Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001
IL
PENSIERO E LA PACE -
pag. 26-27
Un’aspirazione
e un diritto inalienabile, la pace
di
Sergio
Maria Faini
[14
ottobre 2001- in occasione della tredicesima “Marcia per la Pace” Perugia-Assisi]
Noi
“esistenti” vogliamo la pace!Ogni uomo della Terra vuole vivere la
propria vita pacificamente: condizione indispensabile per crescere
spiritualmente e materialmente; per riprodursi ed allevare la prole; per
invecchiare con serenità e per accettare, infine, la propria ineludibile
finitezza.Ma la pace è una “conditio” complessa, è una costruzione
che poggia su fondamenta, altrettanto complesse, che richiedono precisi
vincoli di stabilità.Nel tempo si sono costituiti ed utilizzati
com’elementi di stabilità vari valori: in primis, la soddisfazione dei
bisogni primari; e successivamente, via via, la libertà di pensiero e di
fede, l’uguaglianza nel diritto, il benessere, l’educazione e
l’informazione, la qualità della vita, la solidarietà e il rispetto
reciproco.Valori conquistati attraverso cruente battaglie tra membri della
medesima specie: esseri “teoricamente” uguali; ossia nati con le
stesse attese, ma diversi per situazioni ambientali e culturali molto
variegate ed eterogenee.L’enorme disuguaglianza delle condizioni di
partenza - quelle alle origini delle singole vite e d’intere
aggregazioni umane con le stesse caratteristiche ambientali - ha prodotto
una divisione iniziale della Comunità terrestre in popoli e gruppi
sociali molto differenti, creando le premesse - dove non è stato
possibile compensare tale divario con l’emigrazione o con l’attività
creativa – per una netta, e in molti casi permanente, separazione tra le
società; scissione che oggi ritroviamo confermata nelle concentrazioni
umane, privilegiate, in aree d’elevato benessere, rispetto quelle
forzatamente confinate, per origini e per storia penalizzanti, in aree
povere e d’estrema emarginazione.Le due contrapposte condizioni
esistenziali - ossia quella di coloro che sono definiti
“globalizzatori” e quella degli altri, detti “globalizzati” - sono
caratterizzate, inevitabilmente, da crescite materiali e spirituali a due
velocità; che sembrano oggi impareggiabili nella pratica e incapaci di
ridurre la storica distanza-differenza, attraverso lo scambio e il travaso
- che dovrebbe essere doveroso - degli elementi culturali e spirituali
necessari alla costruzione di “un mondo comune” nei bisogni e negli
ideali esistenziali.La storia del mondo degli uomini, ed oggi la cronaca
di tutti i giorni, racconta e ricorda questi eventi; razionalizzati
comunemente con tesi molto complesse e articolate: alcune, le più,
cercano di spiegare e di giustificare tale cruda realtà; altre, le poche,
sollecitano ancora l’attenzione d’ogni essere - qualificato
“intelligente” - a porsi, e a riproporsi instancabilmente, il
“problema” per trovare una soluzione possibile alla tragica
situazione.Due contesti sembrano essere, nell’epoca attuale, i luoghi e
le sedi per affrontare questa delicata problematica, sia sul piano
materiale, sia su quello spirituale: nel primo, si puntano le speranze
nell’auspicato incontro - serio, etico ed efficace - tra i
“globalizzatori” e i “globalizzati”; nel secondo, si cerca di dar
vita all’incontro-dialogo tra le grandi religioni, altrettanto
auspicato.Vorremmo essere tutti più ottimisti di quanto sentiamo
d’essere - e di quanto i demoniaci organi della scorretta informazione
c’inducono a sentire e a pensare - in merito ai lavori ed alle
risoluzioni prodotte nelle due sedi accennate.Ma la bagarre di questi
ultimi tempi sulla globalizzazione - presentata dai media con la
giustificazione teorica di dare informazione e con il desiderio
spasmodico, malcelato, di fare spettacolo ad elevato indice d’ascolto -
non ci fa ben sperare; bensì mostra, oltre ogni dubbio, l’incapacità
del pensiero umano, contemporaneo, di avvicinare nel profondo tale realtà,
per intuire spregiudicatamente, e soprattutto spiritualmente, le
“cause” prime che hanno creato le condizioni per “effetti”
terribili, ed efferati, quali quelli dell’11 settembre scorso.Gli esseri
intelligenti debbono imparare ad “intellegêre” tra gli eventi,
distinguendo cause ed effetti, e soprattutto riconoscendo i legami e la
consequenzialità tra le une e gli altri. Senza questa azione, cosciente e
responsabile, non si possono risolvere alla radice le citate
problematiche, ed ogni risoluzione - venendo meno le qualità essenziali -
risulterà inefficace, temporanea ed espressione del potere del più forte
in quel dato momento.
L’analisi, nella prospettiva cause-effetti, degli eventi che coinvolgono
le “umane genti” richiederebbe ben altro spazio; molto è stato detto
con buone intenzioni, ma con scarsa efficacia, e il risultato è davanti
agli occhi di tutti: non è cambiato nulla, non sembra che stia cambiando,
e le varie tesi sono considerate, ormai, luoghi comuni e “già
sentito”. Ma i temi e gli argomenti sono urgenti e debbono essere
affrontati seriamente tra tutte le diversità.
È in tale spirito che ci proponiamo, nonostante il limitato contesto, di
richiamare l’attenzione con due domande, a nostro avviso, molto attuali
e presenti nelle coscienze di uomini appartenenti a popolazioni e ad
aggregazioni sociali differenti per cultura, costume e credenza religiosa
e, soprattutto, per reddito pro-capite.
I_ Come far convivere nei nostri tempi le tre “etiche” dominanti:
quella utilitaristica dei potenti; quella bisognosa degli emarginati e
quella, infine, “della paura”, terza nell’ordine ma non meno
concreta delle altre?
II_ Come individuare l’elemento comune, presente nel sentire religioso
dei tre monoteismi, idoneo “ad unire”, anziché continuare “a
separare”... come sta accadendo ancora oggi?
Proviamo a rispondere a queste due domande, mettendoci nei panni di un
uomo “comune”, occidentale e di media cultura. Proviamo, in altre
parole, a leggere gli eventi e ad ipotizzare soluzioni possibili dal
nostro punto di vista, da quello di “un fortunato, nato nell’area
privilegiata dal benessere”.
Non potremmo fare diversamente, perché siamo convinti di non poterci
calare in situazioni diverse da quelle nostre, conosciute, e siamo
consapevoli che le “altre”, quelle degli emarginati, possono essere
soltanto immaginate e mai profondamente comprese, al di fuori di una
concreta sperimentazione delle stesse ‘de visu et in loco’.
La prima domanda, a nostro avviso, coinvolge principalmente l’esistenza
materiale; l’essere di carne, bisognoso di soddisfare desideri ed
aspettative di natura “materiale”, sensibile; ossia richieste
provenienti dalla sfera soggettiva e dal quotidiano oggettivo, riguardanti
prioritariamente l’essere nella sua estrinsecazione specificatamente
naturale e spontanea.Nella domanda abbiamo evidenziato tre comportamenti
principali: quello utilitaristico dei potenti; quello degli emarginati e,
infine, quello dominato dalla paura. L’esperienza e l’osservazione
spregiudicata c’inducono a pensare che i tre modi dell’essere umano
non si possano armonizzare tra loro; la memoria dei popoli, la storia e la
cronaca di tutti i giorni sembrano confermarlo; ma l’immagine di questa
armonia (accordo), spesso definita utopia, giace nel profondo
dell’aspirazione d’ogni uomo, d’ogni tempo, sin dalle epoche più
remote. Tale estrema ipotesi di speranza è stata vissuta, con il
sacrificio e l’offerta della vita, dai primi cristiani; in forme più
grossolane, ma con lo stesso sentimento d’immolazione, dai movimenti
rivoluzionari nella seconda metà del Secondo Millennio; ed oggi, dopo
l’“utopia socialista e comunista”, costituisce, ancora e più che
mai, il centro delle aspirazioni della maggioranza degli esseri umani,
presenti sulla Terra.Questo diffuso, ed avvincente, desiderio-sogno è
realizzabile? Lo potrà essere nel tempo? Quali sono le condizioni affinché
divenga realtà?Se potessimo guardare l’opera degli umani di due o tre
generazioni consecutive dall’alto, con il massimo distacco,
imparzialmente - ossia senza esaltazione della ragione e senza svolazzi
incontrollabili del sentire - scopriremmo cose straordinarie. Vedremmo
piccoli gruppi d’uomini (guidati dall’etica utilitaristica dei
potenti) presi, e compresi, nel trasformare risorse “potenziali” in
risorse “effettive”; impegnati nel “gioco della legge del
mercato”, che stabilisce in funzione della richiesta di beni - naturale
o indotta - le regole per la loro produzione, distribuzione e consumo.
Assisteremmo al movimento in circolo del denaro - fonte primaria e motrice
di tutte le azioni legittime, ed illegittime, dell’epoca attuale -;
all’estrinsecazione del potere dei detentori di questa forza
impalpabile; ed alla crescita inarrestabile del dominio di questi gruppi
sull’intera Umanità.
Vedremmo poi la maggioranza degli umani (stimata oltre l’85%),
distribuita in varie fasce esistenziali (non solo del Terzo Mondo): da
quella in parte tiranneggiata dal bisogno dei beni primari, e in parte
lusingata e soggiogata da beni superflui, a quella della cruda e disperata
emarginazione, sempre più estesa. Masse d’individui che lottano per il
quotidiano; che non possono utilizzare al meglio la loro cultura e le
informazioni che circolano nelle aree privilegiate e di benessere; che
emigrano alla ricerca di siti più generosi. Moltitudine d’esseri
“dominati”: alimentati con le molteplici forme dell’avversione,
indotti all’odio; e confinati in esistenze di paura, d’angoscia e di
malattie.All’occhio disinvolto ed attento apparirebbero, in altre
parole, due forme di vita. La prima - apparentemente più evoluta,
creativa, sana e longeva, capace di aprire nuove frontiere e di utilizzare
a proprio vantaggio le risorse potenziali del pianeta - è costituita da
una minoranza compatta d’esseri, chiusa su se stessa, molto motivata e
disponibile a qualsiasi compromesso pur di raggiungere i suoi scopi
utilitaristici, all’interno della propria etica. L’altra, si presenta
più variegata, disomogenea e molto differenziata nelle priorità degli
obiettivi, e, soprattutto, incapace di convertire le conoscenze e le
potenzialità della propria cultura in opere di crescita efficaci e in
quelle di difesa, contro gli svantaggi e l’invadenza della
“globalizzazione” in corso, con mezzi ed azioni condivisibili dalla
comune liceità universale. Da questa osservazione-constatazione
sorgono alcune considerazioni-domanda: gli uomini sono tutti eguali?
Ossia, hanno tutti le stesse potenziali capacità creative e di risposta
nei confronti dell’ambiente, oltre le altre caratteristiche, proprie
alla specie?
Se riconosciamo l’uguaglianza nelle potenzialità... non possiamo non
chiederci come mai, nel tempo, soltanto alcuni gruppi hanno sviluppato
“culture dominanti”, mentre la maggioranza degli altri si è lasciata
dominare, fino ai nostri giorni.
Si è detto, si ripete continuamente ed è stato menzionato anche
all’inizio del presente scritto, che l’origine di questa
differenziazione ha come causa la natura ambientale, la quale, dove è
stata più generosa, ha facilitato lo sviluppo dei popoli, e dove essa è
stata più avara, lo ha rallentato fino ad ostacolarlo completamente.
Se questa ipotesi fosse vera in assoluto e se la valorizzazione delle
risorse di un ambiente povero provocasse sempre sviluppo distribuito, ci
dovremmo chiedere come mai nei paesi e nelle aree ricche di petrolio, di
diamanti e di metalli pregiati, ciò non sia accaduto. Non è cambiato
nulla: in Iran, in Iraq, nell’Arabia Saudita, e in altri paesi arabi
ricchi d’oro nero; né nell’aree diamantifere dell’Africa; e,
nemmeno, in quelle del Sud-America, ricche di minerali indispensabili per
l’industria moderna; come non è mutata l’esistenza dei popoli in
tanti altri posti, dove lo “spirito occidentale” è penetrato in
diverse forme: per convertire al cattolicesimo; per allargare il mercato e
gli scambi; per colonizzare e sfruttare; e, infine, per esportare la
democrazia. Forse l’India e, più recentemente, alcuni Paesi dell’area
Est-asiatica sono entrati in un’era nuova, a seguito dell’influenza,
nel bene e nel male, del Mondo Occidentale.
L’osservatore attento del panorama geo-politico mondiale non può non
nutrire elementi di dubbio sull’assunto dell’eguaglianza potenziale:
non può non rilevare gli effetti di “una certa inclinazione” o
“disposizione creativa, inventiva, dominatrice” nei confronti del
mondo altro da sé, circostante, che di fatto ha guidato alcuni gruppi
umani nella costruzione, e nella difesa, di “culture dominanti” più
progredite.
Ma con quest’ultima considerazione - forse troppo generica,
semplicistica ed irritante, ma non scevra da contenuti realistici - non
vogliamo distruggere i residui bastioni della speranza; vorremmo,
piuttosto, rafforzarli proponendo alcune linee di direzione, che a nostro
parere, dovrebbero essere seguite per invertire la tendenza e per
avvicinare la risoluzione delle problematiche che intrecciano i destini
dei “globalizzati” con quelli dei “globalizzatori”.Noi non
crediamo alle facili soluzioni dei portatori di un sentimentalismo
superficiale e smielato, istintivo e ignorante, e sempre incapace di
assumersi oggettive responsabilità, di là dalla protesta gridata, dei
cortei simbolo e della smodata ambizione alla visibilità del proprio
essere “bonista”. Noi crediamo nel processo lento e concreto
dell’educazione, nel travaso di conoscenze utili ad innescare lo
sviluppo, e nell’aiuto economico finalizzato a stimolare l’aspirazione
all’autonomia e all’assunzione responsabile della fattibilità del
proprio destino.
L’educazione paziente all’acquisizione delle informazioni, attraverso
una più efficace istruzione primaria, secondaria e specialistica; il
trasferimento di tecniche compatibili con il divario culturale e
assimilabili efficacemente; lo stimolo e l’incoraggiamento
all’autonomia nel proprio contesto culturale; gli investimenti specifici
e puntuali, attraverso aiuti concreti, gratuiti e responsabilizzanti,
diretti a soggetti singoli e a gruppi comunitari, seriamente disponibili
ad assumere in proprio la realizzazione del loro sviluppo.Questi
dovrebbero essere gli indirizzi-doveri dei cosiddetti “globalizzati”
e, nello stesso tempo, dovrebbero costituire i minimi impegni-doveri dei
“globalizzatori” nei confronti dei più diseredati.Ma ai più
fortunati, a quelli che hanno risolto da secoli i bisogni primari,
competono ulteriori e più incisive azioni.
Essi debbono modificare, limitare e controllare sensibilmente il
loro “modo di essere”.
L’attenzione rivolta “ai consumi” ed “ai ricavi” in funzione di
una sempre maggiore circolarità dei capitali; la collocazione degli
impianti di produzione e la disponibilità per nuovi investimenti,
limitate ai siti e nei settori in grado di garantire una costante crescita
dei guadagni; l’indifferenza e l’ignoranza degli imprenditori in
materia di sicurezza e di qualità della vita dei produttori-consumatori
e, in particolare, la “distrazione” dei governi in merito ai
distinguo, alle scelte e alla programmazione controllata della produzione
di beni essenziali e di quelli superflui; e, soprattutto, le continue
predazioni e le irresponsabili devastazioni ambientali, forse
irreversibili, sono le espressioni più caratteristiche, proprie e
distintive, che qualificano “gli addetti alla globalizzazione”
dell’intero pianeta.Ebbene, questo “modo d’essere” deve mutare!
Deve “mutare” non per inclinazione alla carità cristiana o per
tendenza ideologica comunistica e democratica, e neppure per la naturale
pressione dei “globalizzati”, ma piuttosto per direttiva interiore del
“buon senso”, della comune “ragionevolezza” umana.Il genio e
l’opera dello “spirito occidentale” deve dare attenzione e sostegno
concreto ed efficace alle popolazioni meno “evolute” e più
“sfortunate”. Siamo tutti nella stessa barca! E dobbiamo ognuno di noi
fare il proprio lavoro affinché la barca possa continuare a navigare.
Le risorse del pianeta non devono essere consumate fino all’esaurimento
in modo incontrollato; l’atmosfera non deve essere avvelenata per
l’extrabenessere o per il piacere di pochi; i beni prodotti - con
l’impiego delle risorse di tutti - debbono garantire a tutti “gli
esistenti” un livello di vita dignitoso, da cui partire, in autonomia,
verso la condizione di maggior benessere distribuito.
La trasformazione di “certi modi d’essere” deve mettersi in moto;
deve provocare effetti simili alle rivoluzioni industriali europee della
seconda metà del Secondo Millennio, e sottolineiamo con vigore, questa
deve avvenire: attraverso “l’educazione all’acquisizione delle
informazioni; con il trasferimento di tecniche compatibili con il divario
culturale e assimilabili efficacemente; con lo stimolo, con il sostegno e
con l’incoraggiamento all’autonomia nei vari contesti culturali”.
Deve, in altre parole, mutare in profondità l’atteggiamento dei gruppi
dominanti e delle comunità occidentali benestanti. Non serve regalare
trattori e pompe idrauliche a popolazioni povere ed emarginate, che non
hanno raggiunto la cultura minima, e le condizioni al contorno, per
utilizzare tali strumenti; come non serve inviare tonnellate di derrate,
di cibo in scatola, di prodotti sofisticati in paesi dove non esistono
strutture per la conservazione e la distribuzione dei beni di soccorso.
Sono azioni inutili, di facciata, di propaganda “bonista”,
diseducanti, che ignorano o sottostimano le realtà di queste
configurazioni umane: le abitudini alimentari, le carenze genetiche, i
costumi, le norme d’igiene acquisite; insomma, il livello culturale
generale.
Servono scuole, insegnanti e medici, artigiani e imprenditori, allevatori
e agricoltori intraprendenti e, soprattutto, uomini di scienza e
finanziatori illuminati e generosi, capaci di sfidare l’impossibile: i
terreni aridi; la povertà di risorse locali; la dissalazione delle acque;
la mancanza d’energia; le epidemie endemiche; la sfiducia e l’ignavia
ataviche.I paesi del G8 e quanti altri sono in grado di “dare e fare”,
debbono programmare e gestire questo ineludibile mutamento; evitando di
sostenere per propri interessi alcune comunità, rispetto altre;
combattendo dovunque e senza sosta la corruzione; e imponendo, nello
spirito della vera solidarietà, scelte, ed azioni, concrete ed efficaci,
tali da invertire a lungo termine la tendenza e, nell’immediato, idonee
a creare e a diffondere un clima di effettiva collaborazione e fiducia tra
i due mondi, con risultati esemplari anche a breve e a medio termine.La
civiltà si porta con l’educazione, non con le armi; né con i prestiti
a tassi in parte agevolati. La civiltà si dona; la dignità e il
rispetto, per sé e per gli altri, s’insegnano; non si vendono, né si
scambiano con materie prime.E, soprattutto, la civiltà o ciò che noi
intendiamo con questo termine, si porta con l’esempio!Ma forse queste
sono proposizioni ingenue... ormai senza senso... obsolete...La Civiltà
Occidentale, in ogni modo, deve affrontare “l’errore nel suo
comportamento”, deve iniziare a ridurre i danni del proprio agire;
cominciando con l’eliminazione degli sprechi di beni e d’energia, con
la riduzione del superfluo, e con l’aggressione all’inquinamento;
arrestando la depredazione ambientale e programmando, con maggior
saggezza, il prelievo delle risorse del pianeta, prima che accada
l’impensabile: l’irreversibile alterazione della condizione umana. E
deve, soprattutto e quanto prima, occuparsi dell’“altro”, del
diverso, dell’emarginato...dare ascolto alla sua voce.Nel formulare
questi ultimi auspici ci tornano alla mente i pensieri di Hans Jonas
(1903-1993)1 ,
un filosofo ebreo tedesco, espressi nel saggio “Il
principio responsabilità”, del 1979.
Nel IV cap., dedicato al bene,
al dover essere e all’essere, egli espone la teoria della responsabilità:«Ciò che contrassegna l’uomo, e cioè che
soltanto lui può ‘avere’ una responsabilità, significa contemporaneamente che egli
la ‘deve’ avere anche per i
suoi ‘simili’, essi stessi
soggetti potenziali di responsabilità... Avere ‘de
facto’ una responsabilità qualsiasi per un essere qualsiasi in un
qualsiasi momento fa parte in modo così inscindibile dell’essere umano
come il fatto che egli è in generale capace di responsabilità»2 .Poi,
affermando che la responsabilità è un correlato del potere, egli
aggiunge:«Se il potere e il suo esercizio corrente aumentano fino ad
assumere certe dimensioni, allora si modificherà non soltanto la
grandezza ma anche la natura qualitativa della responsabilità, nel senso
che le azioni del potere generano il ‘contenuto
del dover essere’»3 .Parole
che non hanno bisogno di commento!
Più difficile diventa la riflessione per comprendere i motivi, che,
tutt’oggi, dividono gli appartenenti alle tre Confessioni monoteiste,
tutte rispettose delle Rivelazioni del Dio Uno. All’osservatore
imparziale, citato sopra, nasce spontanea la domanda suggerita dalla
logica: Come è possibile, che i fedeli delle tre grandi religioni
monoteiste non riescano a trovare un elemento unico, nelle tavole, nei
libri e nella Rivelazione, in nome del quale ci si possa considerare
veramente “fratelli”, figli dello stesso Padre, con identici doveri?La
questione è più seria di quanto si possa immaginare!
Da almeno trent’anni si auspica un incontro sostanziale ed effettivo
interreligioso, ma, finora, non sembra che si siano raggiunte posizioni
concrete ed efficaci da rimuovere ogni pregiudiziale reciproca e iniziare
un reale percorso in comune.
«Dove l’Assoluto si umanizza si scontra con l’Assoluto dell’Altro:
nascono le sètte, i partiti, le fazioni, s’induriscono i nazionalismi
etnici, i razzismi religiosi o scientifici. Dunque, non ricerca
dell’Assoluto ma ricerca assoluta: come per un pensiero, che una volta
pensato si estingue nella soggettività del formulante, ove questi non ne
resusciti continuamente l’indeterminata forza, l’universale vivezza,
per portarne nel soggetto unicamente l’irradianza di pace e concordia
con l’altro»4 .
L’immagine-sintesi, potente e illuminante, sembra fornire la chiave per
la risoluzione delle grandi problematiche umane: un nuovo pensare, un
pensare che non si estingua nei pensati, ma che permanga come forza in
continua resurrezione.
Tale pensare potrà essere conquistato dagli attuali e dai futuri
“esistenti”?
Oggi, a giudicare dagli avvenimenti, dobbiamo, purtroppo, costatare che
siamo molto lontani da un simile pensiero, ossia da un pensare capace di
ricerca assoluta. E questa spiacevole constatazione ci rimanda
necessariamente alla domanda, di cui sopra: gli uomini sono tutti eguali?
L’irradianza del Divino nel sentire umano provoca gli stessi mutamenti
in ogni essere e impone lo stesso comportamento a tutte le coscienze?
I fatti quotidiani e i grandi eventi sembrano smentire gli auspicati
effetti.
Forse anche in questo campo, nell’ambito della coscienza umana, è
necessaria una più avanzata educazione. Forse bisognerebbe scoprire che
l’essenza del sentire umano e, soprattutto, del sentire religioso è
l’amore. Forse questo speciale impulso, ad amare e ad essere amati,
potrebbe fecondare l’intelletto, sia quando si cimenta nelle grandi
programmazioni totali, sia quando si confronta nelle esposizioni
teologiche più raffinate. Forse ognuno di noi dovrebbe dare più spazio
alla ricerca di senso: del senso dell’esistenza terrena, in generale, e
di quello della propria vita in particolare.
Ma anche queste ultime proposizioni sono intese, in quest’epoca della
velocità ad oltranza, come già sentito, luoghi comuni, propositi
obsoleti.... ... ...
Fermiamoci qui e proviamo a concludere le nostre riflessioni. Abbiamo
esposto, anche se in forma frammentaria, ciò che crediamo che pensino
molti uomini della nostra epoca, appartenenti a culture e fedi diverse;
abbiamo descritto, con sincerità e lealtà, i dubbi che nutriamo circa le
grandi problematiche, sintetizzate nelle due domande iniziali; ma abbiamo
espresso anche le nostre speranze: che l’Umanità possa scoprire la
responsabilità e l’amore. La pace è un’aspirazione e un diritto
inalienabile. Ma non vi sarà mai pace nel mondo se “i più fortunati”
non saranno capaci e disposti a donare, “ai meno fortunati”,
un’esistenza dignitosa; e ciò non potrà accadere senza rinnovare il
pensare... senza assumersi profondamente la responsabilità del divenire
terrestre... e senza scoprire la realtà dell’amore.
1 La terza fase della sua vita, ritenuta la più importante, è
caratterizzata dalla riflessione, etica e biotica, sulla libertà e sulla
responsabilità umane nell’epoca tecnologica. Cfr., H. Jonas, Das
Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1979; tr. it.,
di Paola Rinaudo, Il pricipio responsabilità, Einaudi, Torino, 1993.
2 Cfr., Op. cit., p. 125.
3 Idem, p. 159.
4 Cfr.: GRAAL, Rivista
di scienza dello Spirito, Tilopa, Roma: Anonimo, La
memoria del futuro, n° 24, dic. 1999, p. 138.
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