“Il
pianista” di Roman Polanski
(Roberto
Esposti: flann.obrien@email.it)
- “Che cosa ho fatto! Che cosa
ho fatto!” piange disperata una donna accasciata contro il muro che
cinge il grande cortile dei deportati, destinati a Treblinka: piange perché
ha soffocato suo figlio, tentando di sfuggire agli aguzzini nazisti.
Immagine forte, una delle molte, che passano in questo film di Roman
Polanski dedicato all’olocausto degli ebrei di Varsavia.
Polonia 1939, la Germania inizia la veloce occupazione del paese mentre
alla radio di stato si esibisce Wladyslaw Szpilman, valente e giovane
interprete di Chopin. Il pianista, ebreo come la sua famiglia, decide di
non fuggire all’avanzata nazista e di restare a Varsavia. Pagherà tale
decisione con la segregazione nel neonato ghetto, sorte che condividerà
con i suoi e con gli altri 400.000 ebrei della città: lì dentro assisterà
a crudeltà che il suo sensibile animo di artista non avrebbe mai potuto
concepire. In seguito perderà prima tutta la sua famiglia, poi la sua
dignità di uomo: l’unica cosa che gli resterà sarà un canto, privato,
solo suo, quello del pianoforte, passione cui dovrà rinunciare per lunghi
anni pur di salvare la pelle, in un mondo annientato dalla barbarie, un
mondo che non saprà più che farsene della bellezza. Nella sua personale
lotta lo aiuteranno pochi amici, alcuni estimatori della sua passata arte
ed infine un ufficiale nazista, restituito alla sua dimensione di uomo
dalla sconfitta dell’idea orrenda che accecava il suo popolo ed
intimamente colpito dalla bellezza dell’esecuzione di una sonata che,
dietro sua richiesta, il giovane artista eseguirà: note che usciranno ad
incontrare una città desolatamente distrutta, svuotata e per questo ormai
pronta ad essere di nuovo colmata di musica, di bellezza. Indovinata e
bella la regia del film: pulita, senza fronzoli, come lo svolgimento della
storia, lineare, con la tragedia del protagonista che si interseca con
quella del suo popolo. Per Roman Liebling alias Polanski, ogni immagine
deve portare un ricordo e fornire un monito: il ricordo dei cari persi,
tra cui la sua stessa madre e gli incubi delle immagini del ghetto,
vissuto in primis; il monito, che l’orrore può essere dietro l’angolo
ed è facile non accorgersene, pur essendo colti, razionali, credendo in
valori che si pensano condivisi da tutti gli uomini. Non è una saga
questa, non c’è nessun eroe da celebrare, da premiare: questa è la
differenza con Schindler’s List, qui c’è un uomo e ci sono altri
uomini che semplicemente lottano per salvare la pelle, ognuno con il suo
proprio modo, usando la musica o le rivoltelle; vincerà chi sopravvive,
ma non sarà incensato eroe, potrà al massimo riconquistare il diritto a
non essere ammazzato come un cane, tornare a mangiare decentemente, avere
la possibilità di scaldarsi; forse riprendersi la dignità lottando con
gli incubi.
Brividi fa correre la scena in cui Wladyslaw scavalca un muro, durante
l’ennesima fuga e si trova davanti l’immagine di un enorme boulevard
costeggiato da case ridotte a scheletri, macerie ovunque: sembrano quelle
di “Germania anno zero” di Rossellini, ma qui non ci sono neanche i
fantasmi che si trascineranno per le strade di Berlino: qui semplicemente
non c’è più nessuno, il vuoto riempie di angoscia.
Infine, bravo Adrien Brody nella parte del protagonista: interpreta bene
lo snobismo, l’incredulità, la pena e la pietà che investono il cuore
di Szpilman.
Un film da vedere per pochi importanti motivi. |