grottaferrata
S.
Nilo e i suoi tempi - 6
di Claudio Comandini
6. Le
meditazioni dell’eremita Nilo (prima parte)
Siamo
nel 940. In Europa continentale, attraversata da frequenti incursioni di
Ungari e Normanni, si preparano le basi di un nuovo impero attraverso le
imprese di Ottone I di Sassonia, che consolida il suo potere muovendo
guerra ai grandi feudatari e cercando alleanza con il clero cattolico, e
del princeps Alberico II (definito a volte, in modo improprio,
“di Tuscolo”) che esercita saldamente il potere civile a Roma,
controllando anche l’azione dei pontefici. Presso l’Impero Bizantino
Romano I Lecapeno sta concludendo il suo governo, al termine delle guerre
con i Bulgari di Simeone (incoronato “imperatore dei Bulgari” dal
patriarca di Costantinopoli, annette la Serbia, assedia Costantinopoli, ed
è sconfitto nel 927), i Russi di Igor di Kiev (con cui nel 944 vengono
avviati rapporti commerciali e l’opera di evangelizzazione) e gli Arabi
(contro gli Abbassidi in Mesopotamia, i Fatimidi di Sicilia e lo
stanziamento Omayade di Frassineto in Provenza). Con anche gli Omayadi
nell’Andalusia, i Berberi in Africa del nord, e bande di pirati un po’
ovunque, i gruppi musulmani, spesso in guerra fra loro, sono
sostanzialmente ben installati nelle zone del Mediterraneo. (cfr. Controluce
2-3/XII).
Dalla città
mesopotamica di Edessa (oggi Urfa o Sanliurfa, Turchia, nei primi secoli
importante per la diffusione del cristianesimo in Siria e Persia, dal 637
contrastato dominio arabo), nel 944 dopo ampie trattative con il sultano
viene portata a Costantinopoli una reliquia in stoffa: il Mandylion
(grecizzazione dell’arabo Mandil), “fazzoletto” su cui
sarebbe impressa un’immagine del volto di Cristo definita acheiropoietos,
“non fatta da mano umana”. Vi si riferisce nel II sec. Eusebio di
Cesarea con la leggenda dei rapporti fra il re Agbar e Gesù; è
ufficialmente trovata murata nella chiesa di Hagia Sophia di Edessa nel
525 durante un assedio persiano; con Giustiniano II nel 691 diventa
modello iconografico e numismatico, ed è poi ampiamente celebrata da
Costantino VII Porfirogenito, successore e già associato di Romano I, che
la espone a S. Maria del Faro (presso l’attuale Fener, quartiere
bizantino della Istambul turca), da dove scompare al tempo del saccheggio
crociato del 1203. Se le vicende del Mandylion permettono
escursioni preziose per comprendere la questione della disputa sul culto
delle immagini, l’ipotesi sostenuta nel 1978 da Ian Wilson circa la sua
identità con il telo della Sindone di Torino sembra forzatamente
adattare dati piuttosto eterogenei, se non incongruenti.
Caliamoci nelle pieghe
dell’epoca seguendo una delle vicende più esemplari della religiosità
medievale, alla confluenza fra occidente e oriente: quella di S. Nilo,
ricostruita in base alle tracce offerte dal Bios, la sua biografia,
redatta da S. Bartolomeo in base a trasmissione diretta (l’opera ha
anche una traduzione latina dal card. Sirleto che supplisce a smarrimenti
di pagine dell’originale in greco), integrata dalla ricostruzione
storica e critica di Germano Giovannelli, che in nota al testo (S. Nilo
da Rossano, Badia Greca di Grottaferrata, 1966) mette in evidenza temi
dalle importanti implicazioni. Nilo ha circa trent’anni, ed ha appena
preso gli ordini presso S. Nazario di Rocca Gloriosa, in una zona di
dominio longobardo in cui poteva sottrarsi alle proibizione poste dal
governatore bizantino di Rossano (cfr. Controluce 5/XIII).
Rifiuta il titolo di egumeno, e si propone sia di astenersi da
onorificenze future, sia di non estromettere monaci per prenderne il
posto, rispettando i voti monacali di castità e purezza del corpo,
definito “ostia e dono offerto a Cristo”, e ricusando
l’avarizia, “radice di tutti i mali”.
A piedi nudi e capo
scoperto, con una tunica pelle di pecora da sé cucita, intraprende un
eremitaggio di quaranta giorni, nutrendosi di frutta e erbe, astenendosi
da pane, vino e cibo cotto, praticando l’arte calligrafica, e
trascorrendo la notte nella preghiera e nelle genuflessioni. Riceve una
visita di elogio da un suo vecchio domestico, a cui dona il mantello, e
quasi anche la tunica, come ad invitarlo alla vita monastica.
Gli episodi del Bios
sono rivelativi della mentalità cristiana e del suo caratteristico
dualismo, dove i voti si accompagnano inevitabilmente, e a volte in modo
cruento, alle prove delle tentazioni dell’ “antitrinità” di mondo,
carne e demonio, con i peccati di avarizia, lussuria e superbia. S. Nilo
esprime una esistenza concepita come dedizione estrema alle virtù
cristiane di “fede speranza e carità”, aderendo agli esempi
della vita degli Apostoli e dei Profeti quasi fosse una citazione delle Scritture
(le fonti più vicine alla sua ispirazione sono riscontrabili in Genesi
III: 17-19, Salmo CXLII (CXLII), Isaia LII: 7, Matteo X: 10, Luca X: 41,
II Tessalonicesi III: 10, Ebrei XI: 37-38, I Corinti XI: 7, I Corinti XIII:
13).
Ancora a S. Nazario un
non meglio specificato gastaldo longobardo che dominava la zona aveva
schiavizzato una donna ai servizi del monastero; Nilo, caratterizzatosi
per la sua schiettezza, viene incaricato dal superiore di dissuaderlo, ma
questo non si fa convincere neanche dalla morte preannunciatagli. Infatti
si ammala, e dopo dieci giorni di febbre fredda viene travolto da una
ribellione popolare, di cui è avvertito dalla concubina (non è chiaro se
la stessa donna a cui ci si riferiva precedentemente o un’altra), e
muore cadendo in terra armato, mentre i suoi sudditi lo danno in pasto ai
cani. Poi Nilo torna, “colmo di Spirito Santo”, ai Padri del
Mercurion.
Al Mercurion trascorre
tre anni. Conosce un’amicizia con Padre Fantino che viene paragonata a
quella fra Pietro e Giovanni e fra S. Basilio e S. Gregorio Nazianzeno, e
in molti stanno ad ascoltare le loro letture bibliche, nelle quali Nilo
aveva ampia competenza. Grande devozione è sentita per l’egumeno
Giovanni: “molte volte si recava a baciare il posto, che i suoi piedi
occupavano in Chiesa”, con riferimento esplicito all’altare del
culto bizantino (vima), il cui tabernacolo (artoforion)
contiene i Vangeli e le Sacre Specie. E Giovanni, da par
suo, lo mette alla prova facendolo cadere in contraddizione in diversi
modi. Gli offre un bicchiere di vino, verificandone l’obbedienza e allo
stesso tempo rompendone l’ascesi: Giovanni lo redarguisce, e di fronte
alle sue dichiarazioni di fede, lo benedice, esortandolo ad una “giusta
via” nell’ascesi. Inoltre, Nilo confrontando la concordanza
interna di alcuni passi della stessa opera, contesta un’interpretazione
di S. Gregorio Nazianzeno datagli da Giovanni, che però gli oppone la sua
autorità, che Nilo accetta. Una visione notturna degli apostoli Pietro e
Paolo si propone di rivelargli l’interpretazione corretta, ma lui la
riconosce come tentazione satanica. Parlando con il superiore, questi gli
rivela il suo alto destino di “luce e sale degli erranti”, e
inoltre riconosce che nella disputa aveva ragione, ma che fosse comunque
preferibile insegnarli l’umiltà.
Ora, non è casuale il
riferimento alla dottrina di Nazianzeno, esponente della Prima Patristica,
in cui viene ampiamente discussa la teologia trinitaria, asserendo l’identità
di natura delle tre persone, le quali si distinguono solo
nell’origine e nel rapporto reciproco: queste riflessioni hanno
all’epoca di Nilo già avuto sviluppi decisivi con lo scisma fra
la chiesa di Roma e quella Bizantina provocata da Fozio patriarca di
Costantinopoli (886), in base alla questione della processione dello
Spirito Santo solo dal Padre e non dal Figlio (cfr. Controluce 2/XIII).
Se non possiamo sapere l’argomento della disputa fra Nilo e Giovanni, è
significativo che vi sia un esteso riferimento all’autore dei Discorsi
Teologici (380), il cui studio Nilo poi approfondirà, influenzandone
probabilmente l’avvicinamento a Roma.
Nilo esprime il
desiderio di recarsi in eremitaggio, e con il consiglio dei monaci si reca
su un monte vicino, in una grotta con un altare dedicato all’arcangelo
Michele, che si voleva edificato da S. Saba da Collesano, sul modello
dell’antico santuario di origine semitica del Gargano.
Successivamente per non
esporsi a superbia si scava una grotta e vi si trasferisce, mantendosi
nella meditazione come una “creatura angelica, assoggettando
la carne allo spirito”, astenendosi dal vino e nutrendosi ogni
cinque giorni di cibi poveri, crudi, praticando veglie, salmodie,
genuflessioni, e dandosi anche la regola di recuperare gli esercizi
eventualmente trascurati, ma senza permettersi lo zelo di fare di più.
Al rigoroso studio
dottrinario si accompagnano quindi precise tecniche che qualificano
l’ascesi in senso “funzionale” oltre che simbolico: secondo le
parole di Giovannelli, attraverso una “eccezionale penitenza
spirituale e corporale”, ricavandone “il dono delle guarigioni,
della profezia, della penetrazione dei cuori e il potere sugli stessi
spiriti infernali”.
Il programma giornaliero
dei ritiri di Nilo è scandito dai ritmi del sacro. Al mattino per tre ore
pratica particolari esercizi di calligrafia, con lettere piccole e
strette, trascrivendo, come aveva fatto a S. Nazario, opere bibliche e
religiose. La sua abilità arriva a riempire 8 fogli in ottavo in tre ore,
con un sistema di tachigrafia sillabico greco da lui inventato e
propagato. Fino a mezzogiorno prega presso la croce, genuflettendosi e
recitando il salterio, cioè i 150 Salmi di Davide,
distribuiti settimanalmente secondo le ore canoniche (salterio è
anche nome di uno strumento a corda a pizzico o plettro usato per
accompagnare i Salmi già dagli ebrei).
Fino alle ore 15 legge e
medita le Scritture e le opere dei Padri della Chiesa, poi recita “l’ora
di nona” prima del vespro, e dopo di questo passeggia nella natura,
per comprendere “il creatore nelle sue creature”, praticando in
un modo forse anche più accentuatamente “naturalistico” ciò che
afferma Paolo (Romani I: 20) riferendosi all’ “invisibile
perfezione” impressa da Dio nella creazione e “offerta alla
considerazione per mezzo delle sue opere”. (continua) |