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Sommario anno XI numero 4 - aprile 2002

 SCIENZA E DIVULGAZIONE - pag. 19

Humanae litterae, humanae scientiae
(prima parte di due)

(Luca Nicotra) - Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando la cultura italiana, uscendo dall’isolamento in cui l’aveva confinata l’autarchia fascista, riaprì i suoi canali di comunicazione con la cultura d’oltralpe, cominciò a farsi timidamente strada anche da noi l’idea di una cultura scientifica non riservata all’uso esclusivo da parte degli addetti ai lavori, bensì rivolta ad un più vasto pubblico, del cui patrimonio culturale essa avrebbe dovuto far parte a fianco e complemento della cosiddetta cultura umanistica.
A porre l’accento su tali nuovi intenti, fu anche proposto il termine Umanesimo Scientifico, nella speranza di guadagnare agli studi scientifici quella medesima dignità che la tradizione culturale nazionale aveva fino allora riservato agli studi filosofico-estetico-letterari.
Sorsero le prime riviste scientifiche a carattere largamente divulgativo e interdisciplinare, rivolte soprattutto ai giovani, nell’intendimento di sensibilizzare la loro coscienza ad una nuova visione meno tecnicistica delle discipline scientifiche e maggiormente carica di significati umani. Non mancavano in Italia riviste a contenuto interdisciplinare, o che comunque offrissero una visione delle discipline scientifiche integrata entro un contesto culturale più ampio di quello offerto dagli aspetti puramente tecnicistici. Si ricordino, per esempio, la prestigiosa rivista internazionale di sintesi scientifica “Scientia”, fondata nel 1907 dal grande matematico Federigo Enriques e dal filosofo e psicologo E. Rignano, “Nuova Antologia”, “Il Veltro”, “Civiltà delle macchine”, ed altre ancora. Nel più ristretto ambito delle matematiche, ma decisamente orientata a presentare anche gli aspetti storico-filosofici della materia, si ricordi poi il glorioso “Periodico di Matematiche” fondato in Roma nel lontano 1886 da Davide Besso e diretto successivamente da matematici illustri quali Federigo Enriques, Oscar Chisini e, negli anni Settanta, da Bruno De Finetti. Tuttavia, si trattava di riviste ad alto livello, destinate, non tanto per espressa volontà, quanto per naturale selezione, ad una cerchia ristretta di studiosi, più che ad un vasto pubblico di livello culturale medio. “Endeavour”, rivista trimestrale pubblicata per segnalare il progresso della scienza al servizio dell’umanità, usciva nel 1942, per iniziativa della società Imperial Chemical Industries Limited, in cinque lingue: inglese, francese, italiano, spagnolo e tedesco. Era sicuramente interdisciplinare, ma limitata all’ambito scientifico e tecnologico, e inoltre era espressamente rivolta ai ricercatori. L’unica rivista scientifica, di cui ho conoscenza, che potesse vantare una buona divulgazione e nello stesso tempo un’ottima diffusione a livello nazionale, era “Sapere”, fondata nel 1935 da Carlo Hoepli. Nel 1948, pubblicato in nove edizioni nazionali, usciva il “Corriere”, per cura dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO). L’anno dopo, nel 1949, appariva “Illustrazione Scientifica”, per i tipi della casa editrice Garzanti, che, per i contenuti, si poneva allo stesso livello divulgativo di “Sapere”. Nel 1952, per iniziativa di Roberto Giannarelli e Biagio Giannelli, e successivamente sotto la direzione anche di Roberto Spinoso e Salvatore Nicotra, usciva “La scienza e i giovani”, edita da Le Monnier, che larga diffusione ebbe presso le nostre scuole secondarie superiori e che più di ogni altra si sforzò, negli anni del dopoguerra, di curare agli occhi dei giovani la nuova immagine più “culturale” della scienza.
Ma l’eco ancora viva dell’idealismo crociano-gentiliano, il peso, peraltro non privo di grande fascino, della plurisecolare eredità della cultura classica, nonché la forte presenza della Chiesa cattolica, con il suo culto della classicità e la sua non celata avversione al progresso scientifico, non consentirono di far posto, senza opporre resistenza, all’idea di una cultura diversa e più completa rispetto a quella che fino allora era stata considerata come unica cultura possibile, vale a dire quella umanistica. Mentre è universalmente riconosciuto il fiorire in Italia di una civiltà letteraria, che ha saputo influenzare non soltanto la sensibilità e il gusto nazionali, ma anche la cultura europea, non si sono verificate, per ragioni storiche, le condizioni favorevoli all’affermarsi di un’analoga civiltà scientifica. Esclusa la parentesi galileiana, in Italia, infatti, si sono avuti numerosi nomi illustri nel campo della scienza, e particolarmente in quello delle scienze matematiche e fisiche, ma si è sempre trattato di personalità, spesso geniali, il cui operato è rimasto isolato e confinato nel ristretto ambito accademico e di settore. È mancato, insomma, l’inserimento dell’opera dei nostri scienziati in movimenti culturali di portata tale da coinvolgere non soltanto una più larga schiera di uomini di pensiero, ma anche la sensibilità popolare, a differenza di quanto è accaduto fuori d’Italia. Si pensi, invece, per esempio, alla diffusione della scienza in Francia ai tempi del grande matematico Henry Poincaré e ai movimenti epistemologici fioriti nei paesi anglosassoni ai primi del Novecento (il Circolo di Vienna, la Scuola di Berlino, eccetera), laddove cioè l’eredità classica e l’influenza della Chiesa cattolica erano meno condizionanti che in Italia.  
Una siffatta egemonia, praticamente incontrastata, per le ragioni dianzi accennate, da una valida controparte che ne ridimensionasse i termini e arginasse gli eccessi, ha indotto, per reazione, molti degli spiriti più illuminati a muovere critiche, a volte astiose, non tanto sul contenuto di quella cultura dominante, quanto sulle degenerazioni della sua gestione e sulle false e arbitrarie interpretazioni di una presunta, quanto ingiustificata, sua superiorità.
Un primo autorevolissimo richiamo ad una cultura alternativa a quella classica, o meglio, come vedremo oltre, complementare ad essa o ancora meglio altra faccia di un’unica cultura, ci viene da Leonardo quando, con evidente provocazione, ostentava il suo essere “omo sanza lettere”, volendo così sottolineare tutto il peso della sua formazione di scienziato-artista. Ma se è ben nota la versatilità letteraria di Leonardo attraverso la lettura dei frammenti della sua produzione letteraria, è altresì da ricordare la sua ossessiva preoccupazione di ricercare per ogni occasione il vocabolo più adatto, che lo portava a redigere interminabili elenchi di termini linguistici, che poi sottoponeva ad una minuziosa analisi. Si vedano in proposito alcuni dei manoscritti della Biblioteca dell’Istituto di Francia e soprattutto il “Codice Trivulziano”, ove Leonardo raccolse migliaia di vocaboli tratti dai “Rudimenta Gramaticae” di Nicolò Perotto e dal “Vocabulista” di Luigi Pulci, oltre molti altri, spesso di significato oscuro e ambiguo, da lui stesso coniati e ispirati all’uso parlato della lingua. A fugare, infine, ogni dubbio sulla falsità dell’autodefinizione leonardesca, si ricordi il giudizio di Francesco Flora sulla priorità di Leonardo, rispetto anche al Machiavelli e al Guicciardini, nell’affrancare la prosa dalla forma medioevale della “liturgia verbale”.
E per giungere ai nostri tempi, viene in mente quanto scriveva Cesare Lombroso nel lontano 1903: «Quanto dovranno sorridere i nostri nipoti pensando che migliaia e migliaia di uomini hanno creduto sul serio che qualche frammento di classico, studiato sbadigliando e per forza, e dimenticato più facilmente che non appreso, e peggio ancora, le aride regole grammaticali di una lingua antica, siansi credute lo strumento più prezioso per acuire l’ingegno del giovane, più che non l’esposizione dei fatti che più lo dovrebbero interessare, e più della ragione dei fatti stessi». (da “Le piaghe d’Italia” in C. Lombroso “Il momento attuale” Casa Editrice Moderna, Milano, 1903). E ancora l’Hartwich: «Il Ginnasio, monopolizzato col suo culto per le lingue morte e la sua idolatria per la grammatica, è riuscito a renderci estranei al secolo in cui viviamo».
Gli inconfutabili progressi in campo scientifico, tuttavia, imposti all’attenzione del grosso pubblico attraverso svariate manifestazioni spesso spettacolari (le applicazioni militari e civili dell’energia nucleare, le nuove applicazioni delle radio-telecomunicazioni, gli elettrodomestici, e tutte le altre “meraviglie” della scienza e della tecnica) non consentivano più di ignorare una realtà culturale che ormai aveva raggiunto una presenza fenomenologica, nella vita di tutti, troppo rilevante, per passare ancora inosservata.
Le nuove frontiere della Fisica, e in particolare lo sconfinamento in essa di temi tradizionalmente di pertinenza della speculazione filosofica (i nuovi concetti di tempo e spazio, di contemporaneità, il determinismo e il probabilismo, il continuo e il discontinuo, eccetera), il rafforzarsi della coscienza delle proprie metodologie da parte della scienza tutta e il suo conseguente porsi sempre più come ricerca metodologica, e non più come mera collezione di dati sia pure razionalmente organizzati, hanno finito con l’offrire anche al grosso pubblico una nuova immagine della scienza, meno legata agli aspetti tecnico-applicativi, ma più filosofica, mettendo in luce peraltro la sua capacità di coinvolgere l’uomo in problematiche di più ampio respiro, cioè, in ultima analisi, mettendo in luce il suo poter essere cultura.
Si è allora cominciato a parlare di due culture: l’estetico-letteraria, od umanistica, e la scientifica, viste dai più come contrapposte, da alcuni, più possibilisti, come complementari, e da pochi, infine, come un’assurda e artificiosa dicotomia di un’unica cultura intrinsecamente inscindibile nei suoi componenti, pena il rischio di perdere la sua identità.
«La cultura è il sistema di idee vive che ogni epoca possiede. Meglio: il sistema di idee a partire dalle quali vive ogni epoca», dice il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset (J.O.Y.Gasset, “Mision de la Universidad”, 1930, in “Obras  Completas).


Sommario anno XI numero 4 - aprile 2002