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Sommario anno XIII numero 1 - febbraio 2004

 I NOSTRI PAESI - pagina 15

bracciano
Il castello
(Tania Simonetti-Marco Cacciotti ) - Ad uno sguardo di distanza da Roma, presso la sponda meridionale del lago di Bracciano, sorge maestoso il Castello Odescalchi, una tra le più belle dimore feudali dell’intera Europa. Castello menzionato per la prima volta nel 1234, allorché apparteneva ai Prefetti di Vico. Questi, nel 1290, vendettero una parte del territorio all’ospedale romano di S. Spirito in Sassia. Intorno alla metà del sec.XIV il Senato romano avanzò pretese su di esso, e forse l’ottenne. Ciò spiegherebbe l’occupazione del castello da parte delle truppe dei Prefetti di Vico nel 1379. Il Senato romano lo riscattò nel 1380. Nel 1419 Martino V, ne infeudò gli Orsini che lo conservarono, salvo brevi interruzioni (nel 1485 fu preso dai Colonna, e nel 1503 da Cesare Borgia), fino al 1696, allorché lo vendettero agli Odescalchi. Il castello primitivo era assai piccolo e consisteva in un palazzotto con accanto una torre. Quello attuale fu iniziato, per volere di  Napoleone Orsini, intorno al 1470, e continuato, alla sua morte, dal figlio Gentile Virginio, e quindi sempre curato e rinnovato fino alla metà del Seicento. Nel 1560 vi furono accolti i fiorentini Medici, qui giunti per le nozze fra propria figlia Isabella e Paolo Giordano Orsini II (il matrimonio non fu molto fortunato, poiché la donna fu strangolata  nel 1576 dal marito, che l’accusava d’infedeltà, nel castello di Cerreto Guidi vicino a Firenze). Nel 1894 un radicale restauro fu compiuto dagli Odescalchi con opera di Raffaele Ojetti (1845-1924), architetto al tempo assai attivo in quel di Roma. Intatto nelle sue mura esterne, all’interno ha subito notevoli trasformazioni. Imponente ed austero con le sue mura di pietra scura, il castello di Bracciano è considerato uno dei più interessanti esempi di architettura militare fortificata esistenti in Italia. Pur se evidente è la differenza tra la rocca alto medioevale e il corpo successivo di stampo rinascimentale, il complesso che ne risulta, ammantato da una romantica coltre di rampicanti che cambiano colore con le stagioni, colpisce sia per la sua eleganza, sia per il rapporto con l’ambiente circostante.
Il castello è a pianta quadrilatera irregolare, con sei robusti torrioni: cinque cilindrici ed uno a pianta quadrata e una merlatura superiore. All’interno della cinta si apre uno spiazzo con vista sul lago, sul quale si leva la semplice e solenne facciata. Per una scala a chiocciola si sale agli appartamenti del primo piano, i più fastosi del castello, arredati con mobili non tutti d’epoca, ma che ben si adattano all’ambiente. I locali che si susseguono al primo piano sono di particolare interesse. Si ha dapprima la “Sala papalina”, dove soggiornò Sisto IV nel 1481, fuggito da Roma a causa della peste che vi infieriva. Ha il soffitto decorato da Taddeo Zuccari: anche lo “studiolo” è affrescato dallo Zuccari e porta gli stemmi degli Orsini e dei Medici che si trovano avvicinati spesso in altre parti del castello. Poi la “camera di Umberto I” così detta poiché il re vi dormì nel 1900. Ha un soffitto ligneo, la cui decorazione è attribuita ad Antoniazzo Romano ed alla sua scuola. La sala IV è detta del “Trittico”, da un trittico di scuola umbra del XV secolo di cui sono rimaste, sugli sportelli, una Annunciazione e una Crocifissione. Segue la “sala del Pisanello” dal fregio affrescato dalla scuola del pittore che raffigura scene di una leggenda medioevale. La sala VI è quella detta “dei trofei di caccia”: un ambiente grandioso, decorato su una parete da un affresco attribuito ad Antoniazzo Romano ed ai suoi aiuti, raffigurante alcune scene di vita di Gentil Virginio Orsini, lungo le pareti busti di imperatori romani e trofei di caccia degli Odescalchi. La sala VII, la “sala degli Orsini”, cosi detta poiché un tempo conservava 150  ritratti di famiglia, tra cui due busti, opera del Bernini, di Paolo Giordano Orsini II e di sua moglie Isabella dé Medici. Segue la “sala del Leone”, dal leone marmoreo quattrocentesco che è su una bella cassapanca in noce di scuola tedesca e la “camera rossa” o “sala di Isabella”, dove la leggenda vuole che la gentildonna ricevesse i suoi amanti per poi liberarsene precipitandoli nel lago attraverso una botola; è una sala con soffitto in legno dipinto dalla scuola di Antoniazzo Romano. L’arredamento è costituito da un letto e due armadi di epoca barocca. Per uno stretto passaggio si sale al secondo piano. La prima sala, la X nell’ordine, è quella detta “del balcone” arredata con mobilia dei secoli XVI e XVII. Seguono la “sala gotica” con arredamenti neogotici e la “sala d’Ercole”, con fregio raffigurante le fatiche d’Ercole. Contiene una collezione di armi messe insieme dagli Odescalchi a partire dal XIX secolo. Altre armi sono contenute nella sala XIII, risalenti al XV - XVII secolo. Notevole una armatura equestre da torneo. La “sala delle Scienze” era forse in origine una biblioteca e porta sulle pareti un fregio, con figure allegoriche relative ai diversi rami del sapere. La sala XV è detta “Siciliana” da un grande letto in ferro battuto di tipo siciliano. La XVI, detta “sala Etrusca” conteneva un piccolo museo etrusco, e la XVII è detta “camera della Torre” con mobili tardo rinascimentali. Dalla loggia della sala della torre si inizia il giro del cammino di ronda, alla sommità della fortezza, che collega tra loro le torri e consente la visuale completa sul lago, sui paesi vicini, sui monti Sabini e sul Soratte. Da un cortiletto un androne a volta dà accesso ad un grande cortile triangolare, movimentato da un doppio ordine di portici nella parete nord. All’angolo, vi è una scala con tettoia poggiante su colonnine corinzie. In questa parte del castello si aprono altre sale, tra cui quella affrescata dagli Zuccari, di fronte la grande cucina con arredamento d’epoca e la parte destinata al macello. Si narra di una leggenda legata al castello: lungo le rive del lago, nei pressi del castello attiguo, si troverebbe l’inquieto fantasma di Donna Isabella, che avrebbe la prerogativa di adescare i giovani più carini con il suo sguardo ammaliatore, al quale non ci si può sottrarre. Chi cede alle lusinghe della fascinosa Isabella si rende conto troppo tardi di essere vittima di un orrendo fantasma che, quasi come uno zombi di cinematografica memoria, divora il malcapitato. La tradizione romantica del XIX secolo ha indicato nello spettro Isabella dè Medici che, quando sposò Giordano Orsini, visse nel castello di Bracciano conducendo, dice la vox populi, una vita un po’ troppo libertina per l’epoca, commettendo molte infrazioni alla morale del tempo, tirandosi così addosso le accuse dei benpensanti.    
Bibliografia:( Viaggio in provincia- Istituto Italiano Castelli-Bonechi-C.Rendina-M.Centini)


colonna
Presentato il libro “Riecco Colonna”
(Mirco Buffi) - È stato presentato a Colonna il 21 dicembre 2002 il libro di Fausto Giuliani “Riecco Colonna - viaggio spensierato nel dialetto colonnese”. Alla presenza del Sindaco, del consigliere regionale Bruno Astorre, di numerose altre personalità della politica e della cultura locale e di un foltissimo ed eccitato pubblico, sono stati letti alcuni brani dell’opera che hanno letteralmente entusiasmato gli intervenuti.
Il libro consiste in una raccolta di poesie e brevi racconti, molti dei quali già pubblicati dal nostro giornale, nel dialetto di Colonna ed è un’opera che racchiude dentro di sé molti significati.
Alcuni anni fa ebbi una discussione sull’importanza che ha il dialetto. La persona che avevo davanti, infatti, sosteneva che il dialetto impedisce a tanta gente di imparare l’italiano, e criticava il nostro giornale “Notizie in… Controluce”, per la pubblicazione continua di poesie in dialetto. Diciamo che, sicuramente, occorre conoscere la nostra lingua nazionale, perché per avere l’unità di un popolo diversificato è indispensabile avere una lingua in comune, e quando finalmente venne realizzata l’unità d’Italia, quasi un secolo e mezzo fa, era inaccettabile che i suoi abitanti, da una regione all’altra, non si capissero. Occorreva comunicare se si voleva crescere, e l’unico mezzo possibile era appunto adottare una unica lingua: l’italiano.
D’altronde, è quello che sta avvenendo o che sta per avvenire in seno all’Unione Europea. Probabilmente tra un altro secolo o secolo e mezzo, i nostri figli parleranno una lingua europea che, potete immaginarlo tutti, sarà l’inglese. Già oggi, se non si conosce l’inglese, è quasi impossibile, ad esempio, operare su un computer, e sapete bene che importanza ha per la comunicazione di massa quella grande invenzione che è Internet. Tuttavia, tornando al signore di prima, non mi trovava  e non mi trova d’accordo con quanto sosteneva. Il dialetto è cultura pura. Studiando accuratamente i vari dialetti, si può imparare il latino. Faccio un esempio: in monticano “cugino di secondo grado” si dice “coginu conzoprinu”. In latino cugino si dice consopbrinus. Ma non solo! Sempre analizzando le parlate locali, si può stendere un preciso schema dei vari movimenti demografici di massa che si sono avverati  nel corso dei secoli. Così ad esempio, scopriamo che il dialetto monteporziano è molto affine al viterbese, zona Maremma (tante parole che finiscono con la E ad esempio) perché circa 3-4 secoli fa, dopo una micidiale epidemia… di peste se ricordo bene, i feudatari del momento per ripopolare il paese importarono parecchi gruppi famigliari. appunto dalla Maremma.
Conoscendo i flussi migratori, ci è possibile saperne di più sullo sviluppo delle varie società e le loro culture.  Insomma, il dialetto può offrire un’infinità di conoscenze, quindi perché lo dovremmo abbandonare!? O peggio, eliminare dal nostro sapere!? Dunque questo lavoro di Fausto Giuliani, questa bellissima raccolta di poesie e brevi racconti in dialetto colonnese, rappresenta anche un’interessante e utile ricerca storico-sociale di alto valore culturale.
Ma forse non è nemmeno questo l’aspetto più importante dell’opera di Fausto. Quando si parla di un paese, della sua storia e delle sue tradizioni, è perché si vuole in primo luogo far emergere il suo essere. Riallacciandomi a quanto ho detto poco fa, uno può chiedersi: perché questa popolazione, oggi, ha quelle determinate caratteristiche? Perché si distingue da un’altra che abita in un paese che si trova ad appena due tre chilometri di distanza? Ebbene, non è possibile entrare nell’intimo di una cultura paesana, senza capire i sentimenti della sua gente verso la città natia. E il modo migliore con cui il paesano esterna questi sentimenti, è il dialetto. È un po’ come quando si parla in famiglia: quasi sempre non si guarda molto alla forma, a volte basta un cenno, una parola e tutti capiscono, non c’è bisogno di dilungarsi in discorsi complicati, pieni di spiegazioni per permettere a chi ascolta di capire.
Il dialetto è parlare in famiglia.
Il dialetto avvicina la gente.
Il dialetto rende liberi.
Rende liberi perché esce dal proprio essere nella maniera più naturale. Cosa dire, ad esempio, dei soprannomi? Nelle grandi città, quest’usanza ancora resiste nei ristretti gruppi di amici; nei paesi, invece, se uno non ha un soprannome, obbligatoriamente in dialetto, quasi non è considerato un paesano, a volte qualcuno rimane addirittura uno sconosciuto. E poi, via, quante volte vi è capitato di dover parlare di una persona e dover spiegare che è il fratello del cognato del genero del cugino della suocera del marito di Pinco Pallino? E alla fine il tizio… rimane un tizio. Mentre invece, in un paese, basta dire, che so… “Forbicò”, e non c’è bisogno di altre spiegazioni, tutti capiscono di chi si sta parlando. D’altronde spesso è una vera e propria necessità. Infatti in un paese, dove spesso le famiglie sono imparentate tra loro, e quindi con lo stesso cognome, e si tende a dare il nome dei nonni, non raro trovare 3, 4, 5 e anche più persone che si chiamano esattamente alla stessa maniera. Figuratevi se non ci fossero i soprannomi a portare un po’ di luce chiarificatrice in questo casino che cosa succederebbe!
Nello sfogliare questo libro, leggendone le poesie, i racconti, guardando le fotografie, ci si rende subito conto della magia che sprigiona un paese, la sua gente, la sua cultura, il suo dialetto. Piano, piano, si entra nell’intimo di Colonna, si catturano i suoi momenti, belli, tristi, e sembra quasi di essere parte vivente di questo paese, di esserne un protagonista. In tante situazioni ci si riconosce, o ci si vorrebbe riconoscere, perché è un mondo di favole quello descritto da Fausto Giuliani; un modo di vivere genuino, semplice, che spesso oggi non è più, e allora suscita nostalgia, tristezza, desiderio di tornare alle origini. Quelle origini che non tutti hanno vissuto, ma che ognuno di noi… sente, appassionatamente, dentro di sé.

 I NOSTRI PAESI - pagina 15

Sommario anno XIII numero 1 - febbraio 2004