Alcune
considerazioni su “La nausée” di Jean Paul Sartre
(di Caterina Rosolino)
IL DE-LIRIO.
Delirio
dell’individuo. La spazialità coartata. Le mani.
Mentre
leggiamo, vediamo il pensiero di Antoine Roquentin, protagonista de
« La Naussèe » di J.P.Sartre, dispiegarsi davanti a lui come
una forma vivente, un’entità (più volte Roquentin l’apostrofa come
fosse vivo: “l’idea accovacciata come un gatto”, e ancora:
“l’idea s’impossessa di me” ecc…). In contrapposizione al
“pensiero vivo” del personaggio e in continua mutazione, si colloca il
pensiero morto degli altri uomini, che hanno affidato ad una statua di
bronzo, alla loro Esperienza (che per l’occasione si tramuta in Saggezza
prodiga di consigli come un distributore automatico), o semplicemente alla
collettività (“…è incredibile come si preoccupino tutti di pensare
le stesse cose”), il compito di pensare per loro. Antoine Roquentin
invece è un uomo solo, ciò non significa che è un uomo
solitario, un eremita, che ama vivere in luoghi appartati (anzi frequenti
sono le volte che lo troviamo a riflettere in luoghi pubblici, circondato
da gente), quel “solo” significa che pensa con la propria testa, che
nella sua ricerca del vero è l’unico che ha il coraggio di oltrepassare
le colonne d’Ercole del conosciuto. La condizione d’isolamento è
necessaria per la ricerca della verità: egli può varcare così i limiti
del noto e naufragare nell’ignoto, e lo stesso Roquentin ne è
cosciente: “quando si vuol capire una cosa, ci si mette di fronte ad
essa, da soli, senza aiuti; tutto il passato del mondo non ci
servirebbe a niente, poi questa cosa sparisce e quel che si è capito
sparisce con essa”. È questa la condizione per il de-lirio. Ma
che cos’è il delirio? E come possiamo parlare di delirio facendo
riferimento ad Antoine Roquentin? In effetti quel che dice pare seguire un
filo logico, i ragionamenti a cui arriva sono il risultato di piccoli
scalini, di passi che lo portano lentamente a quelle conclusioni. Ma chi
ha detto che il delirio sia contrario alla lucidità? E non è proprio da
un’eccessiva lucidità che deriva lo stravedere del protagonista? Dopo
tutto “follia è divino buon senso”dice Emily Dickinson in una sua
poesia. Ma torniamo alla prima domanda… Delirare vuol dire andare oltre
il confine, verso l’ignoto, verso l’estraneità. De-lirare è andare
al di là del solco tracciato dall’aratro (lira). Attorno al terreno
arato, l’ultimo solco tracciato dal vomere si compone di un avvallamento
dove scorrono le acque piovane reflue, e un dosso formato dalla terra
rovesciata dall’aratro, proprio questo dosso, secondo un’etimologia
ritrovata da Renzo Mulato in un antico testo, è detto lira. Esso
difende dalla confusione della palude o dal confondersi con l’estraneo,
(e delirare quindi acquista il senso di andare fuori dal seminato o dal
solco sacro che cingeva la città). Delirio è anche parola chiave per
capire Céline nel “Voyage au bout de la nuit”. Egli stesso ne è
consapevole: “Devo entrare nel delirio, devo raggiungere il livello di
Shaekespeare…” ed a più riprese dirà che le pagine meno riuscite del
romanzo sono quelle meno toccate dal delirio. Non a caso all’inizio del
libro Sartre cita Céline, scegliendo un passo che nomina l’individuo,
importante per capire la posizione isolata e controcorrente di Roquentin,
un diverso. Perché appunto rompere ogni difesa dalla confusione della
palude, significa anche rifiutare il codice d’interpretazione
corrente del mondo: “ecco che cos’è la loro esperienza; ecco perché
mi son detto tante volte che odora di morte: è la loro ultima difesa. Il
dottore vorrebbe pur credervi, vorrebbe mascherarsi l’insopportabile
realtà: ch’egli è solo, che non ha capito nulla, che non ha
passato…”. E una volta che si guarda in faccia la realtà e si è soli
ci s’incammina allora goffamente, come s’addice alla figura d’un
vero e proprio anti-eroe, nel pantano del dubbio, dove tutto è incerto.
Il delirio eliminando il confine di difesa con la palude elimina
ogni distanza tra io e mondo: “È l’uomo che ha creato la
distanza”, scrive Sartre, “ed essa non ha senso che in uno spazio
umano…separa Maratona da Atene ma non un sasso da un altro sasso”.
Quello che si percepisce a questo punto è la sensazione di una spazialità
coartata, un troppo-pieno appunto.
Ogni mediazione tra io e
realtà viene meno: da questa considerazione si comprende l’importanza
che in tutto il romanzo viene data all’immagine delle mani. Le mani,
infatti, sono proprio quel medium, la parte del corpo per eccellenza, che
ci permette di manipolare il mondo a nostro piacimento, di entrare in
comunicazione con qualche suo elemento in modo possessivo e
autoritario: afferrandolo, plasmandolo, usandolo. Nel romanzo invece le
mani di Roquentin perdono questa funzione, diventano il corpo in agonia di
un granchio rovesciato sul dorso e dunque impotente, che muore: le
mani e con esse la facoltà attiva e la posizione privilegiata del
personaggio nei confronti del circostante, si annullano. L’io non è più
libero come non lo era all’inizio quando, nel raccogliere un pezzo di
carta caduto nel fango, si suggestiona a tal punto da vedere in esso
una mano bruciata, gonfia, coperta di vesciche. Anche in questo caso la
mano viene ritratta in uno stato di putrescenza, e fa riferimento alla
mancanza di libertà: “ho pensato che non ero più libero”. Dunque ciò
che è vivo è il mondo, è il mondo ad assalire Roquentin che assiste con
disgusto e nausea alla propria dissoluzione in una realtà senza
gerarchie, alla fusione in essa senza nessun distinguo.
LA SCRITTURA.
La memoria. L’ambiguità
e la doppiezza, pure del linguaggio.
Si incomincia dalla
fine, si finisce nel principio? Ma quale è il limite da varcare per
approdare alla verità? Quale velo si deve squarciare?
Sin dalle prime pagine
notiamo che il protagonista, nell’accingersi a redigere un journal
intime, s’interroga sull’efficacia della scrittura quando si deve
dire il vero sulla vita, sul mondo. Già dal principio rivela la funzione ingannatrice della memoria: «Naturellement
je ne peux plus rien écrire de net sur ces histoires de samedi et d’avant
hier, j’en suis déjà trop éloigné… ». La scrittura dunque non deve mettersi al servizio
della memoria. E come per Sartre e un ramo della fenomenologia “essere
non è altro che essere nel mondo”, così essere per il lettore equivale
a essere nella storia…questa sensazione è realizzata dall’uso del
presente nella composizione del journal intime. Ma oltre al ruolo,
quindi, chiarificatore della scrittura, che vuol svelarci la realtà senza
il filtro della memoria, vorrei provare ad indagare sulla possibilità di
altri livelli di lettura, non contraddittori con quanto detto. Ad un certo
punto leggiamo «…j’ai beau fouiller le passé je n’en retire plus
que de ribes d’images et je ne sais pas très bien ce qu’elles représentent,
ni si ce sont de souvenirs ou des fictions : il y a beaoucoup de cas
d’ailleurs où ces bribes elles meme ont disparu : il ne reste plus
que de mots…» dunque la memoria non è il solo filtro che ostacola la
visione vera delle cose…come possiamo comprendere da questo passo, e da
altri, ci sono delle paroline che danno fastidio all’orecchio, che sono
anch’esse ingannatrici. Una di queste è passato. Del passato non
restano che parole dice Roquentin…queste parole non rimandano a niente:
sono esse stesse la “cosa” di cui parlano e cioè il passato, che non
esiste in quanto non è presente. Tutto quel che esiste è presente dice
il protagonista. Il passato è una costruzione della mente, è mera
finzione. Ma c’è un’altra parolina che non ci piace: l’avventura.
«Ce sentiment d’aventure ne
vient décidément pas des événements: la preuve en est fait. C’est
plutot la facon dont les istants s’enchainent.» e poco dopo «le
sentiment d’aventure serait celui de l’irréversibilité du temps». Si
sa che l’irreversibilità del tempo non può essere sperimentata nella
vita: «Les aventures sont dans le livres», anche l’espressione
avventura dunque è svuotata di senso perché in rapporto alla realtà è
una carcassa, uno scheletro, ossia un simbolo indecifrabile, di cui si
riconosce solo la forma. Sebbene non tutte le parole hanno perso per
strada la loro “anima”, ridotte all’apparenza come la vita, in tutto
il testo si nota una non marginale difficoltà a nominare le cose, a
definirle… perché perdono identità e si mescolano l’una
nell’altra, ma anche per cercare d’immergerci, di farci tuffare nella
realtà del testo fatto non di cose ma di parole. Limitando forse così la
nostra immaginazione che viene frenata dall’incomprensione dei tanti
aggettivi dimostrativi disseminati qua e là, e facendo smarrire anche noi
in quel NON SENSO che turba a momenti la nostra lettura. Più volte mi è
capitato di fermarmi a contemplare quel “qualcosa” o “questo”,
“quello” senza capire subito cosa si volesse designare, e arrivando a
comprenderlo solo più tardi. Lo scopo è intrappolare anche noi in questa
marmaglia di parole, come Roquetin è intrappolato in quella delle
cose…e dello specchio. (lo specchio è definito come trappola e forse
questa funzione si può attribuire anche alla pagina su cui l’autore
riflette la sua immagine del mondo che sembra immobile ma in realtà non
lo è, come il viso di Roquentin forse la scrittura può assumere altre
forme se la si guarda con attenzione). Sull’innominabilità
si possono portare come esempio diverse frasi: «L’idée est toujours là,
l’innomable…»; «Les choses se sont délivrées de leurs noms. Elles
sont là, grotesque, tetues, géant et ca paraît imbécile de les appeler
des banquettes ou de dire quoi que ce soit sur elles: je suis au milieu
des Choses, les innommables. Seul, sans mots, sans défenses, elles m’environnent,
sous moi, derrière moi, au-dessus de moi. Elles n’exigent rien,
elles ne s’imposent pas: elles sont là». Questo
linguaggio del vago e dell’indefinito non è usato però sempre, dunque
non si scardina completamente il sistema della scrittura, la scrittura è
ancora il mezzo per portare alla luce la realtà nonostante siano le cose
a tesaurizzare-fuori un chiaro-mistero.
Il linguaggio ha assunto
quindi per noi una duplicità di significato: da una parte è ostacolo al
contatto con ciò che è immediatamente evidente agli occhi del
personaggio, imbarazzato nell’assegnazione di un nome alle cose, e fa
dubbiosi e incerti anche noi; dall’altra ricalca, copia fedelmente le
impressioni e idee sulla realtà che si delineano davanti gli occhi dello
scrittore e fanno blocco contro di lui…perché non appartengono a lui.
Le percezioni di Roquentin non sono espressione di una soggettività ma
sono la musica degli oggetti percossi, la loro voce, sono le proprietà
degli oggetti stessi. Egli prova disgusto quando la cosa è oggettivamente
orribile, prova amabilità quando la cosa è oggettivamente amabile. La
doppiezza è pertanto una caratteristica fondamentale nel libro, non solo
il linguaggio ma ogni cosa ha una doppia faccia: il “troppo-pieno” è
ciò che c’è di più “futile” e “vuoto”, “tutto” è
“nulla”, “apparire” sta per “essere”, ciò che è più
“grottesco” e “assurdo” è il “normale” e “naturale”.
La simultaneità dei
significati, che si sottraggono nel momento in cui s’incontrano, nel
finale porta al risultato di uno zero, un bel tondo. Fine e inizio
coincidono. La conoscenza della verità ha ricondotto il personaggio
all’inizio del suo cammino: è sospeso nel dubbio. Il dubbio iniziale
era “Dove mi condurrà lo svelamento dell’idea?”, il dubbio finale
è “Dove mi condurrà l’idea svelata?” …a scrivere un romanzo?
Sorge nella mia mente il
dubbio che il romanzo di cui parla sia quello appena scritto. Nel
raccontare si incomincia dalla fine dice Roquentin. Forse anche se ne
“La Nausea” la memoria è stata subito messa al bando, questo è stato
fatto per dissimulare (un gioco, la scrittura, quando ogni senso è
perduto). Penso a Sartre, l’autore del libro il cui progetto era stato
delineato da lui fin dall’inizio, che quando ha iniziato a scrivere
aveva in mente le regole generali in cui la storia doveva scivolare e
sfociare, come nella musica si hanno in mente il ritmo e pure le tonalità
in cui il pezzo può modulare passando dall’una all’altra… penso
all’autore del libro come all’autore della musica che distoglieva
dalla nausea il personaggio, ed ecco che il disco comincia a girare
davanti a me, quelle righe dove sono impressi dei segni strani che sono
solcati dalla puntina dello sguardo, rivedo la storia, irreversibile, che
gira a ritroso, già stabilita prima che il secondo scrittore inizi ad
eseguire le note, da bravo esecutore…e la storia, lama ch’affonda
verso la fine, che si precipita verso la fine (non vediamo l’ora che
appaia l’idea, la verità che tanto attanaglia Roquetin) per un attimo
ci ha dato altro a cui pensare, velo essa stessa della realtà in cui
viviamo e spada che la squarcia perchè ci ha tolto la nausea di dosso di
un’esistenza assurda e insensata… ma presto la musica è spezzata:
chiudo il libro che fa eco nella mente: la risposta è nella realtà,
nelle cose e non nelle parole, quindi guardo il calendario davanti a me:
domenica 2 ottobre, una folla indistinta di persone oggi andrà al cinema.
Per distrarsi dalla Nausea?
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