Omertà
non sta a solidarietà
(Vincenzo Andraous - carcere di Pavia e tutor Comunità Casa del
Giovane Pavia) Quel giorno la professoressa di italiano tentava di
spiegarci che il destino non è una mera fatalità, bensì siamo noi a
tracciarne il senso.
Aveva ragione da
vendere, ma io non volli acquistarne neppure un grammo, tant’è che le
lanciai una matita, colpendola alle spalle.
“Chi è stato?”. Il
silenzio fu l’unica risposta. Venne il Preside, minacciò la sospensione
per tutti, se non fosse saltato fuori il colpevole, ma il mutismo non
consentì alcun dialogo, mentre io mi sentivo fiero della mia bravata, e
protetto dal silenzio dei compagni. Ora so che fu un errore, scambiare
quell’accadimento meschino per una forma di solidarietà. Lentamente ma
inesorabilmente piombai nel baratro più oscuro, e uscirne non è stato
facile. Ho ricordato questo episodio adolescenziale, perché nella Comunità
“Casa del Giovane” dove seguo e accompagno giovanissimi e minori, mi
è capitato di assistere a qualcosa di terribilmente simile: come una
storia sovente ripetuta, senza che alcuno riesca a coglierne
l’insegnamento.
È sottile, quasi
invisibile, il confine che separa il sentimento della solidarietà
dall’omertà, ma quest’ultima non ha parentela con ciò che nasce
spontaneo verso l’altro, ciò che spinge e affianca chi è affaticato,
perché la solidarietà è un sentimento che nasce con forza, con amore,
con verità, per poi ritirarsi senza clamori. Invece l’omertà è un
mezzo per rendere sicura la prepotenza e la prevaricazione, dove i pochi
si nascondono dietro i tanti, e soprattutto, a differenza della solidarietà,
è una subcultura che consente di far pagare ad altri il prezzo della
propria inutilità.
Altri giovani hanno
condiviso la trasgressione con quel minore, ma rimangono in silenzio,
defilati, nella convinzione che l’importante è “farla franca”.
Ecco che allora diventa
prioritario, urgente, intervenire, perché non rimangano seduti
comodamente nell’ultima fila. Proprio in questa cecità ottusa occorre
imprimere il visto di entrata al cuore, e comprendere che è certamente
una sola la via da seguire, cioè quella del sentire il richiamo della
solidarietà vera, quel sentimento che ci induce a farci avanti, a non
nasconderci supinamente.
Non so se oggi, come
ieri, questi fraintendimenti dolorosi che assalgono i più giovani sono il
risultato di una ingiustizia sociale, che moltiplica i casi di
emarginazione, di protesta e di disagio. Però sono certo che non saranno
le parole, i libri, a salvare chicchessia dal proprio destino. Educare
significa non tirarsi indietro, ma avanzare con il bagaglio delle proprie
esperienze, come somma degli errori, per porsi a diga di ogni facile
conclusione: perché solo in questa direzione può esistere una politica
sociale degna di questo nome, che possa partorire giustizia.
Per addivenire a questa
nuova cultura, occorre, ineludibile, una condizione: il diritto alla vita
e alla tutela di ogni minore passa attraverso un’azione collettiva, dove
nessuno può chiamarsi fuori. |