Sommario anno XI numero 4 - aprile 2002
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Babymen
(Vincenzo Andraous -
Carcere
di Pavia) - Gli
uomini ritornano a frequentare l’agorà lasciata per troppo tempo in
solitudine, ritrovando il senso delle somme, delle detrazioni da
quantificare con la capacità prospettica per un futuro non più lasciato
alle solite deleghe in bianco. Sono tempi questi, in cui chi non dà il
proprio contributo, rischia di rimanere al palo ad aspettare un tram che
difficilmente si fermerà a raccogliere i ritardatari. Soprattutto sono
tempi adatti a smentire le teorie dell’eterno ritorno, tempi che debbono
stabilire le differenze tra passato, presente e futuro, differenze che non
possono essere lasciate al caso, alle parole lanciate e rincorse, agli
slogans ideologici ridondanti di bene comune. Sono tempi che non
consentono cadute all’indietro, nel vuoto di memoria, di amnesie
culturali e generazionali.
Rivoluzione e brigate rosse, risoluzioni e comunicati, spari e cadaveri.
Postmodernità e vecchi merletti, niente di nuovo all’orizzonte, se non
il rinculo di un inverso diritto.
Tanti anni fa, esisteva il ruggito proletario che mieteva vittime e
speranze all’insegna di un ipnotismo collettivo, sì, delirante, ma
anche condiviso dalle masse più influenzabili, perché lacerate da
aspettative disattese. Un brigatismo forgiato nelle scuole, nelle
fabbriche, nelle periferie dimenticate.
Persino nelle celle di un carcere, si esorcizzava la paura della
sconfitta, dubitosa all’inizio, più certa nel corso della battaglia.
Anche nella liberta perduta, l’assolutismo ottuso era vinto
nell’alcool delle parole, degli slogans inebetiti e inebetenti, nei
tanti e troppi volti inchiodati alle sbarre delle finestre, in attesa di
una liberazione che non sarebbe mai avvenuta. Era l’utopia a fare da
conduttrice ai sentimenti, a fare da maschera alle proprie inadeguatezze.
Questi tempi odierni, sono diversi, non solo sono cambiate le condizioni
per gli inarrestabili mutamenti intervenuti, soprattutto sono cambiati gli
uomini, le persone, le generazioni. Sarà anacronistico e fors’anche
impudente il pensiero che mi assale, ma queste nuove brigate rosse, questi
nuovi avamposti del ferro e del fuoco, fanno intravvedere una simbiosi
scombinata di ben altra realtà.
Si è parlato molto delle babygang,
di come fanno o meglio pensano di fare collettivo, di come recintano
un’area dove tutto può essere condiviso.
Giovani per-bene perché finanziariamente approvvigionati, giovani con
poche monete nelle tasche, ma tutti disagiati, perché senza idee,
sprovvisti di tecniche dialettiche e politiche, fin’anche di estremismi
pseudo-solidali.
Chi oggi si presenta sul palcoscenico nazionale, è qualcuno che ha perso
il suo tempo, che veste abiti mentali vetusti e tarlati da un decennio di
vita a vivere, e non di vita da combattere a tutti i costi.
È qualcuno, sì, ben fornito di cultura, di nozioni tecniche economiche,
ma solo in apparenza è un conduttore autorevole, perché nonostante il
suo carico di terrore, di metriche logorroiche, tradisce la propria
identità di educatore di anime delittuosamente ingenue, di anime
purtroppo già derelitte e sconfitte.
È qualcuno che tradisce un’identità non libera né liberante, che non
possiede edificio da ricostruire sulle ceneri del passato, proprio perché
chi rifiuta le scelte, tutte, in blocco, non conosce libertà, né può
essersi mai sentito un uomo libero.
Allora e con sorpresa non ci sono solamente le babygang a scorrazzare sulle strade, c’è un nuovo soggetto che
irrompe nella nostra società, i babymen,
sparuto gruppo dell’ultima fila, ospiti fissi dei rifugi del comodo
silenzio, interrotto dalla frazione di uno sparo, attori inconsapevoli
della propria patologia di Peter Pan, confermata nelle miserie
esistenziali di uomini infantilizzati dal disimpegno, dal rifiuto del
dialogo, del confronto.
Uomini sempre più soli, destinati al macero, come le parole rubate sui
libri di storia, distorte fino a farle diventare replicanti di sé stesse,
in un remake degli anni di
piombo, che nessuno vorrà rivedere.
Mai più.
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