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Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001

IL PENSIERO E LA PACE - pag. 26-27

 
Un’aspirazione e un diritto inalienabile, la pace

di Sergio Maria Faini

[14 ottobre 2001- in occasione della tredicesima “Marcia per la Pace” Perugia-Assisi]

Noi “esistenti” vogliamo la pace!Ogni uomo della Terra vuole vivere la propria vita pacificamente: condizione indispensabile per crescere spiritualmente e materialmente; per riprodursi ed allevare la prole; per invecchiare con serenità e per accettare, infine, la propria ineludibile finitezza.Ma la pace è una “conditio” complessa, è una costruzione che poggia su fondamenta, altrettanto complesse, che richiedono precisi vincoli di stabilità.Nel tempo si sono costituiti ed utilizzati com’elementi di stabilità vari valori: in primis, la soddisfazione dei bisogni primari; e successivamente, via via, la libertà di pensiero e di fede, l’uguaglianza nel diritto, il benessere, l’educazione e l’informazione, la qualità della vita, la solidarietà e il rispetto reciproco.Valori conquistati attraverso cruente battaglie tra membri della medesima specie: esseri “teoricamente” uguali; ossia nati con le stesse attese, ma diversi per situazioni ambientali e culturali molto variegate ed eterogenee.L’enorme disuguaglianza delle condizioni di partenza - quelle alle origini delle singole vite e d’intere aggregazioni umane con le stesse caratteristiche ambientali - ha prodotto una divisione iniziale della Comunità terrestre in popoli e gruppi sociali molto differenti, creando le premesse - dove non è stato possibile compensare tale divario con l’emigrazione o con l’attività creativa – per una netta, e in molti casi permanente, separazione tra le società; scissione che oggi ritroviamo confermata nelle concentrazioni umane, privilegiate, in aree d’elevato benessere, rispetto quelle forzatamente confinate, per origini e per storia penalizzanti, in aree povere e d’estrema emarginazione.Le due contrapposte condizioni esistenziali - ossia quella di coloro che sono definiti “globalizzatori” e quella degli altri, detti “globalizzati” - sono caratterizzate, inevitabilmente, da crescite materiali e spirituali a due velocità; che sembrano oggi impareggiabili nella pratica e incapaci di ridurre la storica distanza-differenza, attraverso lo scambio e il travaso - che dovrebbe essere doveroso - degli elementi culturali e spirituali necessari alla costruzione di “un mondo comune” nei bisogni e negli ideali esistenziali.La storia del mondo degli uomini, ed oggi la cronaca di tutti i giorni, racconta e ricorda questi eventi; razionalizzati comunemente con tesi molto complesse e articolate: alcune, le più, cercano di spiegare e di giustificare tale cruda realtà; altre, le poche, sollecitano ancora l’attenzione d’ogni essere - qualificato “intelligente” - a porsi, e a riproporsi instancabilmente, il “problema” per trovare una soluzione possibile alla tragica situazione.Due contesti sembrano essere, nell’epoca attuale, i luoghi e le sedi per affrontare questa delicata problematica, sia sul piano materiale, sia su quello spirituale: nel primo, si puntano le speranze nell’auspicato incontro - serio, etico ed efficace - tra i “globalizzatori” e i “globalizzati”; nel secondo, si cerca di dar vita all’incontro-dialogo tra le grandi religioni, altrettanto auspicato.Vorremmo essere tutti più ottimisti di quanto sentiamo d’essere - e di quanto i demoniaci organi della scorretta informazione c’inducono a sentire e a pensare - in merito ai lavori ed alle risoluzioni prodotte nelle due sedi accennate.Ma la bagarre di questi ultimi tempi sulla globalizzazione - presentata dai media con la giustificazione teorica di dare informazione e con il desiderio spasmodico, malcelato, di fare spettacolo ad elevato indice d’ascolto - non ci fa ben sperare; bensì mostra, oltre ogni dubbio, l’incapacità del pensiero umano, contemporaneo, di avvicinare nel profondo tale realtà, per intuire spregiudicatamente, e soprattutto spiritualmente, le “cause” prime che hanno creato le condizioni per “effetti” terribili, ed efferati, quali quelli dell’11 settembre scorso.Gli esseri intelligenti debbono imparare ad “intellegêre” tra gli eventi, distinguendo cause ed effetti, e soprattutto riconoscendo i legami e la consequenzialità tra le une e gli altri. Senza questa azione, cosciente e responsabile, non si possono risolvere alla radice le citate problematiche, ed ogni risoluzione - venendo meno le qualità essenziali - risulterà inefficace, temporanea ed espressione del potere del più forte in quel dato momento.
L’analisi, nella prospettiva cause-effetti, degli eventi che coinvolgono le “umane genti” richiederebbe ben altro spazio; molto è stato detto con buone intenzioni, ma con scarsa efficacia, e il risultato è davanti agli occhi di tutti: non è cambiato nulla, non sembra che stia cambiando, e le varie tesi sono considerate, ormai, luoghi comuni e “già sentito”. Ma i temi e gli argomenti sono urgenti e debbono essere affrontati seriamente tra tutte le diversità.
È in tale spirito che ci proponiamo, nonostante il limitato contesto, di richiamare l’attenzione con due domande, a nostro avviso, molto attuali e presenti nelle coscienze di uomini appartenenti a popolazioni e ad aggregazioni sociali differenti per cultura, costume e credenza religiosa e, soprattutto, per reddito pro-capite.
I_ Come far convivere nei nostri tempi le tre “etiche” dominanti: quella utilitaristica dei potenti; quella bisognosa degli emarginati e quella, infine, “della paura”, terza nell’ordine ma non meno concreta delle altre?
II_ Come individuare l’elemento comune, presente nel sentire religioso dei tre monoteismi, idoneo “ad unire”, anziché continuare “a separare”... come sta accadendo ancora oggi?
Proviamo a rispondere a queste due domande, mettendoci nei panni di un uomo “comune”, occidentale e di media cultura. Proviamo, in altre parole, a leggere gli eventi e ad ipotizzare soluzioni possibili dal nostro punto di vista, da quello di “un fortunato, nato nell’area privilegiata dal benessere”.
Non potremmo fare diversamente, perché siamo convinti di non poterci calare in situazioni diverse da quelle nostre, conosciute, e siamo consapevoli che le “altre”, quelle degli emarginati, possono essere soltanto immaginate e mai profondamente comprese, al di fuori di una concreta sperimentazione delle stesse ‘de visu et in loco’.
La prima domanda, a nostro avviso, coinvolge principalmente l’esistenza materiale; l’essere di carne, bisognoso di soddisfare desideri ed aspettative di natura “materiale”, sensibile; ossia richieste provenienti dalla sfera soggettiva e dal quotidiano oggettivo, riguardanti prioritariamente l’essere nella sua estrinsecazione specificatamente naturale e spontanea.Nella domanda abbiamo evidenziato tre comportamenti principali: quello utilitaristico dei potenti; quello degli emarginati e, infine, quello dominato dalla paura. L’esperienza e l’osservazione spregiudicata c’inducono a pensare che i tre modi dell’essere umano non si possano armonizzare tra loro; la memoria dei popoli, la storia e la cronaca di tutti i giorni sembrano confermarlo; ma l’immagine di questa armonia (accordo), spesso definita utopia, giace nel profondo dell’aspirazione d’ogni uomo, d’ogni tempo, sin dalle epoche più remote. Tale estrema ipotesi di speranza è stata vissuta, con il sacrificio e l’offerta della vita, dai primi cristiani; in forme più grossolane, ma con lo stesso sentimento d’immolazione, dai movimenti rivoluzionari nella seconda metà del Secondo Millennio; ed oggi, dopo l’“utopia socialista e comunista”, costituisce, ancora e più che mai, il centro delle aspirazioni della maggioranza degli esseri umani, presenti sulla Terra.Questo diffuso, ed avvincente, desiderio-sogno è realizzabile? Lo potrà essere nel tempo? Quali sono le condizioni affinché divenga realtà?Se potessimo guardare l’opera degli umani di due o tre generazioni consecutive dall’alto, con il massimo distacco, imparzialmente - ossia senza esaltazione della ragione e senza svolazzi incontrollabili del sentire - scopriremmo cose straordinarie. Vedremmo piccoli gruppi d’uomini (guidati dall’etica utilitaristica dei potenti) presi, e compresi, nel trasformare risorse “potenziali” in risorse “effettive”; impegnati nel “gioco della legge del mercato”, che stabilisce in funzione della richiesta di beni - naturale o indotta - le regole per la loro produzione, distribuzione e consumo. Assisteremmo al movimento in circolo del denaro - fonte primaria e motrice di tutte le azioni legittime, ed illegittime, dell’epoca attuale -; all’estrinsecazione del potere dei detentori di questa forza impalpabile; ed alla crescita inarrestabile del dominio di questi gruppi sull’intera Umanità.
Vedremmo poi la maggioranza degli umani (stimata oltre l’85%), distribuita in varie fasce esistenziali (non solo del Terzo Mondo): da quella in parte tiranneggiata dal bisogno dei beni primari, e in parte lusingata e soggiogata da beni superflui, a quella della cruda e disperata emarginazione, sempre più estesa. Masse d’individui che lottano per il quotidiano; che non possono utilizzare al meglio la loro cultura e le informazioni che circolano nelle aree privilegiate e di benessere; che emigrano alla ricerca di siti più generosi. Moltitudine d’esseri “dominati”: alimentati con le molteplici forme dell’avversione, indotti all’odio; e confinati in esistenze di paura, d’angoscia e di malattie.All’occhio disinvolto ed attento apparirebbero, in altre parole, due forme di vita. La prima - apparentemente più evoluta, creativa, sana e longeva, capace di aprire nuove frontiere e di utilizzare a proprio vantaggio le risorse potenziali del pianeta - è costituita da una minoranza compatta d’esseri, chiusa su se stessa, molto motivata e disponibile a qualsiasi compromesso pur di raggiungere i suoi scopi utilitaristici, all’interno della propria etica. L’altra, si presenta più variegata, disomogenea e molto differenziata nelle priorità degli obiettivi, e, soprattutto, incapace di convertire le conoscenze e le potenzialità della propria cultura in opere di crescita efficaci e in quelle di difesa, contro gli svantaggi e l’invadenza della “globalizzazione” in corso, con mezzi ed azioni condivisibili dalla comune liceità universale. Da questa
osservazione-constatazione sorgono alcune considerazioni-domanda: gli uomini sono tutti eguali? Ossia, hanno tutti le stesse potenziali capacità creative e di risposta nei confronti dell’ambiente, oltre le altre caratteristiche, proprie alla specie?
Se riconosciamo l’uguaglianza nelle potenzialità... non possiamo non chiederci come mai, nel tempo, soltanto alcuni gruppi hanno sviluppato “culture dominanti”, mentre la maggioranza degli altri si è lasciata dominare, fino ai nostri giorni.
Si è detto, si ripete continuamente ed è stato menzionato anche all’inizio del presente scritto, che l’origine di questa differenziazione ha come causa la natura ambientale, la quale, dove è stata più generosa, ha facilitato lo sviluppo dei popoli, e dove essa è stata più avara, lo ha rallentato fino ad ostacolarlo completamente.
Se questa ipotesi fosse vera in assoluto e se la valorizzazione delle risorse di un ambiente povero provocasse sempre sviluppo distribuito, ci dovremmo chiedere come mai nei paesi e nelle aree ricche di petrolio, di diamanti e di metalli pregiati, ciò non sia accaduto. Non è cambiato nulla: in Iran, in Iraq, nell’Arabia Saudita, e in altri paesi arabi ricchi d’oro nero; né nell’aree diamantifere dell’Africa; e, nemmeno, in quelle del Sud-America, ricche di minerali indispensabili per l’industria moderna; come non è mutata l’esistenza dei popoli in tanti altri posti, dove lo “spirito occidentale” è penetrato in diverse forme: per convertire al cattolicesimo; per allargare il mercato e gli scambi; per colonizzare e sfruttare; e, infine, per esportare la democrazia. Forse l’India e, più recentemente, alcuni Paesi dell’area Est-asiatica sono entrati in un’era nuova, a seguito dell’influenza, nel bene e nel male, del Mondo Occidentale.
L’osservatore attento del panorama geo-politico mondiale non può non nutrire elementi di dubbio sull’assunto dell’eguaglianza potenziale: non può non rilevare gli effetti di “una certa inclinazione” o “disposizione creativa, inventiva, dominatrice” nei confronti del mondo altro da sé, circostante, che di fatto ha guidato alcuni gruppi umani nella costruzione, e nella difesa, di “culture dominanti” più progredite.
Ma con quest’ultima considerazione - forse troppo generica, semplicistica ed irritante, ma non scevra da contenuti realistici - non vogliamo distruggere i residui bastioni della speranza; vorremmo, piuttosto, rafforzarli proponendo alcune linee di direzione, che a nostro parere, dovrebbero essere seguite per invertire la tendenza e per avvicinare la risoluzione delle problematiche che intrecciano i destini dei “globalizzati” con quelli dei “globalizzatori”.Noi non crediamo alle facili soluzioni dei portatori di un sentimentalismo superficiale e smielato, istintivo e ignorante, e sempre incapace di assumersi oggettive responsabilità, di là dalla protesta gridata, dei cortei simbolo e della smodata ambizione alla visibilità del proprio essere “bonista”. Noi crediamo nel processo lento e concreto dell’educazione, nel travaso di conoscenze utili ad innescare lo sviluppo, e nell’aiuto economico finalizzato a stimolare l’aspirazione all’autonomia e all’assunzione responsabile della fattibilità del proprio destino.
L’educazione paziente all’acquisizione delle informazioni, attraverso una più efficace istruzione primaria, secondaria e specialistica; il trasferimento di tecniche compatibili con il divario culturale e assimilabili efficacemente; lo stimolo e l’incoraggiamento all’autonomia nel proprio contesto culturale; gli investimenti specifici e puntuali, attraverso aiuti concreti, gratuiti e responsabilizzanti, diretti a soggetti singoli e a gruppi comunitari, seriamente disponibili ad assumere in proprio la realizzazione del loro sviluppo.Questi dovrebbero essere gli indirizzi-doveri dei cosiddetti “globalizzati” e, nello stesso tempo, dovrebbero costituire i minimi impegni-doveri dei “globalizzatori” nei confronti dei più diseredati.Ma ai più fortunati, a quelli che hanno risolto da secoli i bisogni primari, competono ulteriori e più incisive azioni.  Essi debbono modificare, limitare e controllare sensibilmente il loro “modo di essere”.
L’attenzione rivolta “ai consumi” ed “ai ricavi” in funzione di una sempre maggiore circolarità dei capitali; la collocazione degli impianti di produzione e la disponibilità per nuovi investimenti, limitate ai siti e nei settori in grado di garantire una costante crescita dei guadagni; l’indifferenza e l’ignoranza degli imprenditori in materia di sicurezza e di qualità della vita dei produttori-consumatori e, in particolare, la “distrazione” dei governi in merito ai distinguo, alle scelte e alla programmazione controllata della produzione di beni essenziali e di quelli superflui; e, soprattutto, le continue predazioni e le irresponsabili devastazioni ambientali, forse irreversibili, sono le espressioni più caratteristiche, proprie e distintive, che qualificano “gli addetti alla globalizzazione” dell’intero pianeta.Ebbene, questo “modo d’essere” deve mutare!
Deve “mutare” non per inclinazione alla carità cristiana o per tendenza ideologica comunistica e democratica, e neppure per la naturale pressione dei “globalizzati”, ma piuttosto per direttiva interiore del “buon senso”, della comune “ragionevolezza” umana.Il genio e l’opera dello “spirito occidentale” deve dare attenzione e sostegno concreto ed efficace alle popolazioni meno “evolute” e più “sfortunate”. Siamo tutti nella stessa barca! E dobbiamo ognuno di noi fare il proprio lavoro affinché la barca possa continuare a navigare.
Le risorse del pianeta non devono essere consumate fino all’esaurimento in modo incontrollato; l’atmosfera non deve essere avvelenata per l’extrabenessere o per il piacere di pochi; i beni prodotti - con l’impiego delle risorse di tutti - debbono garantire a tutti “gli esistenti” un livello di vita dignitoso, da cui partire, in autonomia, verso la condizione di maggior benessere distribuito.
La trasformazione di “certi modi d’essere” deve mettersi in moto; deve provocare effetti simili alle rivoluzioni industriali europee della seconda metà del Secondo Millennio, e sottolineiamo con vigore, questa deve avvenire: attraverso “l’educazione all’acquisizione delle informazioni; con il trasferimento di tecniche compatibili con il divario culturale e assimilabili efficacemente; con lo stimolo, con il sostegno e con l’incoraggiamento all’autonomia nei vari contesti culturali”.
Deve, in altre parole, mutare in profondità l’atteggiamento dei gruppi dominanti e delle comunità occidentali benestanti. Non serve regalare trattori e pompe idrauliche a popolazioni povere ed emarginate, che non hanno raggiunto la cultura minima, e le condizioni al contorno, per utilizzare tali strumenti; come non serve inviare tonnellate di derrate, di cibo in scatola, di prodotti sofisticati in paesi dove non esistono strutture per la conservazione e la distribuzione dei beni di soccorso. Sono azioni inutili, di facciata, di propaganda “bonista”, diseducanti, che ignorano o sottostimano le realtà di queste configurazioni umane: le abitudini alimentari, le carenze genetiche, i costumi, le norme d’igiene acquisite; insomma, il livello culturale generale.
Servono scuole, insegnanti e medici, artigiani e imprenditori, allevatori e agricoltori intraprendenti e, soprattutto, uomini di scienza e finanziatori illuminati e generosi, capaci di sfidare l’impossibile: i terreni aridi; la povertà di risorse locali; la dissalazione delle acque; la mancanza d’energia; le epidemie endemiche; la sfiducia e l’ignavia ataviche.I paesi del G8 e quanti altri sono in grado di “dare e fare”, debbono programmare e gestire questo ineludibile mutamento; evitando di sostenere per propri interessi alcune comunità, rispetto altre; combattendo dovunque e senza sosta la corruzione; e imponendo, nello spirito della vera solidarietà, scelte, ed azioni, concrete ed efficaci, tali da invertire a lungo termine la tendenza e, nell’immediato, idonee a creare e a diffondere un clima di effettiva collaborazione e fiducia tra i due mondi, con risultati esemplari anche a breve e a medio termine.La civiltà si porta con l’educazione, non con le armi; né con i prestiti a tassi in parte agevolati. La civiltà si dona; la dignità e il rispetto, per sé e per gli altri, s’insegnano; non si vendono, né si scambiano con materie prime.E, soprattutto, la civiltà o ciò che noi intendiamo con questo termine, si porta con l’esempio!Ma forse queste sono proposizioni ingenue... ormai senza senso... obsolete...La Civiltà Occidentale, in ogni modo, deve affrontare “l’errore nel suo comportamento”, deve iniziare a ridurre i danni del proprio agire; cominciando con l’eliminazione degli sprechi di beni e d’energia, con la riduzione del superfluo, e con l’aggressione all’inquinamento; arrestando la depredazione ambientale e programmando, con maggior saggezza, il prelievo delle risorse del pianeta, prima che accada l’impensabile: l’irreversibile alterazione della condizione umana. E deve, soprattutto e quanto prima, occuparsi dell’“altro”, del diverso, dell’emarginato...dare ascolto alla sua voce.Nel formulare questi ultimi auspici ci tornano alla mente i pensieri di Hans Jonas (1903-1993), un filosofo ebreo tedesco, espressi nel saggio “Il principio responsabilità”, del 1979.
Nel IV cap., dedicato al bene, al dover essere e all’essere, egli espone la teoria della responsabilità:«Ciò che contrassegna l’uomo, e cioè che soltanto lui può ‘avere’ una responsabilità, significa contemporaneamente che egli la ‘deve’ avere anche per i suoi ‘simili’, essi stessi soggetti potenziali di responsabilità... Avere ‘de facto’ una responsabilità qualsiasi per un essere qualsiasi in un qualsiasi momento fa parte in modo così inscindibile dell’essere umano come il fatto che egli è in generale capace di responsabilità».Poi, affermando che la responsabilità è un correlato del potere, egli aggiunge:«Se il potere e il suo esercizio corrente aumentano fino ad assumere certe dimensioni, allora si modificherà non soltanto la grandezza ma anche la natura qualitativa della responsabilità, nel senso che le azioni del potere generano il ‘contenuto del dover essere’».Parole che non hanno bisogno di commento!
Più difficile diventa la riflessione per comprendere i motivi, che, tutt’oggi, dividono gli appartenenti alle tre Confessioni monoteiste, tutte rispettose delle Rivelazioni del Dio Uno. All’osservatore imparziale, citato sopra, nasce spontanea la domanda suggerita dalla logica: Come è possibile, che i fedeli delle tre grandi religioni monoteiste non riescano a trovare un elemento unico, nelle tavole, nei libri e nella Rivelazione, in nome del quale ci si possa considerare veramente “fratelli”, figli dello stesso Padre, con identici doveri?La questione è più seria di quanto si possa immaginare!
Da almeno trent’anni si auspica un incontro sostanziale ed effettivo interreligioso, ma, finora, non sembra che si siano raggiunte posizioni concrete ed efficaci da rimuovere ogni pregiudiziale reciproca e iniziare un reale percorso in comune.
«Dove l’Assoluto si umanizza si scontra con l’Assoluto dell’Altro: nascono le sètte, i partiti, le fazioni, s’induriscono i nazionalismi etnici, i razzismi religiosi o scientifici. Dunque, non ricerca dell’Assoluto ma ricerca assoluta: come per un pensiero, che una volta pensato si estingue nella soggettività del formulante, ove questi non ne resusciti continuamente l’indeterminata forza, l’universale vivezza, per portarne nel soggetto unicamente l’irradianza di pace e concordia con l’altro».
L’immagine-sintesi, potente e illuminante, sembra fornire la chiave per la risoluzione delle grandi problematiche umane: un nuovo pensare, un pensare che non si estingua nei pensati, ma che permanga come forza in continua resurrezione.
Tale pensare potrà essere conquistato dagli attuali e dai futuri “esistenti”?
Oggi, a giudicare dagli avvenimenti, dobbiamo, purtroppo, costatare che siamo molto lontani da un simile pensiero, ossia da un pensare capace di ricerca assoluta. E questa spiacevole constatazione ci rimanda necessariamente alla domanda, di cui sopra: gli uomini sono tutti eguali? L’irradianza del Divino nel sentire umano provoca gli stessi mutamenti in ogni essere e impone lo stesso comportamento a tutte le coscienze?
I fatti quotidiani e i grandi eventi sembrano smentire gli auspicati effetti.
Forse anche in questo campo, nell’ambito della coscienza umana, è necessaria una più avanzata educazione. Forse bisognerebbe scoprire che l’essenza del sentire umano e, soprattutto, del sentire religioso è l’amore. Forse questo speciale impulso, ad amare e ad essere amati, potrebbe fecondare l’intelletto, sia quando si cimenta nelle grandi programmazioni totali, sia quando si confronta nelle esposizioni teologiche più raffinate. Forse ognuno di noi dovrebbe dare più spazio alla ricerca di senso: del senso dell’esistenza terrena, in generale, e di quello della propria vita in particolare.
Ma anche queste ultime proposizioni sono intese, in quest’epoca della velocità ad oltranza, come già sentito, luoghi comuni, propositi obsoleti.... ... ...
Fermiamoci qui e proviamo a concludere le nostre riflessioni. Abbiamo esposto, anche se in forma frammentaria, ciò che crediamo che pensino molti uomini della nostra epoca, appartenenti a culture e fedi diverse; abbiamo descritto, con sincerità e lealtà, i dubbi che nutriamo circa le grandi problematiche, sintetizzate nelle due domande iniziali; ma abbiamo espresso anche le nostre speranze: che l’Umanità possa scoprire la responsabilità e l’amore. La pace è un’aspirazione e un diritto inalienabile. Ma non vi sarà mai pace nel mondo se “i più fortunati” non saranno capaci e disposti a donare, “ai meno fortunati”, un’esistenza dignitosa; e ciò non potrà accadere senza rinnovare il pensare... senza assumersi profondamente la responsabilità del divenire terrestre... e senza scoprire la realtà dell’amore.
 1 La terza fase della sua vita, ritenuta la più importante, è caratterizzata dalla riflessione, etica e biotica, sulla libertà e sulla responsabilità umane nell’epoca tecnologica. Cfr., H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1979; tr. it., di Paola Rinaudo, Il pricipio responsabilità, Einaudi, Torino, 1993.
 2 Cfr., Op. cit., p. 125.
 3 Idem, p. 159.
 4 Cfr.: GRAAL, Rivista di scienza dello Spirito, Tilopa, Roma: Anonimo, La memoria del futuro, n° 24, dic. 1999, p. 138.


Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001