Il passo del
gatto nero
(Cristina Stillitano) - “Ogni nota deve finire morendo” -
insegnava il maestro Sainte Colombe ai suoi allievi nel seicento. La sua
viola da gamba conosceva sfumature così intense e profonde da riuscire ad
imitare le voci umane. Nessuna ridondanza, attenzione assoluta per le
infinite suggestioni di un suono. Poesia di echi e di ombre in uno spazio
che si staglia nel silenzio.
Forse per questo la musica di Anouar Brahem viene talvolta pensata come
una possibile musica da camera del XXI secolo. Per l’equilibrio di
passione e misura con cui il suo liuto riscrive continuamente il motivo
che ha dentro, esplorandolo, nudo e vibrante, fino all’essenza.
“Le pas de chat noir” è l’incontro suggestivo di una raffinata sonorità
orientale con la sensibilità espressiva del jazz europeo. È un incontro
intimo e sommesso, un dialogo poetico che trae forza dall’intreccio
strumentale e ispirazione dalla capacità di ascoltare le voci che lo
animano e lo elaborano. È, forse, anche il suo disco più bello, concepito
in un periodo di pausa, durante il quale Brahem si accostò al piano e
prese a suonarlo senza un’intenzione definita, in maniera modale, come se
fosse il suo strumento. Solo più tardi rielaborò queste composizioni,
spinto anche dal produttore della ECM, M. Eicher, nel progetto musicale
ben preciso ed originale che costituisce il cd e che abbiamo ascoltato
ieri sera nella suggestiva sala settecento dell’Auditorium Parco della
Musica di Roma. Colpisce l’accortezza con cui l’armonia è curata e
protetta. E se si allunga e si spoglia, è solo per conoscere meglio se
stessa, per dare alla sua delicata esistenza un attimo di stupita
consapevolezza e poi tornare a riannodarsi. L’oud di Brahem scandisce un
percorso, ma è il pianoforte di François Couturier a dargli spessore e
dolcezza, l’accordéon di Jean-Louis Matinier a infondergli respiro che -
nei rari, ma bellissimi momenti di improvvisazione - diventa soffio di
vita. E quasi pare di vederlo avanzare quel gatto nero, col suo passo
magnetico e sinuoso. Danza felpata di un mondo malinconico. Poi sparisce
il felino, la musica lentamente prende congedo. Le note si tendono per
l’ultima volta, si abbandonano sino in fondo, a sentire, a guardare dove
arriveranno, dove l’estrema estensione di se stesse coincide col silenzio.
Dove il suono è finito, ma resta - ancora - il suo ricordo. |