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anno VIII n. 10 - ottobre 1999

  

 ITINERARI CULTURALI

San Paolo fuori le mura
Quel faro delle Genti…

di ALBERTO CRIELESI

La notte dal 15 al 16 luglio 1823 un violento incendio distrusse l’antica Basilica Ostiense… «parea –come riporta un documento dell’epoca– un Vesuvio terribile, sorpassando le fiamme superbe del loro fatale dominio le più alte montagne; giacché lungi quindici e più miglia si poté vedere cotanta disgrazia, che fece in ogni cuore un orrore sacro e penetrante…» Stendhal, presente in quei giorni a Roma, annotò nelle sue Passeggiate Romane le sensazione che provò nel vedere l’immane disastro: «...n’ebbi una dolorosa impressione come solo la musica di Mozart può darne idea; tutto narrava l’orrore e il disordine di quell’avvenimento disgraziato; la chiesa era ingombra di travi nere e fumanti, semibruciate; grossi frammenti di colonne spaccate dall’alto in basso minacciavano di cadere alla minima scossa…» Su le cause che provocarono l’incendio gravò il mistero; si parlò di sventatezza dei restauratori del tetto, ed essendo ancor freschi nella mente i fatti del 1821, della setta dei Carbonari e di vendette politiche: dell’antica costruzione –era la più bella chiesa di Roma, a cinque navate divise da 80 colonne e decorata da affreschi e mosaici– rimasero miracolosamente superstiti il ciborio e parte della zona absidale.
Pio VII finiva in quei giorni la sua travagliata esistenza ed il suo successore Leone XII, aiutato da tutta la Cristianità, diede opera alla sua riedificazione che fu diretta dagli architetti: G. Valadier (coadiuvato dal Salvi, il Paccagnini, A. Alippi); dal P.Belli, con Pietro Bosio, Alippi, Pietro Camporesi; e specialmente dal modenese Luigi Poletti (1792-1869), che ebbe tra i collaboratori il Vespignani, e che vi lavorò per ben sette lustri.
Nel 1840 Gregorio XVI consacrò il transetto e Pio IX tutta la Basilica nel 1854. Nel 1856 venne ornata la facciata, volta verso il Tevere, di mosaici a fondo oro su disegno di Filippo Agricola e Nicola Consoni con: Cristo benedicente fra i SS Pietro e Paolo; l’Agnus Dei sulla collina, dalla quale sgorgano i quattro Fiumi biblici a dissetare il Gregge cristiano tra le Città Sante e, tra i finestroni, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele.
Dopo l’Unità d’Italia, tra il 1873 e 1884, si ricostruì invece il nartece del Vespignani, e il fastoso quadriportico del Calderini concluso nel 1928, composti nell’insieme da ben 146 colonne monolitiche di granito rosso di Baveno e bianco di Montorfano. La porta centrale, in bronzo ageminato del Maraini (1931), sigillò il gigantesco lavoro ricostruttivo della basilica ostiense splendidamente risorta dalle sue ceneri.
Eretta sulla «cella memoriae» dell’Apostolo Paolo da Costantino il Grande, fu ampliata da Valentiniano II, nel 386, poi da Teodosio; il figlio di quest’ultimo, Onorio, la completò e la sorella di lui, Galla Placidia, la fece ornare con il bell’arco trionfale scintillante di mosaici. Nel sec. IX fu saccheggiata dai Saraceni sicché Giovanni VIII la cinse di mura fondando così un villaggio fortificato che venne chiamato Giovannipoli. Nel sec XI la basilica si arricchì di due importanti opere: il campanile ed il portale bronzeo donato da Pantaleone di Amalfi e forgiato a Costantinopoli.  Nel corso del Duecento e nei primi decenni di quello successivo furono realizzati: il candelabro, la decorazione del catino absidale, il mirabile chiostro, il tabernacolo, ed il ciclo pittorico del Cavallini. Un terremoto del 1349 danneggiò gravemente il complesso provocando, tra l’altro, la distruzione del campanile e parte del portico. Con la Cattività di Avignone, lo Scisma d’Occidente e le sventure che ne seguirono iniziò la decadenza della basilica che venne fatta riparare da Bonifacio IX, Martino V e maggiormente da Eugenio IV nel 1426. Altri interventi proseguirono sotto i papi successivi e questo sino a Benedetto XIV, nel 1747, che fece restaurare il ciclo di affreschi cavalliniano e la serie dei famosi ritratti papali dal pittore Monosilio.
Entrando nell’interno –di dimensioni quasi identiche a quella della Basilica Ulpia e della quale può fornirci un’idea perfetta– ci colpisce la solennità dell’insieme: la flebile luce che filtra dalle finestre chiuse da lastre in alabastro illumina la selva marmorea delle colonne che si specchiano sul vasto e prezioso tappeto marmoreo del pavimento. Nella controfacciata, le sei colonne di alabastro dono del Kedivè di Egitto del 1840. Alle pareti delle navate corre una fascia di medaglioni in mosaico con i ritratti di tutti i papi. Nei soffitti a lacunari dorati campeggiano gli stemmi dei pontefici legati alla storia della ricostruzione mentre il grande arco di trionfo, superstite dell’antica Basilica, con il Salvatore tra i 24 Seniori dell’Apocalisse, incornicia lo stupendo tabernacolo– magnifico esempio di arte toscana duecentesca– opera del subtilissimus et ingeniosus magister Arnolfo di Cambio (1285) cum socio Petro, quest’ultimo identificato in passato con Pietro Cavallini e più di recente con Pietro di Oderisio. L’elaboratissimo ciborio, posto sulla tomba dell’Apostolo, è retto da quattro colonne di porfido con capitelli dorati, su cui si impostano archi trilobi a sesto acuto sormontati da timpani triangolari. Nei pennacchi, bassorilievi e nei baldacchini angolari le statuine dei Ss. Pietro, Paolo, Timoteo e Benedetto. La copertura è un elegante fiorire di edicolette, guglie, ghimberghe e pinnacoli in marmo intarsiato.
Nel transetto, a destra, lo splendido candelabro pasquale eseguito, tra la fine del XII e gli inizi del secolo successivo, da Nicola di Angelo coadiuvato da Pietro Vassalletto; alto metri 5,60, il più grande di Roma, è sorretto nella base da quattro coppie di animali fantastici taluni leoni, altri con corpo felino e teste di ariete, di uomo e di donna, abbracciati da figure femminili posti in corrispondenza degli spigoli. Il fusto, diviso in sei parti sovrapposte ed istoriato con arabeschi e scene della Passione e Resurrezione di Cristo, termina con una coppa strigilata sorretta da mostri.
Conclude la vasta aula basilicale un’abside rilucente di mosaici antichi (1220) fortemente restaurati in cui domina, tra i Santi, la figura del Cristo in trono benedicente davanti al quale si prostra un minuscolo Onorio III. Nel registro inferiore la Hetimasia, ossia il trono vuoto con la croce e gli strumenti del martirio, tra Angeli e Apostoli.
Usciti da quel crepuscolo dorato della Basilica a volte «forato» da inaspettati fasci di luce, ci addentriamo nella soave e pacata luminosità del chiostro (1208-1235): stupendo esempio di quell’arte dei Cosmati e dei Vassalletto che, con eleganza, grazia e magnificenza, ci ha lasciato piccoli poemi di simboli e di Fede intagliati nel marmo. Negli ambulacri colonnine binate, lisce, ottagone, a spirale, intarsiate di mosaici sorreggono archetti su cui corre una iscrizione metrica in lingua latina che illustra cos’è un chiostro e quale è il suo compito nella vita monastica.
Usciti dal complesso, sulla Via Ostiense, tangente il catino absidale, la torre campanaria eretta dal Poletti tra il 1840 e il 1860.
Rivestita di travertino, è alta 65 metri suddivisi in cinque piani, di cui i primi due in forma quadrata, seguiti quindi da altri tre dove si sovrappongono nette forme geometriche: quadrato, ottagono, cerchio corrispondenti agli ordini dorico, ionico e corinzio che per ultimo adorna un tempietto circolare di sedici colonne che le fa da culmine.
L’architetto modenese volle creare così, sul modulo delle canoniche torri albertiane, un misto tra un solenne sepolcro romano ed il faro di un porto, si, un monumentale faro –come l’appellativo dato all’Apostolo Paolo– avvistabile lungo il corso fluviale del Tevere e l’asse dell’antica Via Ostiense che ricordasse a chi vi passasse vicino, tra l’altro, il culto dell’Apostolo delle Genti e la sua ecumenica dottrina.


 

  


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