di una coloratissima scala di allarmi che vanno su e giù come le montagne russe di Disneyworld (parco che risiede in Florida e che beneficia di sgravi fiscali da parte del governo di Jeb Bush, sarà per questo che Miramax-Disney non voleva distribuire il film?). E poi rifugi antiatomici formato (e foggia) bagno chimico e pratici paracadute da nono piano (per la verità difficiletti da usare). Have fun! Questa è l’America che non si annoia di George Walker Bush.
Quella che non si diverte non è divertente e non ve la facciamo vedere: la facciamo sbarcare avvolta in bandiere stelle e strisce di notte e al segreto oppure la chiudiamo in ospedali dove le gambe mozze e la braccia amputate non si possano vedere. A questa America noiosa tagliamo anche indennità, rimborsi e pensioni perché non vuol saperne di divertirsi. Hanno fatto il loro dovere? Erano già poveri prima ed ora non troveranno mai lavoro perché mutilati? E che significa! Potevano lavorare nel petrolio: come dipendenti della Halliburton (società di cui è azionista il Vice Presidente Cheney) avrebbero guadagnato il triplo standosene in sontuosi alberghi. Peggio per loro! Se non ami il business ed il divertimento sta lontano dall’Iraq. E dall’America.
Qui non c’è posto per madri che piangono figli morti lontano, a combattere una guerra che, caduta ogni facciata ideale, conducono solo per quei quattro dollari che potrebbero pagar loro il college: “Dottor Smith aveva mia visto in vita sua un cancro simile? Sì Dottor Robinson quand’ero sotto le armi ne vidi uno sulla faccia di un iracheno che schiacciavo contro il pavimento della sua casa. Come si chiamava quel posto? Ah sì Falluja! Ah ah ah! Che ridere! Ricordo ancora la faccia della moglie e dei figli di quel pezzente!”.
Il sogno americano ed il business: niente male l’affare Iraq. E che colpo di genio convincere i cittadini a fare la guerra a Saddam, dopo che per mesi in interviste televisive ai massimi livelli (riproposte da Moore) si era dichiarato che gli iracheni erano dei poveracci e non avevano neanche una fionda ed un osso di pesca da tirare. Del resto col petrolio i Bush ci sanno fare, gli appalti vanno a gogo, ma anche in Afghanistan non ci si lamenta: il nuovo gasdotto sarà una meraviglia e che fortuna che Ahmid Karzai (premier afgano) abbia lavorato tanto tempo per noi.
Tutto questo e molto altro mostra Michael Moore in Fahrenheit 9/11 con accurata documentazione e gusto per l’inedito. Chi lo conosce sa che lo muove la sua enorme passione civile, di intellettuale che crede che l’arte ed i media possano con la denuncia e l’ironia cambiare il mondo. Moore più volte è riuscito a cambiare delle vite che erano delle gabbie: con i suoi documentari ha aiutato un sacco di gente coinvolta suo malgrado in battaglie contro burocrazia, malgoverno e multinazionali. Ma proprio qui emerge uno dei due problemi che a mio avviso gravano sull’opera di Moore.
Problema logico: il film riporta un sacco di fatti e di immagini, tutti probabilmente veri, ma non costruisce una logica del complotto credibile. Come hanno fatto un manipolo di idioti (come tali essi appaiono nel film) quali Bush, Wolfowitz e compagnia bella ad aver architettato o quantomeno accettato il più grande attentato della storia, per poi muovere sull’onda emotiva l’America verso due guerre: una (Afghanistan) tesa alla costruzione del corridoio energetico centrasiatico, completamente indipendente dall’ingerenza russa ed un’altra (Iraq) volta ad accaparrarsi la seconda maggiore riserva di petrolio del mondo, mettendosi al sicuro dalla probabile jihadizzazione dell’Arabia Saudita. Facendo al contempo un sacco di soldi con le commesse dell’esercito, ponendo le basi per la rielezione, impedendo all’euro di raggiungere lo status di moneta franca mondiale e distogliendo l’attenzione degli elettori dalle mai mantenute promesse di detassazione e sul realizzato ridimensionamento del welfare.
Questi imbecilli sarebbero riusciti a fare tutto ciò? Difficile crederlo. Ogni fatto attribuito all’amministrazione in questo film è negativo: ma basta questa teoria di infamie a distruggere il consenso? A fronte di centinaia di milioni di dollari di incasso negli Stati Uniti (segno che il film è stato visto) e di una copertura mediale enorme, il fatto che oggi Bush abbia tra i 6 e gli 11 punti percentuali di vantaggio su Kerry ci fa pensare di no.
Problema estetico: Moore è grandioso quando crea filmati in cui, tramite un montaggio serrato, accosta con sapienza fatti reali secondo un filo logico e li commenta con sarcasmo (l’infotainment alla Blob o Striscia cui accennavamo all’inizio). Puro vetriolo, grandi risate. Cocktail perfetto in “Bowling a Columbine” e nelle serie televisive (“The awful truth” ad esempio, thanks to Carlo). Con esse è riuscito a raccogliere, far ridere e far pensare milioni di americani (e non solo): in questo film la formula funziona solo per la mezz’ora iniziale. Poi il film perde ritmo, non fa più ridere (se l’ironia è di razza si ride anche dei morti), allontana il pubblico che, tranne i pochi commossi, si trasforma in audience distratta, effetto valido soprattutto per il pubblico americano incapace di apprezzare linguaggi a bassa velocità. Il racconto diventa melodrammatico e si presta ad accuse di populismo strappalacrime. Credo che il ripetuto rimontaggio della seconda parte del film, concluso a ridosso del Festival di Cannes abbia contribuito tanto in questo, Si annunciano nuove release del film: noi l’attendiamo con interesse, ma intanto la portata del fuoco del brigantino Fahrenheit 9/11 ci sembra troppo piccola per affondare la petroliera Bush.

 CINEMA

Sommario anno XIII numero 10 - ottobre 2004