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ITINERARI CULTURALI
Il Sacro Eremo Tuscolano di Monte Porzio
...qui si respira da secoli un'aura del silenzio, di mistico
raccoglimento ed anche, perché no, di mistero...
a cura di Alberto Crielesi
Per chi anela al quel vago senso di pace, alla bucolica serenità che
fu propria dei Castelli in cui l'arte o l'abbellimento dovuti all'uomo sono a volte
soltanto un esiguo supporto a quello che è il bello vero della natura, quale più soave
visione se non quella del Sacro Eremo Tuscolano!
A due passi da Frascati e da Monte Porzio e dai paesi che costellano le alture, e dalle
lussureggianti dimore dei papi e principi, qui si respira da secoli un'aura del silenzio,
di mistico raccoglimento ed anche, perché no, di mistero in quanto oltre quel portone
francamente è difficile penetrare e questo per non turbare la quiete, la solenne quiete,
che qui regna e che i monaci con la Regola di s. Romualdo si sono imposta.
Lasciata la via che da Frascati conduce al Tuscolo ed oltrepassato un cancello di ferro,
la strada sale dolcemente fiancheggiata dall'ombra dei castagni e questo sino ad un
rettilineo adornato da tigli. Un grande atrio ci accoglie nella penombra con un motto in
latino sull'anta della porta che così tradotto recita:
Ecco ho allontanato lo schivo
e sono rimasto ospite in solitudine.
Le originali "...tre rubbie di terreno boschivo situato nella
Grotta del Ceraso contrada Monte Celso, territorio di Monte Porzio....",
destinate alla costruzione dell'eremitaggio di Camaldoli, o Sacro Eremo Tuscolano, erano
state concesse alla Congregazione degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona, direttamente
dal papa Paolo V con un Breve del 27 gennaio 1607. La località scelta occupava il sito di
un'antica villa romana detta dei Furii che si estendeva dalle pendici del Monte Tuscolo,
verso settentrione, sino alla villa di Matidia, alle Cappellette.
Il 12 febbraio dello stesso anno, completati i dovuti atti amministrativi, il terreno fu
consegnato ai Padri nella figura del loro Procuratore Generale della Congregazione il P.
Alessandro Secchi.
I lavori ebbero subito inizio tantoché «...alli 19 di maggio 1607 essendo venuta la
Santità di Nostro Signore (Paolo V) a Mondragone a pranzo, il Procuratore La ringraziò
del luogo dato, le diede conto del principio fatto e le mostrò il disegno, e modello in
rilievo, il quale la Santità sua vide con molta allegrezza e promise di aiutare...».
La sera del 7 dicembre dello stesso anno il primo nucleo di monaci -un sacerdote ed un
converso- si trasferirono dalla vicina villa Mondragone, ove erano stati ospiti del Duca
Altemps al nuovo eremo in costruzione. Qui, completamente isolati dal mondo, i frati
Camaldolesi, s'insediarono nel migliore dei modi, secondo, naturalmente, le regole del
loro Ordine, vivendo nel silenzio assoluto nelle celle individuali e coltivando
l'orticello loro assegnato, lontani dai contatti con il mondo.
Non mancarono in seguito ulteriori donazioni di papa Borghese né quelle d'altri munifici
benefattori che in maniera diversa aiutarono il completamento dell'eremo; tra i tanti da
ricordare i Cardinali Giustiniani, Gonzaga, Del Monte, ecc. i Signori Pignatelli, Giovanni
Sitico Altemps, Confalonieri, il Duca di Mantova, il polacco Nicola Wolski ecc.
Ognuno contribuì all'edificazione di una delle 26 celle individuali per i monaci che
furono sistemate in quattro fila.
Nel 1610 anche la chiesa, dedicata a s. Romualdo, era terminata tantoché l'11 ottobre
dello stesso anno Paolo V saliva all'eremo per celebrarvi la prima messa.
Completata la maggior parte delle costruzioni si provvide a trovare dei fondi per il
sostentamento della neo comunità. Tra i solerti benefattori che risposero a questa
richiesta è da ricordare la Principessa Ortensia Santacroce, maritata a Giambattista
Borghese, fratello del papa, che volle donare all'eremo delle rendite, e decorare la
cappella Borghese, oggi del Capitolo, la stessa dove per sua volontà fu sepolta. Ancor
oggi un lastra terragna di marmo chiude l'avello dell'unica donna che riposa nell'ambito
delle mura di Camaldoli. Già nei successivi decenni del Seicento l'eremo reclamava
manutenzione nelle costruzioni che la non certo florida economia della comunità monastica
non era in grado di assecondare e come se non bastasse nell'aprile del 1638 un violento
incendio danneggiò la allora cappella del Capitolo -quella della S. Croce- causando gravi
danni ed irreparabili perdite tra le suppellettili sacre custodite al punto che essendosi
"...ogni cosa ridotta in cenere, che non si puote distinguere quali ceneri siano
delle Sante reliquie, et quali d'altra materia ..", si decise "... che
tutte quelle ceneri, et carboni raccolti si passino dentro una decente cassa...".
Gli anelati restauri furono attuati qualche decennio dopo e grazie alla magnanimità di
Marc'Antonio Borghese figlio di Giovan Battista e di Camilla Orsini. Ma la pace e la
serenità ed il silenzio che regnavano incontrastati nell'Eremo tuscolano nella prima
metà del sec. XVII erano destinati -come giustamente commenta il Devoti nel suo libro- ad
esser turbati dall'improvviso apparire sulla scena di Camaldoli del cardinale Domenico
Passionei, designato da Benedetto XIV Protettore della Congregazione degli Eremiti
Camaldolesi di Monte Corona, e rimasto affascinato dalla soavità del luogo «...aperto
ai venti, ma con la vista superba sulla Campagna Romana sottostante, sulla Città Eterna,
sui monti di Tivoli e d'Abruzzo...».
Era il 1738 quando il neo cardinale Passionei, considerata esaurita la sua carriera e
stanco della vita mondano-religiosa della sua professione, decise di fermarsi stabilmente
nell'eremo tuscolano. Così dopo aver girato mezzo mondo, scoprì che non poteva trovare
un rifugio più sereno e più adatto al suo temperamento dei Colli Tuscolani.
Il nostro personaggio era nato a Fossombrone nel 1682. Fu archeologo, diplomatico,
linguista, uomo di mondo, arcivescovo di Efeso, nunzio apostolico nei Paesi Bassi, a
Baden, in Svizzera, a Vienna (dove tra l'altro convertì al cattolicesimo il principe del
Wurtemberg e lo storico Ekkart). Fondò la chiesa di Sant'Edvige a Berlino, fu l'oratore
ufficiale nelle esequie del principe Eugenio di Savoia, e cardinale del titolo di s.
Lorenzo in Lucina dal 1738. Tra altro, l'illustre personaggio si era dedicato con la
stessa passione e diligenza alle gioie dello studio, della letteratura e alla raccolta di
opere d'arte, però fatta con precisione, spinta quasi alla perfezione. La sua richiesta
di ospitalità, accolta dai buoni monaci Camaldolesi non senza sorpresa e forse ignari di
quali mali futuri fosse foriera la sua presenza, l'accettarono con umiltà come un male
inevitabile capitato loro addosso per volontà dell'Eterno ed in virtù di quei voleri
imperscrutabili del destino, che nessuno ha il diritto di sindacare.
Il cardinale per il suo insediamento a Camaldoli, desideroso di conciliare la regola
monastica con i suoi desideri, fece erigere (ma sicuramente adattare) nel terreno del
monastero, separato dal resto dei fabbricati, un piccolo edificio -due piccoli padiglioni
con un giardino interposto- che volle, perlomeno esternamente, a somiglianza delle regole
camaldolesi.
Nel primo padiglione fece costruire quattro celle, una per la biblioteca, una per la
raccolta delle monete, delle gemme, degli avori, delle piccole statue di bronzo, una per
le raccolte delle stampe e la quarta per la pinacoteca. Nell'altro padiglione, destinato a
sua abitazione personale, si fece fabbricare una casetta graziosa in stile classico. Tutte
le costruzioni furono arricchite con pitture e decorazioni eseguite da molti artisti
chiamati dal prelato tra cui Biagio Cucchi, decoratore a Roma; Agostino di Frascati, cui
affidò la dipintura degli interni; Ignazio Heldman, un paesaggista tedesco e Raffaele
Contucci, quadraturista; mentre per la cappella un certo "Mario di Albano"
che eseguì le varie opere a stucco (Devoti). Quindi, per assecondare il suo eclettico
spirito umanistico, le pareti esterne della villetta e quelle interne delle altre celle
furono coperte letteralmente da circa ottocento e più iscrizioni latine e greche, pagane
e cristiane, in più da bassorilievi e vari frammenti archeologici. A lavori finiti la
costruzione venne a costare una bella cifra, così come riporta nel suo diario un
personaggio ospite tra i più abituali del cardinale, quel Pier Leone Ghezzi (1674-1755),
pittore, caricaturista, che rappresentò nella Roma del diciottesimo secolo la figura più
rifinita del cortigiano: «... Sua Eminenza - annota il pittore - deve aver
speso non meno di quarantamila scudi per attrezzarsi il suo ritiro di Camaldoli. Però la
casina che ha costruito è così bella che tutta Roma vuole vederla. Solo pochi nobili
possono vantare una villa costruita con tanta eleganza. Non v'è dubbio che il cardinale
sia l'unica persona di buon gusto di tutto il Sacro Collegio ...»
Dopo l'arrivo e la sistemazione del Cardinale nell'Eremo nel 1739, iniziarono gli
accennati turbamenti di pace e di serenità nell'ambito dell'eremo camaldolese: per tutto
l'anno e per ogni ora del giorno, si poteva udire il frastuono delle carrozze, delle
portantine, delle comitive a cavallo formate dagli innumerevoli amici del cardinale che
arrivavano da Roma, dalle cittadine intorno e dalle ville vicine e lontane dei Colli
Tuscolani ed Albani.
Nell'autunno del 1741 si avverarono i guai peggiori per gli eremiti, e fu quando il papa
Benedetto XIV annunziò che avrebbe fatto visita al cardinale il 16 ottobre e Giacomo
Edoardo Stuart, il Pretendente, il 19 seguente. Il primo arrivò da Castel Gandolfo, in
gran pompa, scortato da uno squadrone di cento corazzieri a cavallo, il secondo da
Frascati con la sola scorta di due bellissime principesse, la Borghese e la Pallavicini.
Il cardinale Passionei mori all'età di settantanove anni il 5 luglio del 1761 a Roma, e
questo per un colpo apoplettico causato dagli affanni, e forse la sua fine fu affrettata
dal dolore di aver dovuto controfirmare, contro la sua coscienza e nella sua qualifica di
Segretario dei Brevi, la condanna dell'opera del giansenista Filippo Mezenguy, L`exposition
de la doctrine chrétienne, che proprio lui insieme al Bottari aveva fatta tradurre in
italiano dal canonico Domenico Cantagalli e stampare a Napoli nel 1759. Il nipote del
defunto, Benedetto, liquidò tutto quello che era stato di proprietà dello scomparso
cardinale, cioè statue, capitelli, quadri, libri, ecc. mentre tutte le iscrizioni ed i
frammenti archeologici furono riuniti in un catalogo da Michelangelo Monsacrati, un
canonico del Laterano che lasciò l'opera manoscritta. Fu pubblicata da Benedetto
Passionei a Lucca nel 1763, il quale, trovato il manoscritto tra le carte dello zio, lo
pubblicò con poco scrupolo e se ne dichiarò l'autore. A Camaldoli intanto gli stessi
eremiti abbatterono tutte le costruzioni create dal Passionei ad eccezione, secondo il
Devoti, di una ove era sistemata la cappella e questo "...per la paura che le loro
meditazioni potessero essere disturbate dall'arrivo di un nuovo occupante potente come il
cardinale defunto...".
Passata la bufera del Passionei la vita dell'eremo riprendeva il suo ritmo normale con i
suoi problemi: il 25 febbraio 1762 il Capitolo approva l'abbattimento di 25 piante di
castagno per procurare legname necessario "...per commodo della casa, giacché si
tratta di riaggiustare la chiesa che minaccia ruina...". Anzi, vista
l'impossibilità di restaurarla si provvide ad abbatterla e ricostruirla di sana pianta
"cominciò la chiesa a minacciare rovina in guisa che ai nostri tempi fu
necessario atterarla ed erigersi da fondamenti una nuova chiesa...".
Per la sua edificazione il progetto fu affidato all'architetto Giuseppe Tarquini
professore di disegno nel Collegio Nazareno gestito dagli Scolopi a Roma e che, vista la
presenza di una Casa delle Scuole Pie a Frascati sicuramente i monaci ebbero modo di
conoscere.
Lo stesso Tarquini sarà presente qualche anno più tardi (1777) in un'altra cittadina
castellana, Albano, per la sopraelevazione dell'ex Palazzo Pamphili divenuto una sede
estiva del Nazareno di Roma.
Il giorno 25 ottobre 1772 alla presenza dell'Altezza Reale Enrico Benedetto duca di York,
cardinale e vescovo di Frascati, la chiesa, con un concorso eccezionale di popolo, venne
riconsacrata.
Ed ora superata la soglia di quel portale d'ingresso e percorrendo il grande cortile
selciato, la chiesa si presenta così come allora con la sua facciata sobria ed elegante
composta da quattro lesene giganti sorreggenti un timpano: tutte le membrature e i rilievi
sono di pietra sperone mentre specchiature sono costitute da mattoncini di piccolo
spessore. Completano la scenografia due costruzioni eguali e simmetriche che fanno da ali
alla facciata della chiesa.
Una doppia scalinata ci conduce all'ingresso: sulla parte che divide le due rampe è
murata la grande epigrafe del 1611 che ricorda la magnanimità di Papa Paolo V. Varcato
l'uscio, si presenta l'interno a navata unica, con quattro cappelline, due per lato, e
terminanti in un abside. I colori che predominano, e che nella penombra danno un senso di
eleganza, sono quelli tipici della dicromia barocca: il bianco freddo per le lesene ed
ordini ed il grigietto, o bianco caldo, per le spettanze o specchiature.
Guarniscono le arcate delle cappelle, i fastigi dell'altare maggiore e di quelli laterali
e la "Gloria" del catino absidale, gli stucchi di Giovanni Maria Rusca
con il quale gli Eremiti stipularono un contratto nei primi mesi del 1771 per la somma di
scudi 1600. Quattro porte si aprono sulla navata, sovrastate ognuna da bassorilievi in
stucco (1776) narranti brani della vita di s. Romualdo (s. Apollinare appare al giovane
Romualdo; s. Romualdo che veste l'abito benedettino; l'incontro del Santo coll'imperatore
Enrico; s. Romualdo con il doge Pietro Orseolo). Ne fu autore -secondo alcuni pareri-
quel Tommaso Righi (1727-1802) già attivo all'abbazia di Grottaferrata nel 1754 e che
terminò la sua vita a Varsavia, e proprio nel Museo della città polacca è stato
ritrovato un disegno autografo dell'artista rappresentante s. Apollinare e Romualdo molto
vicino all'analogo bassorilievo di Camaldoli tanto da far attestare la paternità delle
opere nell'eremo tuscolano.
Conclude l'interno un bell'altare maggiore "in marmi mischi" con la pala
di Antiveduto Gramatica (1571-1626) rappresantante "Il sogno di s. Romualdo",
opera -a dire del biografo del pittore, il Mancini- antecedente al 1620 e quindi facente
parte insieme, con altre opere dello stesso autore, dell'arredo della vecchia chiesa.
Dopo una rapida visione degli altri interni, dirigiamo i passi verso il settore delle
celle solitarie, ridotte ora a quindici e tutte allineate in triplice fila su quattro
viali. Oltre l'ultima fila si eleva il muro che delimita la clausura e che fu lo stesso
che fu innalzato per separare gli eremiti dai padiglioni occupati dal Passionei. Siepi di
bosso, rose rampicanti e vari alberelli da frutta circoscrivono le aree delle celle
coll'annesso minuscolo giardino. Sul muro perimetrale di uno di questi, un altro
bassorilievo in stucco (del Righi?) che ripete un tema tanto caro al mondo camaldolese,
quel Sogno di s. Romualdo con il Santo dormiente sollecitato da un Angelo che gli
indica l'Altissimo.
Ora virtualmente lasciamo l'Eremo come virtualmente in silenzio vi siamo entrati, il
pesante portone dell'atrio sì è richiuso solennemente alle nostre spalle....
Alberto Crielesi
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