Anno
IX numero 9 - settembre 2000
CURIOSITÀ STORICHE
Voglia di calcolare
Breve storia degli strumenti
di Luca Nicotra
Fin dall'antichità, l'homo
sapiens ha sentito la necessità di creare strumenti che lo assistessero nelle sue varie
attività. In particolare, una gran rilevanza e diffusione hanno sempre avuto gli strumenti per
calcolare, dai primi rudimentali abachi in uso presso le più antiche civiltà fino agli
attuali calcolatori elettronici. Nelle varie puntate ricostruiremo brevemente la storia di
tali strumenti, mostrando anche alcune curiosità, come l'impropria attribuzione a
Pitagora dell'omonima tavola di moltiplicazione e alcune sue semplici ma curiose
proprietà.
La mano: primo strumento
La mano ha costituito, e costituisce tutt'oggi, lo strumento più semplice e naturale
d'aiuto all'uomo per svariati compiti, materiali e no. Con la mano egli è in grado di
vestirsi, mangiare, bere, eseguire sforzi fisici, salutare, minacciare, parlare attraverso
un linguaggio
gestuale. Non sorprende dunque che l'uomo, anche per contare e far di conto, prima ancora
di costruire altri strumenti, abbia sfruttato le straordinarie possibilità delle sue
mani. "Certo, dice Georges Ifrah, insigne esperto di numerologia per
l'alto numero delle sue parti ossee e delle articolazioni corrispondenti, per la
disposizione asimmetrica delle dita e la loro relativa autonomia, infine, per il dialogo
permanente che essa intrattiene col cervello, la mano dell'uomo costituisce la più
straordinaria concentrazione naturale di risorse in questo campo" [1].
Le possibilità offerte dalle mani per contare sono svariate e furono utilizzate dai
popoli antichi, dall'Estremo Oriente fino al Mediterraneo.
La maniera più banale è quella di rappresentare con le dita i numeri interi a cominciare
dall'unità, come si fa con i bambini per insegnare loro a contare. Si tenga presente che
il termine anglosassone
digit, ormai entrato nell'uso universale per indicare il concetto di cifra, deriva
dal latino digitus, che significa dito.
Un metodo, molto diffuso nell'Antico Impero dell'Egitto faraonico e nell'Impero Romano,
era basato su ben definite gestualità delle mani, simili al linguaggio dei sordomuti, che
permetteva di contare fino a 99 su una mano e fino a 9.999 su entrambe le mani (figura 1).
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce molti gettoni romani di osso o avorio che
portano una doppia rappresentazione dei numeri: su una faccia la rappresentazione tramite
le mani e sull'altra il numerale romano (figura 2).
Un'altra tecnica, tutt'oggi diffusa in India e nella Cina meridionale, consisteva nel
contare per mezzo delle
14 falangi (figura 3) o delle 15 giunture delle dita di ciascuna mano (figura 4). Il
"grassello" del pollice contava come giuntura.
I Cinesi estesero notevolmente le possibilità di rappresentazione dei numeri tramite le
mani, considerando ciascuna giuntura delle dita suddivisa in tre parti: sinistra, centro e
destra. Introdussero, poi, a livello soltanto strumentale, il principio posizionale nella
numerazione. Ogni dito, infatti, rappresentava un ordine di unità. Nel sistema decimale,
cominciando dalla mano destra, il mignolo stava per le unità semplici, l'anulare per le
decine, il medio per le centinaia ecc., proseguendo la numerazione, con lo stesso
criterio, nella
mano sinistra. Le parti sinistra, centrale e destra delle tre articolazioni delle dita
rappresentavano le unità semplici, per un totale di nove, come vuole il sistema di
numerazione decimale. In conclusione, con una mano si arrivava a rappresentare fino al
numero 99.999 e con entrambe le mani si poteva arrivare fino al numero 9.999.999.999
(figura 5). Con tale sistema, oltre che contare, si era in grado di eseguire tutte le
operazioni aritmetiche fino allora conosciute.
L'abaco
La costruzione di strumenti per computare è comune a tutti i popoli dell'antichità. Essi sono stati
utilizzati anche dopo l'introduzione dei sistemi di numerazione scritta, sia perché il
calcolo strumentale è più rapido, sia perché fino a tempi abbastanza recenti erano
veramente poche le persone che sapevano leggere, e quindi in grado di utilizzare la
numerazione scritta.
I primi a costruire un abaco furono, allo stato attuale delle fonti storiche disponibili,
i Babilonesi, che intorno al V, IV sec. a.C. utilizzavano già uno strumento di marmo di
forma rettangolare, su cui erano incisi due gruppi di undici linee verticali attraversate
da una linea orizzontale. Nell'isola di Salamina, è stato ritrovato un esemplare di tale
abaco (figura 6).
L'abaco a polvere
Gli antichi Fenici, gli Ebrei e poi i Greci, gli Etruschi e i Romani usavano come
strumento di computazione una tavoletta rettangolare di legno o una lamina di bronzo,
chiamata abak dai Fenici, avak dagli Ebrei, abac dai Greci, apcar dagli
Etruschi, abacus dai Romani. Il significato comune a tutti i termini è quello
dell'antica parola fenicia abak (polvere), dalla quale derivano. Infatti, sulla
tavoletta aderiva, per mezzo di un collante, della polvere di colore verde (pulvis
hyalinus) in modo che su di essa si potessero tracciare con una bacchetta (radius)
simboli numerici e figure geometriche, utilizzandola così come noi oggi usiamo la
lavagna.
L'abaco a polvere è menzionato da numerosi autori antichi. Cicerone (106-43 a.C.) ne
parla nelle sue Tuscolanae Disputationes (Quaestio V,23):
"
ex eadem urbe humilem homunculum a pulvere et radio excitabo, qui multis
annis post fuit Archimedes",
da cui risulta, com'è a tutti noto, che Archimede usava tale tipo di abaco, per disegnare
figure geometriche.
Anche Virgilio (70-19 d.C.) lo cita nelle sue Egloghe (III,40):
"
si quis fuit alter
Descripsit radio totum qui gentibus orbem".
Persio (34-62 d.C.) scrive nella Satira I:
"Nec qui abaco numeros et secto in pulvere metas,
Scit risisse vafer, multum gaudere paratus.
Si cynico barbam petulans nonaria vellat."
Marziano Capella (sec. V d.C.) nella sua enciclopedia sulle sette arti libertali De
Nuptiis Philologiae et Mercuri, scritta in forma allegorica, lo descrive ampiamente
nei libri dedicati alla Geometria e all'Aritmetica:
"Patent denique jam ingressurae artes quae decentem quamdam, atque hyalini
pulveris respersione coloratam velut mensulam gestitantes. Illud quippe quod gerulae
detulerunt, abacus nuncupatur, res depingendis designandisque opportuna formis. Quippe ubi
vel lineares ductus, vel circulares flexus, vel triangulares abraduntur aufractus"
(Liber VI, De Geometria).
"Sic abacum perstare jubet, sic tegmine glauco pandere pulvereum formarum ductibus
aequor." (Liber VII, De Arithmetica).
L'abaco a lapilli
Successivamente, i Romani usarono un altro tipo di abaco, costituito da una tavoletta
rettangolare sulla quale erano praticate alcune scanalature parallele al lato minore, al
di sopra di ciascuna delle quali si trovavano impresse le lettere del sistema di
numerazione romano, che indicavano l'ordine delle unità al quale la scanalatura era
riservata. Cominciando da destra, la prima scanalatura era quella delle unità
frazionarie, la seconda era dedicata alle unità semplici e sopra di essa figurava il
numerale I, la terza era dedicata alle decine e aveva sovraimpresso il numerale X, la
quarta scanalatura era quella delle centinaia e aveva il corrispondente numerale C, e
così via. All'interno di ciascuna scanalatura, secondo i modelli di abaco che si
susseguirono nel tempo, erano disposti tanti sassolini (calculi, da cui il termine
calcolare) o dischetti (abaculi) o monetine (denarii supputatorii)
quanti erano le unità di quell'ordine da rappresentare. Se in corrispondenza di ciascuna
scanalatura, iniziando dalla prima a sinistra non vuota, si scrive il numerale
corrispondente all'ordine delle unità della scanalatura tante volte quanti sono i calculi
in essa contenuta, si ottiene la rappresentazione scritta del numero indicato dall'abaco,
secondo il sistema di numerazione additivo romano1. Il numero era, quindi, pensato come
somma delle unità dei vari ordini. Di tale abaco, utilizzato dai Greci e dai Romani,
esistono numerose citazioni nella letteratura classica (Polibio, Plutarco, Erodoto, Lisia,
Orazio). Basti ricordare quella di Orazio, il quale nella Satira I, 6, descrive i
fanciulli che si recano a scuola portando a tracolla la tavoletta e la cassettina
contenente i calculi:
"Causa fuit pater bis, qui macro pauper agello
Noluit in Flavi ludum me mittere, magni
Quopueri magnis e centurionibus orti,
Laevo suspensi loculos tabulamque lacerto,
Ibant octonis referentes idibus aera."
Come fossero eseguiti i calcoli con l'abaco a lapilli, com'è anche chiamato il tipo
d'abaco precedentemente descritto, non è stato tramandato ed è perciò sostanzialmente sconosciuto, anche se
sono state avanzate varie congetture. Ciò che è certo è che il suo uso doveva essere
semplice e rapido, essendo esso usato dai ceti non colti e dai ragazzi a scuola, come ci
racconta Orazio. Dell'abaco a lapilli sono pervenute fino a noi due testimonianze
iconografiche: un'effigie incisa nella gemma calculatoria conservata al gabinetto delle
medaglie della Biblioteca Nazionale di Parigi e un'altra scolpita in un sarcofago romano
conservato al Museo Capitolino di Roma. Nella gemma calcolatoria di Parigi è
rappresentato un ragazzo seduto davanti a un tripode contenente i calculi e che
regge con la mano sinistra la tavola2. Nel sarcofago romano, invece, è rappresentato uno
schiavo che tiene fra le mani una tavoletta con dei sassolini3.
L'uso dell'abaco a lapilli (figura 7) si protrasse fino all'inizio del sec. XVI, com'è
testimoniato dallo scolio a Beda il Venerabile del Noviomago (Scholia in Bedam,
cap. De Digitatione):
"Est et alia numerorum ratio per calculos, in tabula delineata, ductibus
parallelispositos quae et ipsa vetus est, neque ab usu recessit: nisi quod loco
calculorum, nummie nunc utantur, atque hujus est et fuit usus in numerandis speciebus
negotialibus."
L'abaco a bottoni
In una lettera inviata al Lipsio, il 15 marzo 1593, e in una successiva inviata al
Camerario, il 18 agosto dello stesso anno, il Velsero descrisse un terzo tipo di abaco
usato dai Romani,
detto "abaco a bottoni"4. Nel 1853, il padre gesuita Garrucci trovò un
esemplare di abaco a bottoni che oggi definiremmo di formato tascabile, e che fu poi
conservato al museo Kircheriano5 . Si tratta di una lamina di bronzo, lunga 11,5 cm e
larga 9,4 cm, recante nove scanalature parallele al lato minore divise in due parti da una
linea orizzontale (figura 8). Ciascuna scanalatura della parte inferiore contiene quattro
bottoni (aerae), ad eccezione della seconda da destra che ne ha cinque. Le
scanalature superiori hanno invece ciascuna un solo bottone, che vale cinque unità
dell'ordine della scanalatura cui appartiene. Iniziando da destra, le prime due
scanalature sono dedicate alla rappresentazione delle unità frazionarie: la prima, priva
della parte superiore, è dedicata alla semioncia S (semis), al quarto
d'oncia É (sicilicus), e al sesto d'oncia Z (sextula),
mentre la seconda è riservata alle once. Le successive scanalature dell'abaco sono
dedicate rispettivamente alle unità semplici I, alle decine X, alle centinaia C, alle
migliaia (I) , alle decine di migliaia ((I)), alle centinaia di migliaia (((I))), ai
milioni ((((I))))6. La rappresentazione di un numero era effettuata spostando entro
ciascuna scanalatura, verso la linea di separazione fra le due parti dell'abaco, un numero
di bottoni pari al numero di unità da rappresentare per ciascun ordine, tenendo presente
che un bottone superiore vale cinque unità dello stesso ordine. Per esempio, il numero
otto era rappresentato spostando, nella terza scanalatura delle unità semplici, verso la
linea orizzontale tre bottoni inferiori e quello superiore.
L'uso dell'abaco a bottoni venne meno già nel secolo XIV, vale a dire due secoli prima
rispetto all'abbandono dell'abaco a lapilli, probabilmente per la ragione che essendo più
complicato di quello a lapilli, era utilizzato soprattutto dai ceti più abbienti, i quali
vennero per primi a conoscenza sia del nuovo abaco a colonne sia del nuovo sistema posizionale di
numerazione scritta. Questo utilizzava le cifre indoarabiche diffuse nell'Occidente
europeo nel secolo XIII, principalmente per opera di Leonardo Pisano detto Fibonacci, che
nel suo celeberrimo Liber Abaci (1202) non solo illustrò il nuovo sistema, ma
espose anche, utilizzandolo, tutta l'aritmetica elementare allora nota. Probabilmente, la
diffusione in Europa del sistema posizionale e delle cifre indoarabiche avvenne
gradualmente attraverso gl'intensi contatti commerciali dei ricchi mercanti italiani con
il mondo orientale, particolarmente fiorenti nel Basso Medioevo (secoli XI-XIII). Tali
mercanti conoscevano, per motivi di contabilità commerciale, il modo di calcolare basato
sul principio di posizione e sulle cifre indiane, già in uso in oriente. In ogni caso, si
tenga presente che nel 1156 appariva nel Mondo Occidentale la prima traduzione in latino,
con il titolo Liber algorismi de numero indorum, dell'opera scritta negli anni
800-825 dal matematico arabo Mohammed Ben Musa detto Al Khovarizmi, nella quale è
illustrato il sistema di numerazione posizionale usato dagli Indiani già dal secolo V.
Tuttavia, il merito della diffusione di tale sistema in Occidente è dovuto all'opera
citata di Leonardo Pisano, che ebbe gran diffusione e influenza in Europa.
L'abaco ad anelli
Si ritiene che i primi Cristiani diffusero in Cina l'abaco nel secolo XIII circa, almeno nella
forma attuale dello swan-pan (figura 10), come è chiamato l'abaco dai cinesi.
Questa tesi è confortata dalla notevole rassomiglianza fra lo swan-pan e l'abaco
tascabile dei Romani: al posto delle scanalature ci sono delle aste verticali, e al posto
dei bottoni delle palline che possono scorrere lungo tali aste. In particolare, come
nell'abaco a bottoni romano, l'abaco cinese è diviso verticalmente in due parti da
un'asticciola orizzontale, e per ogni asta ci sono due palline superiori e cinque
inferiori. Ogni asta, come nell'abaco romano, corrisponde a un ordine decimale, e spesso
le prime due da destra sono dedicate rispettivamente ai centesimi e ai decimi, per cui
l'ordine delle unità corrisponde alla terza asta, quello delle decine alla quarta, e
così via. Il numero di unità di ogni ordine è ottenuto spostando verso la traversa
orizzontale il numero di palline necessarie, tenendo presente che ogni pallina della parte
superiore vale cinque unità dell'ordine corrispondente all'asta entro cui è infilata. In
tal modo, sembrerebbe che lo swan-pan possieda per ogni asta due palline in più
rispetto al necessario, una superiore e una inferiore, poiché per rappresentare il numero
massimo di unità di ciascun ordine, cioè nove, è sufficiente spostare verso la traversa
di separazione una pallina superiore, che vale 5, e quattro inferiori, che valgono 4. In
realtà le due palline in eccedenza servono per rappresentare risultati parziali di
addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, superiori a nove. Nel 1930 i
giapponesi modificarono l'abaco cinese dall'originario modello 2/5 nel modello 1/4,7
ottenendo il loro soroban (figura 11), tutt'oggi in uso in Giappone presso i negozi
e insegnato nelle scuole. I cinesi e i giapponesi erano molto abili nel calcolo
strumentale e ancor oggi la cultura dell'abaco è molto diffusa in Cina e in Giappone. Il
12 novembre 1946, cioè agli albori dei calcolatori elettronici, a Tokyo si tenne una
curiosa competizione sportiva di velocità fra un operatore di calcolatrice elettrica e un
abachista, con un risultato davvero incredibile: la palma della vittoria spettò
all'abachista!
La Mensa Pithagorica. Dall'abaco all'algoritmo
L'osservazione attenta dell'abaco suggerisce in quale modo, probabilmente, avvenne il
passaggio dall'antico abaco romano alla sua versione medioevale, l'"abaco a
colonne", che risulta ormai uno strumento di calcolo in perfetta sintonia con il
sistema posizionale di numerazione scritta, tanto da perdere la sua ragion d'essere.
Infatti, l'abaco descritto precedentemente, nelle sue varie forme costruttive, contiene esso stesso
l'idea del valore posizionale delle cifre, in quanto ogni scanalatura è dedicata a un
ordine di unità e quindi pone in evidenza il diverso peso dei calculi secondo la
scanalatura cui appartengono. Per esempio, tre calculi entro la scanalatura delle
unità semplici hanno evidentemente un valore diverso (tre unità semplici) da quello di
altrettanti calculi contenuti nella scanalatura delle centinaia (tre centinaia).
Insomma, la rappresentazione di un numero fornita dall'abaco (rappresentazione
strumentale) era decisamente posizionale fin da tempi antichissimi, mentre quella scritta
(rappresentazione per numerali) era additiva. Ebbene, l'applicazione del principio di
economia alla rappresentazione dei numeri per mezzo dell'abaco portò a trasferire il
principio di posizione anche alla scrittura.
Per intendere pienamente il significato di questa asserzione, conviene esaminare più a
fondo l'idea che sta alla base del principio di posizione.
Il sistema utilizzato per numerare si basava, già da tempi remoti, sulla possibilità di
pensare un numero come somma delle sue unità semplici raggruppate in gruppi di potenze
della base del sistema di numerazione adottato. In particolare, nel sistema di numerazione decimale,
che è a base dieci, i successivi gruppi contengono tante unità semplici quante ne
indicano le successive potenze naturali del numero dieci. In altri termini, un numero
qualsiasi è considerato come somma di gruppi di 100=1,
101=10, 102=100, 103=1000
unità ecc. Tali gruppi, a loro volta, sono considerati essi stessi unità complesse,
rispettivamente del primo ordine o semplici, del secondo ordine o decine, del terzo ordine
o centinaia, del quarto ordine o migliaia ecc. In tal modo, nel sistema decimale, dieci
unità di un certo ordine formano un'unità dell'ordine immediatamente superiore. Per
rappresentare un numero, sarebbe quindi necessario un doppio sistema di rappresentazione:
un insieme infinito di simboli per le unità dei vari ordini superiori al primo (nel
sistema decimale le decine, centinaia ecc.) e un insieme finito di simboli per
rappresentare il numero di unità di ciascun ordine che per definizione è, al massimo,
pari alla base meno uno ( nove, nel sistema di numerazione decimale).
Ora, è interessante osservare che tali simboli possono essere sia oggetti che segni
scritti, in entrambi i casi conservando la loro identica funzione di sostitutivi di
entità matematiche.
Nel caso della scelta di simboli-oggetto, si ha l'abaco nelle sue varie forme. Per
rappresentare le unità semplici si usano oggetti-simbolo tutti uguali fra loro (per
esempio i calculi) in quantità pari al numero massimo di unità ammissibile per
ogni ordine (nove nel sistema decimale), oppure in quantità minore, se si conviene di
assegnare ad alcuni di essi un valore diverso, come avviene nell'abaco a bottoni, ove il
bottone superiore vale cinque bottoni inferiori, in altre parole cinque unità. La
distinzione dei vari ordini di unità è affidata alla diversa posizione delle scanalature
in seno all'abaco.
Se, invece, i simboli sono dei segni scritti, si ottiene un sistema di numerazione
scritta. In particolare vogliamo mostrare il processo di evoluzione dall'abaco al sistema
di numerazione scritta posizionale.
Si potrebbe pensare dapprima di usare al posto dei calculi dei Romani, usati per
rappresentare con oggetti le unità semplici, dei simboli scritti. Questi devono essere
diversi l'uno dall'altro e tanti quante sono le unità semplici, cioè nove nel sistema
decimale. Tali simboli scritti sono detti "cifre". Dentro ciascuna scanalatura
dell'abaco si
potrebbe quindi porre la cifra che indica il numero di unità dell'ordine corrispondente
alla scanalatura, sostituendo così i calculi (figura 12). Successivamente, si può
pensare di eliminare anche le scanalature o colonne, e rappresentare i diversi ordini
delle unità anch'essi con segni o simboli scritti. Utilizzando, per esempio, le attuali
cifre, il numero 2.467 si potrebbe scrivere nel seguente modo:
1000 100 10 1
2 4 6 7
cioè ponendo sotto al simbolo di ciascun ordine (nel nostro caso 1, 10, 100 ecc.) la
cifra che indica il numero di unità di quell'ordine che contribuisce alla formazione del
numero in questione. Tale tipo di scrittura, che non è ancora posizionale ma
semplicemente moltiplicativa, fu in uso fin da tempi antichissimi presso le popolazioni
orientali (Cinesi).8
Essa non è altro che la trasposizione grafica dell'abaco: al posto delle scanalature ci
sono le cifre 1, 10, 100 ecc. che indicano i vari ordini di unità, e al posto dei calculi
ci sono le cifre che indicano le unità dei vari ordini. Il principio di economia
suggerisce, poi, di evitare d'inventare e scrivere simboli diversi per indicare i vari
ordini, che sono, fra l'altro, infiniti.
Tali simboli diventano superflui, e quindi possono essere soppressi, se si conviene di
affidare alla posizione delle cifre, indicanti il numero di unità dei vari ordini, il
compito di specificare l'ordine delle unità stesse. Si ha così il ben noto principio
posizionale applicato alla numerazione scritta. È però necessario, a questo punto,
introdurre un altro simbolo, lo zero, per indicare l'assenza di unità. In tal maniera,
per rappresentare in forma scritta un numero, comunque grande esso sia, risultano
sufficienti i simboli grafici (cifre) utlizzati per indicare le unità semplici e lo zero,
vale a dire 10 cifre nel sistema decimale. È l'affermazione del principio di economia,
che successivamente informerà di sé tutta la scienza moderna, trovando la sua massima
espressione nel formalismo matematico, cui ricorrono sempre di più le scienze
sperimentali e d'osservazione (astronomia).
È su tali osservazioni che dovette attuarsi un'importante modifica dell'abaco a bottoni
degli antichi Romani, la quale consistette nel sostituire i calculi con un unico
gettone posto al disopra di ciascuna scanalatura e portante impressa la cifra designante
il numero di unità di quell'ordine rappresentato dai calculi prima presenti fisicamene
entro le scanalature e ora soppressi. Il termine gettone deriva dal latino iacere,
che significa gettare. Infatti, i calculi erano gettati entro le scanalature: il
gettone sostituì così di nome e di fatto l'operazione del "gettare i calculi",
soppressa nel nuovo abaco. Tali cifre9, impresse nei gettoni, furono chiamate apici o
figure d'abaco per ovvi motivi, ed erano molto somiglianti alle cifre arabe (figura
12).
Questa variante dell'antico abaco romano fu attribuita, dalla tradizione, ai Neopitagorici
della scuola alessandrina, il che spiega i nomi Mensa Pithagorica o Tavola Pitagorica o Arco
Pitagorico con i quali fu battezzato il nuovo abaco a colonne, il cui significato era
mutato profondamente, in quanto esso, oltre a fornire uno strumento per calcolare,
consentiva ora di rappresentare un numero nel nuovo sistema posizionale per mezzo di
numerali, a meno dello zero. Successivamente, furono aboliti i gettoni e le cifre furono
scritte direttamente sopra le colonne. Dunque, fu sempre più manifesta l'identificazione
concettuale di quest'ultimo tipo d'abaco con l'algoritmo o algorismo10, termine
con cui inizialmente era chiamato il sistema di numerazione posizionale nei paesi latini,
tant'è che i matematici italiani dei secoli XII e XIV usavano indifferentemente i due
termini, abaco e algoritmo, per riferirsi al sistema numerico posizionale. Quest'ultimo
rese obsoleto l'uso dell'abaco, che era giustificato principalmente dalle difficoltà di
eseguire i calcoli con il vecchio sistema di numerazione additivo, risultando invece con
esso più facili e rapidi. Infatti, il nuovo sistema di numerazione posizionale dava la
possibilità sia di rappresentare i numeri con maggior economia di simboli, sia di
semplificare i procedimenti del calcolo scritto, e pertanto vanificò il vantaggio
dell'abaco, decretandone, almeno in Europa, la definitiva scomparsa. Con l'identificazione
fra abaco e algoritmo si concluse la disputa fra abachisti e algoritmisti, vale a dire fra
coloro che sostenevano i vantaggi del calcolare per mezzo dell'abaco oppure con il sistema
di numerazione scritta.
Un errore di trascrizione
Verso la fine del primo libro dell'Ars Geometrica di Severino Boezio11 sono
contenute la descrizione e le regole d'uso dell'abaco neopitagorico, il quale è
menzionato proprio con il nome Mensa Pithagorica. Questo abaco, detto anche abaco
di Boezio, ebbe particolare diffusione nelle scuole claustrali medievali, per opera del
teologo e matematico francese Gerberto (950-1003 d.C.), divenuto papa col nome di
Silvestro II nel 999.
Nel riprodurre successivamente il manoscritto dell'Ars Geometrica, il copista, per
errore, sostituì l'abaco neopitagorico con la comune tavola di moltiplicazione, di
aspetto assai simile, conservando però per quest'ultima il nome di Tavola Pitagorica12 ,
che, dunque, non deve il suo nome né a Pitagora né ad alcuno dei suoi seguaci, bensì
soltanto a un errore di trascrizione.
Il quipu
Un sistema ingegnoso, quanto semplice ed economico, per rappresentare i numeri e far di
conto, è quello utilizzato dagli Incas, popolazione precolombiana, il cui fiorente impero
corrispondeva agli attuali territori del Perù, della Bolivia e dell'Ecuador. Questa
grande civiltà, i cui inizi risalgono soltanto al secolo XII, pur non conoscendo né la
ruota né la scrittura, almeno nel senso abituale del termine, mostra segni di alto
livello culturale, come traspare, fra le altre cose, dall'ingegnoso metodo adottato per
rappresentare i numeri e fare i calcoli. Il loro "abaco" era costituito da un
sofisticato sistema di cordicelle a nodi, il quipu o quipo, che significa
nodo. Esso assolveva altre molteplici funzioni, essendo utilizzato da specializzati
funzionari dell'impero, i quipucamayocs o guardiani dei nodi (figura 13), anche per
rappresentare eventi religiosi, come calendario, come registratore di rilevazioni
statistiche, come delatore di messaggi. Il quipu era formato da una cordicella
principale, lunga circa 60 cm, alla quale erano legate numerose altre cordicelle. Il
sistema utilizzato era il decimale. Le unità semplici erano rappresentate con altrettanti
nodi raggruppati in gruppi corrispondenti ai diversi ordini, unità semplici, decine,
centinaia ecc. Tali gruppi erano opportunamente distanziati lungo la stessa cordicella
(figura 14).
Il chimpu
Un sistema derivato dal quipu è tuttora usato dagli indios del Perù e della
Bolivia. Lo strumento, a cordicelle e nodi, si chiama chimpu (figura 15). I vari
ordini sono rappresentati da successive cordicelle: una singola cordicella corrisponde
alle unità semplici, due cordicelle legate assieme corrispondono alle decine, tre
cordicelle legate assieme corrispondono alle centinaia ecc. Le unità semplici sono
rappresentate da altrettanti nodi. Pertanto 5 nodi su una singola cordicella rappresentano
il numero cinque, 5 nodi su due cordicelle legate assieme rappresentano il numero
cinquanta, 5 nodi su tre cordicelle legate assieme rappresentano il numero cinquecento e
così via.
Il nepohualtzitzin
Recenti scavi archeologici hanno portato alla luce, nell'America centrale, l'abaco
utilizato dagli Aztechi nei secoli X-XI, molto simile agli abachi cinese e giapponese, ma
differente nel numero di palline situate nelle parti inferiore e superiore, 3 e 4
rispettivamente.
Lo Scoty
In Russia l'abaco, detto scoty o scet, ha la medesima struttura, ad aste o fili
verticali e palline, degli abachi cinese e giapponese, con la differenza che su ogni filo
ci sono dieci palline e non è diviso in due parti. Il sistema di numerazione
rappresentato è il decimale e ogni filo è dedicato a un ordine di unità. Il numero di
unità di ciascun ordine è ottenuto spostando verso il bordo superiore dell'abaco il
corrispondente numero di palline. Per facilitare con un solo colpo d'occhio la lettura del
numero di unità di ciascun ordine, le palline quinta e sesta sono di colore differente
dalle altre.
Note:
1 Nel sistema di numerazione additivo,
un numero è ottenuto per somma dei numeri indicati da opportuni simboli, i quali hanno il
medesimo valore quale che sia la loro collocazione all'interno della rappresentazione
dell'intero numero. In realtà il sistema dei Romani è un misto fra sistema additivo,
sottrattivo e moltiplicativo, cioè è additivo in senso lato, in quanto sottrazioni e
moltiplicazioni sono riconducibili a addizioni. Per esempio i Romani rappresentavano il
numero 43 con il numerale XLIII, in cui i simboli X, L e I rappresentano rispettivamente
dieci, cinquanta e uno. Nella prima parte del numerale è fatta la sottrazione fra
cinquanta e dieci (XV), mentre nella seconda parte si somma tre volte l'unità (III).
Inoltre, per rappresentare il numero novemila, per esempio, usavano il numerale IXM, che
rappresenta il numero in questione come prodotto fra nove (IX) e mille (M). Altro
carattere spurio del sistema di numerazione romano era costituito dalla base del sistema,
che era duplice: dieci (base primaria) e cinque (base ausiliaria). Infatti, usavano
numerali particolari per rappresentare raggruppamenti di unità in base cinque: V per
cinque, L per cinquanta, D per cinquecento ecc. Inoltre, la parte frazionaria era a base
dodici, poiché l'unità semplice, detta dai Romani axis, era divisa in dodici
once. Il loro sistema era dunque additivo, decimale e quinario per la parte intera,
duodecimale per la parte frazionaria.
2 Chabauillet, Catalogo n. 1898; Orioli, "Sopra uno specchio coi Dioscuri, e
la gemma così detta calcolatoria esistente a Parigi", in Bullett. Istit.,
1865, pp. 152-157.
3 Del Museo Capitolino, tomo IV, tav. 20, Fulgoni, Roma 1782.
4 Velseri, "Epistolae ad Viros Illustres", in Opera Omnia, Norimberga
1682, pp. 820-842.
5 Garrucci, "Notizia di una tavoletta calcolatoria romana", Bullettino
Archeologico Napolitano, Nuova serie, anno II, Decembre 1853, pp. 93-96.
6 I numerali indicati sono quelli arcaici (cfr. figura 9).
7 La caratteristica fondamentale di un abaco è il numero di anelli o palline o più in
generale di contatori che si trovano in ciascun filo delle due parti, solitamente
superiore e inferiore, in cui è diviso l'abaco. Così si dice che lo swan-pan è
un abaco 2/5, cioè ha su ogni filo due palline sopra e cinque palline sotto la linea
orizzontale di separazione, mentre il soroban è un abaco 1/4 ecc.
8 G. Libri, Histoire des sciences mathematiques en Italie, 1, Paris 1838, pp.
202-203.
9 Non comprendevano ancora lo zero.
10 Il termine algoritmo deriva dalla latinizzazione di Al Khovarizmi, soprannome
del matematico arabo Mohammed Ben Musa vissuto nel sec. IX, indicante la provincia
persiana del Korassan da cui proveniva.
11 Risalente molto probabilmente, secondo le moderne indagini filologiche, al secolo XI e
invece attribuita a Severino Boezio (480-526 d.C.), per il fatto che negli antichi
manoscritti essa si trova assieme all'opera De Institutione Arithmetica, compilata
dallo statista romano, come rifacimento dell'opera di Nicomaco di Gerasa Introduzione
Aritmetica del I secolo d.C.
12 V. G. Enestrom in Bibliotheca Mathematica (2) 8 (1894), a pagina 120, e
P.Tannery in L'Intermediaire des Mathematiciens 4(1897), nelle pagine 162-163,
citano la sostituzione dell'abaco neopitagorico con la tavola di moltiplicazione.
Bibliografia
1. G. Ifrah, Storia universale dei numeri, Mondadori, Milano 1989.
2. R. Bombelli, Studi archeologico-critici circa l'antica numerazione italica, 1,
Roma 1876.
3. V. G. Enestrom, Bibliotheca mathematica, (2) 8, anno 1894.
4. P. Tannery, L'Intermediaire des Mathematiciens, 4, anno 1897.
5. S. Boezio, De Institutione Arithmetica, Lipsia 1867. A cura di G. Friedlein.
6. M. Charles, Comptes Rendus hebdomadaires des Sciences de l'Academie des Sciences de
Paris, 16, anno 1843; 17 anno 1843; 64 anno 1867.
7. B. Boncompagni, Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche,
10, anno 1877; 14 anno 1881.
8. E. Narducci, Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche, 15,
anno 1882, 14
Siti di approfondimento:
htpp://www.ee.ryerson.ca:8080/ielf/abacus
htpp://www.show.it/china/abaco.htm
htpp://hawk.hama-med.ac.jp/dbk/abacus.html
htpp://www.cut-the-knot.com/blue/Abacus.html
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