Fahrenheit 9/11, di Michael Moore
(Roberto Esposti - laleggedimclurg@yahoo.it) - Esce finalmente in
Italia uno dei film
più controversi della storia del cinema: Palma d’Oro al Festival di Cannes
presieduto da Quentin Tarantino, omaggiato di decine di minuti di
applausi, unico documentario in 48 anni a vincere il premio come miglior
film.
Trattasi in realtà di documentario appartenente al genere infotainment,
ossia ad un’idea prettamente televisiva di fare informazione
intrattenendo: nata dall’esigenza di ricavare il maggiore ascolto
possibile da programmi costruiti con materiale tratto dalla realtà, ha
trovato le forme più alte in Italia in programmi come Blob e Striscia la
Notizia, in cui l’informazione viene montata e/o commentata seguendo un
filo logico che oltre a far pensare strappa sorrisi con sarcasmo ed
ironia.
Le analogie con la fiction vengono fuori già dalle connotazioni delle due
parole che compongono il titolo del film: “Fahrenheit” richiama il titolo
“Fahrenheit 451”, romanzo di Bradbury (e film di Truffaut), in cui
un’America oscurantista persegue la distruzione sistematica dei libri
(quindi della cultura e del libero pensiero) soppiantati nelle case da
enormi televisori. 451 è infatti la gradazione a cui brucia la carta,
quella dei libri, ma anche quella su cui sono scritti gli emendamenti
della Costituzione statunitense, pilastri della libertà mandati in fumo
dal Patriot Act, legge postundicisettembrina che restringe i diritti dei
cittadini a stelle e strisce. Se la parola “fahrenheit” descrive lo spazio
semantico del film, “9/11”, nain ileven, ne stabilisce il tempo. L’attimo
in cui questo spazio semantico comincia a vivere nella cultura e
nell’esistenza degli americani (vedi grafia della data).
Il film tratta di vari temi che chi conosce Michael Moore sa essergli
cari. L’incipit parla del broglio del 2000 in Florida realizzato grazie
alla neutralizzazione del voto degli afroamericani (tradizionalmente
democratici) nello stato governato da fratello di George Bush, Jeb.
L’avallo dato dalla corte dello stesso stato e dal Senato USA incapace di
offrire un’unica firma (anche democratica) in favore di un’inchiesta. Si
prosegue poi con il rilevante fancazzismo del Presidente USA che riesce
durante i primi mesi del suo mandato, a governare il pianeta Terra
trascorrendo la metà del tempo in vacanza. Evidentemente tanto relax
disabitua alla prontezza decisionale se Moore riesce a farci vedere George
W. il quale, avvertito da un collaboratore dello schianto degli aerei
sulle Torri, continua per 7 minuti con sguardo ebete a leggere “La mia
capretta” assieme ad una classe di meravigliosi bambini di Sarasota,
(sempre) Florida.
L’attentato non fa perdere il buon umore al Presidente USA che un paio di
giorni dopo invita a cena (privatamente) l’ambasciatore saudita con cui
vanta, tramite papino, lunga amicizia e rapporti d’affari. Ottimi amici
dei Bush son anche i Bin Laden ed i buoni uffici dei primi sono
determinanti ad aprire i cieli statunitensi (blindati in quei giorni) agli
aerei degli arabi, prima che questi possano essere scomodati da qualche
noioso funzionario del controspionaggio incaricato di indagare sulla morte
di 3 mila persone.
George, che come detto ama il relax, non vuol saperne di far partire una
commissione d’inchiesta sugli attentati, che poi dovrebbe evidentemente
ascoltare ricavandone grande tedio. Queste cose non gli interessano, come
non lo colpirono i dettagliati rapporti a lui presentati alla vigilia
delle stragi. Meglio il tiro al piattello, il ranch ed un po’ di Bibbia:
lontane le passioni giovanili per il bere, il baseball ed il petrolio;
passioni a cui si era dedicato una volta risolta (con la truffa) la
sciocca coscrizione al Vietnam che il suo paese gli imponeva (e di cui
Moore mostra le prove). Del resto “naja” si scrive quasi come “noia” e ben
lo sanno anche i 535 membri del Congresso: tra loro solo uno ha figli in
Iraq, scopre Michael Moore e di ciò chiede conto ai parlamentari stessi
che fuggono o fanno spallucce. Meglio per loro dire che questi sono
divertimenti ideati per poveracci ed a tal uopo zelanti e creativi
reclutatori dei marines battono Flint (città natale di Moore), alla
ricerca di ragazzotti che la fuga della General Motors ha privato di un
futuro. Questi ruffiani sostengono che si possa anche fare rock nei
marines e dev’esser vero dato che i giovanissimi soldati mandati al
macello in Mesopotamia ascoltano rap metal negli Humvee. Il relax ed il
divertimento devono regnare anche in guerra e per le famiglie rimaste a
casa che c’è di meglio di una coloratissima scala di allarmi che vanno su
e giù come le montagne russe di Disneyworld (parco che risiede in Florida
e che beneficia di sgravi fiscali da parte del governo di Jeb Bush, sarà
per questo che Miramax-Disney non voleva distribuire il film?). E poi
rifugi antiatomici formato (e foggia) bagno chimico e pratici paracadute
da nono piano (per la verità difficiletti da usare). Have fun! Questa è
l’America che non si annoia di George Walker Bush.
Quella che non si diverte non è divertente e non ve la facciamo vedere: la
facciamo sbarcare avvolta in bandiere stelle e strisce di notte e al
segreto oppure la chiudiamo in ospedali dove le gambe mozze e la braccia
amputate non si possano vedere. A questa America noiosa tagliamo anche
indennità, rimborsi e pensioni perché non vuol saperne di divertirsi.
Hanno fatto il loro dovere? Erano già poveri prima ed ora non troveranno
mai lavoro perché mutilati? E che significa! Potevano lavorare nel
petrolio: come dipendenti della Halliburton (società di cui è azionista il
Vice Presidente Cheney) avrebbero guadagnato il triplo standosene in
sontuosi alberghi. Peggio per loro! Se non ami il business ed il
divertimento sta lontano dall’Iraq. E dall’America.
Qui non c’è posto per madri che piangono figli morti lontano, a combattere
una guerra che, caduta ogni facciata ideale, conducono solo per quei
quattro dollari che potrebbero pagar loro il college: “Dottor Smith aveva
mia visto in vita sua un cancro simile? Sì Dottor Robinson quand’ero sotto
le armi ne vidi uno sulla faccia di un iracheno che schiacciavo contro il
pavimento della sua casa. Come si chiamava quel posto? Ah sì Falluja! Ah
ah ah! Che ridere! Ricordo ancora la faccia della moglie e dei figli di
quel pezzente!”.
Il sogno americano ed il business: niente male l’affare Iraq. E che colpo
di genio convincere i cittadini a fare la guerra a Saddam, dopo che per
mesi in interviste televisive ai massimi livelli (riproposte da Moore) si
era dichiarato che gli iracheni erano dei poveracci e non avevano neanche
una fionda ed un osso di pesca da tirare. Del resto col petrolio i Bush ci
sanno fare, gli appalti vanno a gogo, ma anche in Afghanistan non ci si
lamenta: il nuovo gasdotto sarà una meraviglia e che fortuna che Ahmid
Karzai (premier afgano) abbia lavorato tanto tempo per noi.
Tutto questo e molto altro mostra Michael Moore in Fahrenheit 9/11 con
accurata documentazione e gusto per l’inedito. Chi lo conosce sa che lo
muove la sua enorme passione civile, di intellettuale che crede che l’arte
ed i media possano con la denuncia e l’ironia cambiare il mondo. Moore più
volte è riuscito a cambiare delle vite che erano delle gabbie: con i suoi
documentari ha aiutato un sacco di gente coinvolta suo malgrado in
battaglie contro burocrazia, malgoverno e multinazionali. Ma proprio qui
emerge uno dei due problemi che a mio avviso gravano sull’opera di Moore.
Problema logico: il film riporta un sacco di fatti e di immagini, tutti
probabilmente veri, ma non costruisce una logica del complotto credibile.
Come hanno fatto un manipolo di idioti (come tali essi appaiono nel film)
quali Bush, Wolfowitz e compagnia bella ad aver architettato o quantomeno
accettato il più grande attentato della storia, per poi muovere sull’onda
emotiva l’America verso due guerre: una (Afghanistan) tesa alla
costruzione del corridoio energetico centrasiatico, completamente
indipendente dall’ingerenza russa ed un’altra (Iraq) volta ad accaparrarsi
la seconda maggiore riserva di petrolio del mondo, mettendosi al sicuro
dalla probabile jihadizzazione dell’Arabia Saudita. Facendo al contempo un
sacco di soldi con le commesse dell’esercito, ponendo le basi per la
rielezione, impedendo all’euro di raggiungere lo status di moneta franca
mondiale e distogliendo l’attenzione degli elettori dalle mai mantenute
promesse di detassazione e sul realizzato ridimensionamento del welfare.
Questi imbecilli sarebbero riusciti a fare tutto ciò? Difficile crederlo.
Ogni fatto attribuito all’amministrazione in questo film è negativo: ma
basta questa teoria di infamie a distruggere il consenso? A fronte di
centinaia di milioni di dollari di incasso negli Stati Uniti (segno che il
film è stato visto) e di una copertura mediale enorme, il fatto che oggi
Bush abbia tra i 6 e gli 11 punti percentuali di vantaggio su Kerry ci fa
pensare di no.
Problema estetico: Moore è grandioso quando crea filmati in cui, tramite
un montaggio serrato, accosta con sapienza fatti reali secondo un filo
logico e li commenta con sarcasmo (l’infotainment alla Blob o Striscia cui
accennavamo all’inizio). Puro vetriolo, grandi risate. Cocktail perfetto
in “Bowling a Columbine” e nelle serie televisive (“The awful truth” ad
esempio, thanks to Carlo). Con esse è riuscito a raccogliere, far ridere e
far pensare milioni di americani (e non solo): in questo film la formula
funziona solo per la mezz’ora iniziale. Poi il film perde ritmo, non fa
più ridere (se l’ironia è di razza si ride anche dei morti), allontana il
pubblico che, tranne i pochi commossi, si trasforma in audience distratta,
effetto valido soprattutto per il pubblico americano incapace di
apprezzare linguaggi a bassa velocità. Il racconto diventa melodrammatico
e si presta ad accuse di populismo strappalacrime. Credo che il ripetuto
rimontaggio della seconda parte del film, concluso a ridosso del Festival
di Cannes abbia contribuito tanto in questo, Si annunciano nuove release
del film: noi l’attendiamo con interesse, ma intanto la portata del fuoco
del brigantino Fahrenheit 9/11 ci sembra troppo piccola per affondare la
petroliera Bush. |