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Sommario anno XI numero 12 - dicembre 2002

CINEMA E TEATRO - pag. 20
“Il pianista” di Roman Polanski
(Roberto Esposti: flann.obrien@email.it) - “Che cosa ho fatto! Che cosa ho fatto!” piange disperata una donna accasciata contro il muro che cinge il grande cortile dei deportati, destinati a Treblinka: piange perché ha soffocato suo figlio, tentando di sfuggire agli aguzzini nazisti. Immagine forte, una delle molte, che passano in questo film di Roman Polanski dedicato all’olocausto degli ebrei di Varsavia.

Polonia 1939, la Germania inizia la veloce occupazione del paese mentre alla radio di stato si esibisce Wladyslaw Szpilman, valente e giovane interprete di Chopin. Il pianista, ebreo come la sua famiglia, decide di non fuggire all’avanzata nazista e di restare a Varsavia. Pagherà tale decisione con la segregazione nel neonato ghetto, sorte che condividerà con i suoi e con gli altri 400.000 ebrei della città: lì dentro assisterà a crudeltà che il suo sensibile animo di artista non avrebbe mai potuto concepire. In seguito perderà prima tutta la sua famiglia, poi la sua dignità di uomo: l’unica cosa che gli resterà sarà un canto, privato, solo suo, quello del pianoforte, passione cui dovrà rinunciare per lunghi anni pur di salvare la pelle, in un mondo annientato dalla barbarie, un mondo che non saprà più che farsene della bellezza. Nella sua personale lotta lo aiuteranno pochi amici, alcuni estimatori della sua passata arte ed infine un ufficiale nazista, restituito alla sua dimensione di uomo dalla sconfitta dell’idea orrenda che accecava il suo popolo ed intimamente colpito dalla bellezza dell’esecuzione di una sonata che, dietro sua richiesta, il giovane artista eseguirà: note che usciranno ad incontrare una città desolatamente distrutta, svuotata e per questo ormai pronta ad essere di nuovo colmata di musica, di bellezza. Indovinata e bella la regia del film: pulita, senza fronzoli, come lo svolgimento della storia, lineare, con la tragedia del protagonista che si interseca con quella del suo popolo. Per Roman Liebling alias Polanski, ogni immagine deve portare un ricordo e fornire un monito: il ricordo dei cari persi, tra cui la sua stessa madre e gli incubi delle immagini del ghetto, vissuto in primis; il monito, che l’orrore può essere dietro l’angolo ed è facile non accorgersene, pur essendo colti, razionali, credendo in valori che si pensano condivisi da tutti gli uomini. Non è una saga questa, non c’è nessun eroe da celebrare, da premiare: questa è la differenza con Schindler’s List, qui c’è un uomo e ci sono altri uomini che semplicemente lottano per salvare la pelle, ognuno con il suo proprio modo, usando la musica o le rivoltelle; vincerà chi sopravvive, ma non sarà incensato eroe, potrà al massimo riconquistare il diritto a non essere ammazzato come un cane, tornare a mangiare decentemente, avere la possibilità di scaldarsi; forse riprendersi la dignità lottando con gli incubi.
Brividi fa correre la scena in cui Wladyslaw scavalca un muro, durante l’ennesima fuga e si trova davanti l’immagine di un enorme boulevard costeggiato da case ridotte a scheletri, macerie ovunque: sembrano quelle di “Germania anno zero” di Rossellini, ma qui non ci sono neanche i fantasmi che si trascineranno per le strade di Berlino: qui semplicemente non c’è più nessuno, il vuoto riempie di angoscia.
Infine, bravo Adrien Brody nella parte del protagonista: interpreta bene lo snobismo, l’incredulità, la pena e la pietà che investono il cuore di Szpilman.
Un film da vedere per pochi importanti motivi.
CINEMA E TEATRO - pag. 20

Sommario anno XI numero 12 - dicembre 2002