Due
parole sulla critica
(Nicola D’Ugo) - Il filo condutture degli articoli che
costituiscono il lavoro di un critico impegnato, nella loro diversità di
stile e ampiezza, è l’attenzione posta alla letteratura in quanto
capace di produrre discorsi sulle tematiche contemporanee (amore, diversità,
paternità, guerra, democrazia, tecnologia, ambiente, città, calchi
culturali, comunicazione, aspirazione ecc.). Quello che interessa un
critico attento è la letteratura, la capacità di un testo di stimolare
domande e, anche, di offrire risposte a domande, siano risposte alle
nostre richieste di emozioni che di idee. Una difficoltà della critica
letteraria applicata ai testi contemporanei sta nell’individuazione
della forza di un testo, a prescindere dagli interessi momentanei del
lettore e del critico, dalla loro sfera culturale e ideale, dalla
sensibilità che rivolgono a certe tematiche: in altre parole, dalla
prospettiva del lettore che preceda la lettura. Un grande testo mette in
crisi, in genere, proprio quella prospettiva; in qualche caso, invece, le
dà spessore, la approfondisce. Un buon modo di vedere un testo non è
necessariamente anche la migliore prospettiva di un testo diverso; per cui
è necessario, di volta in volta, imparare a guardare il mondo che emerge
dalla prospettiva del testo. Un occhio attentissimo posto in una
prospettiva inadeguata è in genere di una cecità tanto meravigliosa da
sfiorare la più candida ingenuità. Il fascino dell’interpretazione sta
nello scoprire, volta per volta, da dove si vede meglio un testo e
attraverso quali percorsi lo si vede meglio e in modo più diretto. Se il
percorso è felice, un paesaggio smette di essere una veduta e comincia ad
assumere l’aspetto visitabile di un luogo, fatto di quella umanità, di
quelle preoccupazioni, di quelle suggestioni che una volta incontrate si
stenta a dimenticare. Il testo continua a parlare senza più bisogno di
doverlo leggere, esso suggerisce e ammonisce, indica spazi aperti oltre
gli stretti limiti della vita quotidiana (che è solo, in fondo, una vita
che ci è capitata di vivere). In altri termini, non risulta felice
applicare alle Stanze di Poliziano lo stesso criterio di lettura
che può risultare felice leggendo Remains of Elmet di Ted Hughes,
non tanto perché queste opere sono state scritte in occasioni diverse, ma
perché è essenzialmente diversa la loro prospettiva, a cominciare dalla
ricorrenza sonora e dal movimento continuo delle strofe di Poliziano e
dalla umida sospensione, che aleggia e alita fra cielo e terra, dei versi
liberi di Ted Hughes. Allo stesso modo, non risulterebbe felice applicare
uno stesso criterio di lettura a I fiori blu di Raymond Queneau e a
Ulisse di James Joyce, o, in uno stesso autore, alla Terra
desolata e a Rapsodia su una notte di vento di T. S. Eliot,
perché tutti questi testi non sarebbero altro che storie e punti di
vista, più o meno dilettevoli o noiosi in quanto passatempo, nel caso
migliore testi incapaci di dire altro che quello che saremmo disposti ad
ascoltare, benché qualcuno possa trarne vantaggio per fini terapeutici, né
più e né meno di una passeggiata, di una conversazione fra amici, del
tuffo da uno scoglio. Il maggior rischio per un critico rigoroso è
attenersi al metodo di lettura piuttosto vigoroso che ha appreso,
applicandolo, quanto più invecchia, alle ultime novità di un mondo in
continua mutazione.
|